DI S.AMANN, M.FROHLINGSDORF E U. LUDWIG
Der Spiegel
L’industria della carne suina tedesca è efficiente e sforna prodotti a basso costo. Dietro questo sistema, però, ci sono operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche d’allevamento che usano enormi quantità di antibiotici.
Meinolf è praticamente il meglio che può capitare a una scrofa. Certo, non è bellissimo: ha sette anni, pesa 112 chili e il lardo della sua groppa ha uno spessore di sette centimetri. Ma ha un talento particolare: sa generare porcellini perfetti. Meinolf è un verro geneticamente perfetto, uno dei maiali dal più alto rendimento tra quelli del centro d’inseminazione suina di Weser-Ems, in Bassa Sassonia. Il centro pubblicizza Meinolf in uno dei suoi cataloghi che parlano di formule di rendimento a livello di allevamento e macellazione, di ottimizzazione dei mangimi e di quota di muscolo sul totale della carne. Su 148 pagine ci sono ben sedici doppie pagine dedicate alle qualità di altrettanti verri. È una specie di calendario di pinup riservato agli allevatori di suini.
Con il suo milione e mezzo di provette di sperma suino prodotte e commercializzate ogni anno, quello di Weser-Ems è uno dei centri d’inseminazione più grandi d’Europa. Per assicurare il successo dell’azienda, Meinolf se ne sta rinchiuso in un box sterile, dove l’unica cosa che può montare è un “fantasma” di scrofa. Meinolf si trova all’inizio della catena tedesca di produzione della carne suina, un settore che cresce senza sosta da anni e il cui successo dipende dal fatto che ogni vittima deve rendere al massimo: le bestie, i produttori e i loro dipendenti. E perfino i consumatori, che pagano un prezzo salato, anche se occulto, per una carne made in Germany prodotta a basso costo e con grande efficienza.
I rappresentanti dell’industria della carne, gli allevatori, gli ingrassatori e i macellatori si sentono spesso incompresi e ingiustamente messi alla gogna. Tuttavia anche chi li critica ha validi argomenti contro il piano di battaglia globale dell’industria zootecnica, un sistema che provoca danni agli esseri umani, agli animali e all’ambiente. Il liquame degli allevamenti, per esempio, è un problema per le falde acquifere. A questo si aggiungono i frequenti casi di maltrattamento degli animali e le importazioni di foraggio, le cui coltivazioni portano all’abbattimento di intere foreste pluviali in Sudamerica.
Ma non basta: spesso si somministrano antibiotici ai suini per proteggere gli allevamenti dalle malattie. Si creano così ceppi di germi resistenti, contro i quali a un certo punto neanche gli esseri umani riusciranno più a spuntarla. Poi ci sono i mattatoi, vere e proprie fabbriche organizzate per ottimizzare l’efficienza. Un buon esempio è quello di Clemens Tönnies, un imprenditore del Nord Reno-Westfalia spesso al centro di aspre critiche sia per le tecniche di macellazione sia per il basso livello dei salari.
Tabella di marcia
La zootecnia è una macchina potente che va dalle provette con lo sperma dei verri da riproduzione come Meinolf alla fabbricazione di gelatina da qualche parte in Cina o in Brasile. Christian Henne è un agricoltore di Deitersen, un antico villaggio nel sud della Bassa Sassonia. Henne alleva porcellini che poi vende a diversi ingrassatori. Nelle sue stalle ha circa settecento scrofe, che partoriscono diciottomila porcellini all’anno, rispettando una tabella di marcia studiata nei minimi dettagli. Le operazioni di stimolazione ormonale e di inseminazione delle scrofe si svolgono sempre di martedì. Quindi comincia la grande parata del verro, che però serve solo a creare l’atmosfera giusta: il povero verro, infatti, scorrazza avanti e indietro di fronte alle scrofe rinchiuse nei loro angusti box e in questo modo le stimola. Nel frattempo Henne e i suoi dipendenti inseriscono con l’aiuto di una lunga pipetta di plastica lo sperma contenuto in una provetta da 2,50 euro. L’obiettivo è far nascere dodici o tredici porcellini per ogni scrofa. La “produzione ottimale”, dice Henne. In questo settore l’ottimizzazione è tutto.
Ogni anno bisogna produrre almeno 39 chili di carne suina per ogni tedesco, che si aggiungono ai 22 chili di carne di vitello, pollo, tacchino e di altri animali. Questa fame di carne aumenta continuamente in tutto il mondo, sia nei paesi in via di sviluppo dell’Asia e del Sudamerica sia in Germania, dove l’85 per cento dei tedeschi mangia carne e salsicce ogni giorno, o quasi.
In Germania il consumo di carne suina è quasi triplicato dal 1950. Lo si vede chiaramente osservando gli scaffali dei supermercati, dove ci sono metri e metri di confezioni di carne ben impacchettate e a buon mercato. Nei supermercati Rewe si possono comprare quattro bistecche di collo già marinate per 3,49 euro. La catena di supermercati Netto offre cinque braciole a 2,39 euro. Questa abbondanza, però, ha un costo che il prezzo sull’etichetta non rivela.
Ormai nel settore si parla solo di aumenti di produzione, delocalizzazioni, numero di porcellini per ora di lavoro. Crescita e calo, quantità anziché qualità. C’è stato un radicale cambiamento dell’industria zootecnica di cui l’opinione pubblica non si è quasi accorta. L’allevamento di animali e la produzione di carne sono diventati uno dei comparti più produttivi del settore agricolo. Nei paesi industrializzati rappresenta più della metà dell’intera produzione agricola, e non sono più una rarità gli allevamenti da duemila maiali o quarantamila polli. Mettere in discussione questo sviluppo, ormai, non turba più di tanto i protagonisti del settore. Ma la resistenza contro gli allevamenti intensivi è in aumento. È giusto produrre carne in questo modo? È possibile produrre animali come fossero articoli di serie? È necessario? È lecito? Cos’è che non va in questa catena di sfruttamento?
Il parto
Nella stalla di Henne un veterinario verifica se la fecondazione ha funzionato. Se l’ecografia rileva una gravidanza, la scrofa viene contrassegnata con un marchio colorato. Poi comincia l’attesa, che nei suini dura 110 giorni. Fino al parto, le scrofe passano il tempo insieme nella cosiddetta stalla d’attesa (all’inizio del 2013 l’Unione europea lo ha imposto per legge). Henne fa tutto quello che può per rendere la vita piacevole alle sue scrofe, che vivono anche in 35 nella stessa sezione di stalla. Ma per quelle che preferiscono la solitudine, Henne ha introdotto delle pareti divisorie. E per giocare, gli animali hanno a disposizione catene e cavi.
Circa una settimana prima che la gestazione finisca, le scrofe vengono portate nelle stalle da parto. Qui giacciono sotto telai metallici rotondi, dall’aspetto marziale, che ne limitano i movimenti per impedirgli che si girino a destra o a sinistra e schiaccino per sbaglio uno dei cuccioli. Il massimo del ritardo accettabile per una scrofa gravida è di ventiquattr’ore, scadute le quali il parto è indotto con la somministrazione di ormoni. Mentre l’inseminazione avviene sempre di martedì, i porcellini devono nascere sempre di giovedì. Non tutti gli animali però se la passano bene come nella fattoria di Henne. Gran parte dei maiali è ancora tenuta per quasi tutto il tempo in box singoli dove, secondo la Lega per la protezione degli animali, è praticamente impossibile muoversi. Uno studio di Eurogroup for animals mostra che finora solo il 73 per cento degli allevatori tedeschi ha modificato i suoi metodi per rendere possibile, come prescritto, la vita di gruppo delle scrofe gravide. Gli allevatori lavorano talmente bene che spesso il numero dei porcellini nati da ogni scrofa è maggiore di quello delle mammelle. Il problema è che dopo qualche cucciolata le mammelle della scrofa sono così consumate che non riescono più a nutrire tutti i porcellini nella stessa misura. Capita quindi che la scrofa sia spedita al macello perché “improduttiva” quando ha cinque o sei anni, mentre la sua “normale” speranza di vita sarebbe di quindici anni.
Anche la vita dei porcellini segue una tabella di marcia rigorosa. Per i primi ventotto giorni sono lasciati in compagnia della madre. Poi sono selezionati per taglia e spostati nelle cosiddette stalle di crescita, dove restano 6-8 settimane per metter su più peso possibile. L’aumento ideale è di quattrocento grammi al giorno. In questo periodo ogni maialino viene vaccinato e, per renderne possibile la tracciabilità, si applica un marchio all’orecchio. Inoltre, per evitare che i porcellini si feriscano a vicenda, gli vengono limati i denti e gli viene tagliata la coda. La maggior parte dei maschi viene castrata. Per evitare che la loro carne prenda un odore di verro troppo penetrante, già nei primi giorni di vita si asportano i testicoli: per lo più, almeno negli allevamenti tradizionali, senza anestesia, ma con la semplice somministrazione di un analgesico, il Metacam. Questo metodo dovrebbe essere vietato dal 2019.
“Da tempo”, dice Henne, “ciò che facciamo qui non ha più niente a che fare con le idee romantiche dei consumatori”. Secondo Henne, la zootecnia è cambiata in modo radicale, dimenticando completamente i consumatori. Per rimediare, ha scelto di aprire le sue stalle ai bambini delle scuole elementari e dell’asilo: “Non abbiamo niente da nascondere. Però anche noi, come tutti gli altri, dobbiamo guadagnare con il nostro lavoro”.
L’ingrasso
Nella sua stalla, Horst-Friedrich Hölling ha quattromila maiali. Eppure se uno solo non sta bene, lui se ne accorge: “Quando hanno problemi di digestione, diventano più pallidi”. Oppure hanno le setole più ispide e, in caso di febbre, opache. “Oggi la tecnologia ci risparmia parecchio lavoro”, dice questo grande allevatore di Salzhem- mendorf, nella Bassa Sassonia. Ma bisogna ancora avere l’occhio clinico: “Solo così si capisce se un animale è sano”.
Questo è importante per un ingrassatore di maiali come Hölling: con le bestie malate non si guadagna. Molti dei porcellini di Henne finiscono da lui dove, nel giro di poco tempo, diventano grandi e pesanti. In quattro mesi il peso di un maialino quadruplica: da trenta chili fino a 110 e anche 120. Per gli allevatori, un porcellino che “cresce allegramente” (dicono proprio così) è quello che aumenta di 850 grammi al giorno. Ma i suini di certe razze mettono su peso con tale rapidità che lo scheletro non riesce a stare al passo con la crescita e le ossa si spezzano. Insomma, per questi animali non sempre crescere è una faccenda allegra.
In un box vivono insieme tra i dodici e i quindici maiali. Perché gli animali restino abbastanza puliti e asciutti, nel pavimento ci sono delle fessure in cui cadono l’urina e gli escrementi. In questi ultimi anni i box sono diventati sempre più spaziosi. Lo si vede bene nella regione del Südoldenburg, il vero centro della zootecnia tedesca. Nei distretti rurali di Vechta e Cloppenburg, tra Brema e Osnabrück, vivono più di due milioni di maiali da ingrasso. La chiamano “cintura del liquame”, perché i maiali, nella loro pur breve vita, producono ognuno circa 1,5 metri cubi di urina ed escrementi, che creano un problema non solo estetico ma anche logistico. Secondo la camera dell’agricoltura della Bassa Sassonia, nel Südoldenburg i liquami sono eccessivi e in parte iniscono nelle falde acquifere sotterranee.
Il geologo Egon Harms, che lavora per la Oldenburgisch-Ostfriesischen Wasser- verband, una delle più grandi aziende idriche della Germania, ha il compito di assicurare la potabilità dell’acqua. Anche nella cintura del liquame. “Negli ultimi sette, otto anni”, spiega Harms, “nelle falde freatiche più superficiali della zona il livello di nitrati è aumentato in modo preoccupante”.
Quanto sia grave il problema dei liquami lo dimostrano le stime della camera dell’agricoltura della Bassa Sassonia. Solo nei due distretti rurali agricoli di Cloppenburg e Vechta i liquami raggiungono i 7,4 milioni di tonnellate all’anno, ma nei campi non è possibile scaricarne neanche la metà: il resto deve essere trasportato in zone meno inquinate. Per fare questo, però, un’autocisterna dovrebbe compiere circa 120mila viaggi.
Il governo della Bassa Sassonia sospetta che gli agricoltori non si attengano rigorosamente alle prescrizioni sul quantitativo di letame impiegato e ne sversino di nascosto nei campi più di quanto sia tollerabile per l’ambiente. Per questo il ministro dell’agricoltura del land, Christian Meyer, un esponente dei Verdi, vuole far controllare i certificati di eliminazione. Tutto questo non favorisce l’immagine dell’industria agroalimentare. Molti cittadini cominciano a protestare. Per esempio a Damme, uno dei comuni con il più alto numero di animali in Europa. Qui perfino a qualche agricoltore sembra eccessiva l’espansione degli allevamenti. Per questo cinque anni fa il comune ha cominciato a imporre determinati requisiti edilizi alle aziende agricole e zootecniche. Come spiega il sindaco Gerd Muhle, le imprese di altri settori avrebbero avuto difficoltà ad assumere personale qualificato se la gente si fosse rifiutata di vivere in mezzo alle stalle. “L’agricoltura industrializzata non è più accettata come prima”.
La costruzione di nuove stalle diventa sempre più una questione politica. I residenti temono che i loro immobili perdano valore, si preoccupano per i germi e per l’odore, vedono minacciata la qualità della vita e la salute. Quattro anni fa a Magdeburgo è nata la rete civica Bauernhöfe statt Agrarfabriken (Fattorie invece di fabbriche agricole), a cui aderiscono ormai duecentocinquanta tra gruppi, associazioni e circoli. Eckehard Niemann, il portavoce del Gruppo per un’agricoltura degli agricoltori, considera un grande successo questa resistenza organizzata: “Nell’ultimo anno siamo riusciti a impedire a ventotto di queste fabbriche di animali di stabilirsi qui”.
Ma in che momento un allevamento diventa una fabbrica di animali? Quando arriva a cento, a cinquecento o a mille capi? Per un maiale, in fondo, non è la stessa cosa se nella sua stalla i box sono tre oppure trecento? E non è forse vero che con le dimensioni dell’impresa aumenta anche la professionalità? Resta il fatto che, a diferenza di quanto succede per la produzione di pizze pronte o di yogurt, il prodotto dell’industria della carne è un animale vivo e che questa modalità di allevamento minaccia non solo i maiali, ma anche i consumatori. Lo dimostra soprattutto l’impiego degli antibiotici. Secondo le ultime stime dell’ufficio federale per la protezione dei consumatori e la sicurezza alimentare, i veterinari tedeschi somministrano agli animali, attraverso iniezioni o con il mangime, 1.734 tonnellate di antibiotici all’anno, più del doppio di quelli prescritti ai cittadini tedeschi. Molti maiali prendono questi medicinali anche per sessanta giorni di seguito, e spesso ai porcellini si somministra un antibiotico subito dopo la nascita.
Tutto questo succede semplicemente perché gli allevatori hanno paura che le bestie possano ammalarsi. Secondo Thomas Blaha, docente dell’istituto superiore di veterinaria di Hannover, ogni anno si somministrano fino a 520 tonnellate di antibiotici per “le esigenze di sicurezza degli allevatori”. Molti veterinari distribuiscono abitualmente i farmaci a scopo profilattico, nonostante i severi divieti, e i produttori di antibiotici stanno al gioco perché ci guadagnano.
Ma tutti gli esperti concordano nel ritenere che l’uso di questi giganteschi quantitativi di antibiotici sia molto pericoloso. Quanto più alte sono le dosi, tanto maggiore è il rischio che si sviluppino dei ceppi resistenti. In questo modo si rischia di spuntare l’arma più eicace nella lotta contro molte malattie infettive.
Le conseguenze di questa follia degli antibiotici già si vedono. I veterinari prescrivono anche farmaci che si usano per curare le persone. Di conseguenza si diffondono germi multiresistenti che possono rendere inefficaci gli antibiotici usati in medicina. Secondo Petra Gastmeier, igienista dell’ospedale berlinese della Charité, questi agenti causano dal 5 al 10 per cento di tutte le infezioni curate in ospedale. Dagli studi condotti in varie cliniche è emerso che il 20 per cento degli agenti proviene dalle attività agricole. Nei Paesi Bassi, per esempio, a causa del rischio troppo alto di infezione è diventato obbligatorio sottoporre i pazienti che lavorano in agricoltura a dei test di controllo ed eventualmente metterli in quarantena.
Il pericolo non è rappresentato solo dal contatto diretto con gli animali. Anche i gas di scarico degli allevamenti di maiali da ingrasso fanno la loro parte nella diffusione di questi germi. “Ma il pericolo più grave è lo sversamento dei liquami nei campi coltivati”, dice Michael Schönbauer, ex veterinario capo dell’ente austriaco per la salute e la sicurezza alimentare.
Sembra invece che il consumo di carne suina sia relativamente esente da rischi per chi la mangia. È vero, alcuni studi hanno dimostrato che contiene un germe resistente, l’Mrsa (Staphylococcus aureus), ma questi germi sono eliminati dalla cottura. La carne può diventare pericolosa solo se, durante lo scongelamento, l’acqua contaminata dai germi entra in contatto con eventuali ferite di chi sta cucinando.
I politici sono al corrente del problema da anni, ma finora si sono piegati alle lobby degli allevatori. Il ministro per la protezione dei consumatori del Nord Reno-Westfalia, il verde Johannes Remmel, lotta per ottenere una legge che riduca l’impiego di antibiotici. Lo ha convinto uno studio condotto nell’ultimo anno dai pollicultori. Si è scoperto che, nell’arco della loro vita, a più del 90 per cento dei polli si somministrano in alcuni casi anche otto tipi diversi di antibiotici.
Macellazione
L’ultima cosa che i maiali da ingrasso vedono normalmente prima di morire è un corridoio grigio largo circa due metri e leggermente in salita. Dopo una o due svolte, gli animali entrano a gruppi di quattro o cinque in una specie di montacarichi. Sono tranquilli, persino curiosi, vengono spinti da una grata automatica, poi la porta si chiude. A quel punto arriva il gas. Nello stabilimento di macellazione suina di Clemens Tönnies, a Rheda-Wiedenbrück, il più grande d’Europa, questo posto è sorprendentemente silenzioso. Ogni giorno qui sono abbattuti circa 25mila suini: 1.700 all’ora. Eppure quasi non si sente un rumore: niente squittii, niente mugolii, nessun lamento.
Secondo Tönnies è perché le bestie si sentono bene fino all’ultimo istante. Diciamo pure che devono sentirsi bene, perché lo stress rovinerebbe la qualità della loro carne. Insomma, qui la felicità degli animali diventa letteralmente una questione finanziaria, una voce di bilancio. Quando i maiali arrivano, trovano qualcosa da bere e hanno due ore per riprendersi dall’agitazione del viaggio. Inoltre, non sono soli, ma in gruppo, e il pavimento che calpestano è riscaldato.
Mentre gli animali scendono di due o tre metri a bordo del montacarichi, sono storditi con l’anidride carbonica, sospinti su un nastro trasportatore e quindi appesi per le zampe posteriori a due ganci. Poi un apparecchio automatico li solleva e li mette su una specie di piedistallo dov’è in attesa il macellaio. Nel giro di pochi secondi si dissanguano, la circolazione si ferma, il cuore smette di battere. In questo modo si spedisce all’aldilà un maiale ogni tre secondi. “Attualmente è il modo migliore per mettere fine alla vita di una bestia”, dice Tönnies, tutto fiero dell’efficienza della sua gigantesca macchina. Che qualcuno possa avere problemi di principio con questa uccisione di massa Tönnies non lo concepisce: “Sarebbe forse meglio se gli animali fossero abbattuti in tanti macelli diversi, chiaramente più piccoli e in condizioni peggiori?”.
È la visione razionale di un “prodotto” che un tempo era un animale. Si tratta di produrre una merce che ha compratori in tutto il mondo. E questo procedimento deve svolgersi nel modo migliore, più corretto e più efficiente possibile, con l’impiego di tecnologie avanzate. Ogni maiale è misurato con un apparecchio a ultrasuoni. Una volta abbattuto, è scansionato per misurare con assoluta precisione la quota di muscolo, di grasso, di ossa e di cotenna. Per queste componenti esistono valori obbligatori, in base ai quali si calcola il prezzo che l’allevatore intasca per ogni maiale. È l’inizio di un processo di produzione pensato in ogni minimo dettaglio. Nel mattatoio di Tönnies ogni colpo, ogni taglio è curato alla perfezione. Come prima cosa, i maiali scorrono davanti al veterinario, il quale controlla gli organi e annota eventuali osservazioni. Tutto ciò che non è in linea con la normativa viene scartato.
A questo punto le carcasse sono eviscerate e fatte a pezzi. Grazie a un transponder situato nel gancio, il nastro trasportatore sa esattamente in che direzione smistare i vari pezzi. I cosci più grossi andranno in Italia, quelli un po’ più sottili in Spagna e in Francia. Ma per questo lavoro, stressante sotto ogni profilo, servono degli esseri umani. Eppure i compensi pagati da Tönnies e dai suoi concorrenti sono spesso da fame. Il successo dell’industria della carne poggia anche sulla riduzione dei salari. Da tempo le aziende hanno smesso di assumere lavoratori specializzati tedeschi per appaltare l’opera ad aziende dell’Europa dell’est. Oggi, secondo le stime, settemila tra romeni, polacchi e ungheresi sezionano maiali, disossano prosciutti e macinano carne negli stabilimenti industriali tedeschi.
“Tutto il sistema si basa sul dumping dei salari”, dice Matthias Brümmer, delegato per la regione Oldenburg-Frisia orientale del Nahrung-Genuss-Gaststätten (Ngg), il sindacato dei lavoratori dell’alimentazione, della ristorazione e del settore alberghiero. Il sindacalista è impegnato da più di dieci anni contro l’industria della carne. Il suo ufficio si trova proprio accanto alla stazione ferroviaria di Oldenburg. Al muro c’è una lavagna bianca su cui esegue un semplice calcolo. Scrive “1,03 euro”, perché sa di casi in cui le aziende pagano esattamente questo importo ai subappaltanti per macellare un maiale. Una squadra di sessanta macellai lavora seicento maiali all’ora e “guadagna circa seicento euro”. Da questa cifra vanno detratte le spese per l’amministrazione, i materiali di lavoro, i costi accessori del lavoro. Cosa resta alla fine? “Una paga oraria di 5,04 euro lordi per addetto”.
Ma il calcolo si può fare anche in senso inverso. “Partiamo da una paga oraria decente”, dice Brümmer, “diciamo tra i 12 e i 14 euro”. Se così fosse, gli chiediamo, il cliente quanto pagherebbe in più per un chilo di carne di maiale? “Be’, la macellazione di un suino dovrebbe costare 2,50 euro. In questo caso al supermercato un chilo di cotolette non lo pagheremmo più 7,10 euro, ma 7,35 euro”. Il problema è che i commercianti hanno abituato i consumatori a prezzi bassi e non vanno certo a chiedere ai loro clienti se sono disposti a pagare 25 centesimi in più per far vivere meglio un macellaio romeno che per loro è un perfetto sconosciuto.
Ma l’avidità ha molte conseguenze, come si vede chiaramente a Essen, un comune di 8.500 abitanti della Bassa Sassonia, dove alle ultime elezioni municipali la Cdu ha preso quasi il 77 per cento dei voti. Nei dintorni ci sono molte fattorie e un grande macello. Guardandosi intorno si resta stupiti nel vedere che molte case hanno tendine o lenzuola alle finestre. Perino l’ex studio medico del centro sembra essersi trasformato in una specie di casa stregata. Ma le case non sono vuote. Al contrario: sono troppo piene. Qui abitano centinaia di persone. Sui citofoni ci sono spesso più di venti nomi. Essen è diventata un centro delle aziende fornitrici di manodopera dell’Europa orientale. Pare che ci siano ottocento lavoratori, forse anche mille, che in certi casi alloggiano in tre o quattro nello stesso locale buio.
Quanti siano esattamente e da dove vengano non lo sa nessuno, neanche in municipio. In giro per la cittadina si incontrano uomini con tute da quattro soldi e buste di plastica dei discount. Sempre più spesso si portano dietro le famiglie. La scuola superiore di Essen ha comunicato che sono arrivati 14 nuovi alunni che non parlano una parola di tedesco.
In ogni caso, di lavoro mal pagato sembra essercene abbastanza. Al mattatoio di Essen ogni settimana sono abbattuti, eviscerati e tagliati a pezzi 64mila suini. Il proprietario è la Danish Crown, una delle più grandi aziende del mondo nel settore. Gli scandinavi vanno dove il lavoro costa meno. Secondo il sindacalista Brümmer, in Danimarca i dipendenti dovrebbero pagarli tre volte di più che in Germania.
Nell’ultimo anno Brümmer è andato spesso ad Hannover e a Berlino. Una volta ha perino scritto all’allora presidente del consiglio della chiesa evangelica, la vescova Margot Käßmann, per portare il problema alla sua attenzione. La lettera non ha avuto risposta. “La questione non interessava a nessuno”, dice. Ma dallo scorso anno le cose sono cambiate. Il problema è stato scoperto dalla chiesa cattolica e durante la campagna elettorale se ne è parlato. Da allora il nuovo primo ministro della Bassa Sassonia, Stephan Weil, ha visitato Essen due volte e ha promesso che si darà da fare. A breve, inoltre, partiranno le trattative sull’introduzione di un salario minimo nel settore della macellazione, da quando perino un pezzo grosso del posto come Tönnies si è mostrato disposto a un compromesso. Il tema è all’ordine del giorno anche nei colloqui tra Cdu e Spd per la formazione del nuovo governo.
Le esportazioni
Quella che Tönnies deinisce scherzosamente “divisione diminutivi” si occupa di zampetti, codine, musetti e testine di maiale: roba che probabilmente farebbe passare per sempre ai consumatori tedeschi la voglia di mangiare carne. Eppure sono tutti prodotti commestibili.
Le parti meno nobili del suino prendono la strada dell’Asia: si vendono in Cina, in Indonesia, in Vietnam, in Thailandia. “C’è un compratore per ogni parte del maiale, si tratta solo di trovarlo”, spiega Tönnies, che esporta gli uteri in Cina, le trachee in Thailandia, le costine negli Stati Uniti e in Canada, la cotenna – in diciotto varianti diverse – nel resto del mondo.
C’è poi tutto quello che non può essere usato nell’alimentazione, cioè le ossa, il grasso, gli zoccoli, il sangue e il budello. Queste parti sono usate nell’industria chimica e farmaceutica, nella produzione di fertilizzanti, di lubrificanti e di mangimi. Gli allevatori di salmoni, per esempio, impiegano il plasma sanguigno dei suini per dare un bel colore rosato alla carne dei pesci. Inoltre, dagli scarti suini si ricavano minerali come il fosforo, il calcio o il magnesio. Quello che resta, come il carniccio residuale nelle acque di scarico o il letame, Tönnies lo brucia nelle caldaie della sua azienda: fornisce un calore persistente.
Questo dimostra che nella concorrenza globale non basta più semplicemente ammazzare qualche maiale: ormai si tratta di ricavare dagli animali il massimo possibile. E su questo piano i tedeschi sono davvero in gamba. Grazie al lavoro incessante di imprese come quella di Tönnies, la Germania è ormai la seconda esportatrice di carne suina dopo gli Stati Uniti. Nel 2011 ne ha vendute all’estero 645mila tonnellate. Con i suoi quasi sessanta milioni di suini macellati all’anno, è al terzo posto dopo la Cina e gli Stati Uniti. In Germania ci sono condizioni favorevoli: salari relativamente bassi, mangimi a buon mercato e standard elevati sull’igiene e la salute delle bestie. Almeno secondo i partner commerciali dei tedeschi.
L’industria zootecnica è caratterizzata da tecnologie ad alta intensità di capitale. Il mattatoio di Tönnies a Rheda-Wieden- brück – che il proprietario preferisce deifinire “stabilimento per l’estrazione di carni di qualità” – è costato finora 650 milioni di euro. Per questo ci sono poche aziende che si spartiscono gran parte della gigantesca produzione: imprese statunitensi, cinesi, brasiliane, tedesche e danesi. In cima all’elenco dei primi dieci produttori di carne del mondo c’è la Jbs, un’impresa brasiliana che ha un volume d’affari annuale di 28 miliardi di euro.
L’alta redditività della produzione di carne dipende anche da scelte politiche. Dal momento che la carne è considerata l’alimento di maggior pregio, da anni i politici ne sostengono la produzione con sussidi miliardari per la coltivazione del foraggio, per la costruzione di infrastrutture, per gli investimenti nelle stalle.
Secondo la Bund (associazione tedesca per la protezione dell’ambiente e della natura), nel 2009 sono stati fatti pagamenti diretti per un miliardo di euro solo per incoraggiare la coltivazione di foraggio per suini. E neanche la riforma della politica agricola dell’Unione europea ha fatto molto per cambiare le cose. “Il risultato è chiaro“, osserva critica Reinhild Benning, della Bund. “I costi effettivi della produzione non li pagano né gli ingrassatori né l’industria della carne. È per questo che si riescono a realizzare profitti così alti“.
La bistecca
Clemens Tönnies mangia carne spesso e volentieri. “Ogni giorno”, dice. E ancora più volentieri mangia gli insaccati: assume pochi carboidrati per tenersi in forma. Il dibattito sul rinunciare alla carne lo lascia indifferente. “Io accetto che ci siano i vegetariani, ma pretendo che loro accettino le persone come me”.
Il motivo per cui questa situazione gli va bene lo si è capito dal fatto che, nella recente campagna elettorale per il Bundestag, uno dei pochi momenti di discussione c’è stato quando i Verdi hanno proposto di istituire in Germania un veggie day, una “giornata vegetariana”. L’idea era che una volta a settimana le mense si astenessero volontariamente dal preparare piatti a base di carne. Hanno votato contro sia Horst See- hofer, leader dei conservatori della Csu, sia Sigmar Gabriel, il presidente della Spd. Anche i liberali si sono indignati davanti alla prospettiva di quell’indebita intromissione da parte dello stato. E perfino tra gli stessi Verdi la proposta ha suscitato polemiche. Eppure era tutt’altro che assurda. Nessuno lo sa meglio di Michael Sagner, presidente della Società europea di medicina preventiva e medicina degli stili di vita. Sagner non è rimasto stupito dal gran clamore intorno al veggie day: “Oggi sappiamo sempre più cose in materia di buona alimentazione e di dieta. Ma al tempo stesso il numero di persone che muoiono a causa delle loro abitudini di vita non è mai stato così alto”.
Sagner cita ricerche svolte dall’Organizzazione mondiale della sanità secondo cui negli esseri umani lo stato di salute dipende per l’80 per cento dallo stile di vita – in particolare dal moto e dall’alimentazione – e solo per il 20 per cento da una predisposizione. Insomma, infarti, ictus, diabete e cancro sarebbero causati prevalentemente da comportamenti sbagliati, tra cui una cattiva alimentazione e l’eccessivo consumo di carne rossa.
Non è certo una novità: gli esperti di educazione alimentare mettono in guardia da anni contro l’eccesso di carne, soprattutto quella grassa. Eppure da anni il suo consumo non fa che aumentare. “Per molte persone un pasto è davvero un pasto solo se c’è la carne”, ci dice Sagner. Lo studioso mostra un modello di calcolo elaborato nel Regno Unito: partendo da un consumo quotidiano medio di 50 grammi di carne, ogni volta che lo si raddoppia aumenta del 18 per cento il rischio di contrarre un cancro al colon e del 42 per cento quello di contrarre malattie cardiocircolatorie. La carne è poco sana per molti motivi. Il grasso presente nelle cotolette, nello stinco e nella pancetta alza il livello di colesterolo nel sangue, una delle prime cause gravi di malattie cardiache. E molto di questo pericoloso grasso si nasconde soprattutto nei salumi.
Sagner non chiede certo che l’umanità si astenga dal mangiare carne. Pensa semplicemente che “il consumo dovrebbe essere limitato a tre volte alla settimana”. La sua idea non riuscirà a imporsi rapidamente, ma l’argomentazione è interessante: l’alimentazione “più idonea” al genere umano si basa su prodotti vegetali, tant’è vero che la carne, fin dalla preistoria, è stata quasi sempre “un lusso”.
Resta il fatto che questo lusso non è mai stato così a portata di mano. Anche se non l’abbiamo mai pagato così caro.
MA
FONTE:
Originale italiano: Internazionale numero 1025 – 08 novembre 2013
Originale tedesco: Der Spiegel