IL PIANETA RISPONDE

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DI MICHAEL T. KLARE
tomdispatch.com

Introduzione di Tom Engelhardt

Lunedì il Segretario del Capo di Gabinetto, Yukio Edano, ha preso le difese del governo giapponese riguardo il disastro nucleare di Fukushima, insistendo sul fatto che l’impianto era in una “situazione stabile, relativamente parlando”. Questo suona un po’ come la descrizione ufficiale delle 11.500 tonnellate di acqua appositamente scaricate nell’oceano al largo di Fukushima “a basso livello di radioattività” o “leggermente radioattive”.

Lo è ‘leggermente’ se confrontata con la persino più radioattiva acqua conservata presso lo stesso impianto. Ma questi sono i fatti, in poche parole: si può lasciare così tanto all’occhio di chi osserva, e il governo giapponese non è stato significativamente più preoccupato rispetto alla Tokio Electric Power Company (TEPCO), che gestisce il complesso, nel vedere lontano quando si è trattato di Fukushima.

Martedì il governo ha finalmente alzato il livello di allerta a Fukushima sulla scala internazionale, dal livello 5 al 7 – “incidente molto grave” – il più alto previsto, usato solo una volta per il disastro di Chernobyl nel 1986 (che ha creato una “zona morta” di 15.000 miglia quadrate (3.884.982 ettari) in Ucraina). Sebbene i funzionari governativi si siano precipitati a sminuire il confronto con Chernobyl, un funzionario della TEPCO ha offerto questa inquietante diversificazione del rischio: “La nostra preoccupazione è che la quantità dei rilasci potrebbe alla fine raggiungere quella avvenuta a Chernobyl o superarla”.

In realtà, sul nostro pianeta intontito dai colpi non abbiamo mai visto qualcosa come quello che sta accadendo a Fukushima – non uno, ma quattro reattori nucleari adiacenti, tre dei quali sembrano aver subito uno scioglimento parziale e diverse vasche di contenimento per il carburante esaurito (che, in termini di radioattività è tutto meno che esaurito) in diverse condizioni di criticità.

Nel frattempo, dalle settimane necessarie a tenere la situazione sotto controllo si è passati ala paura di mesi, anni, decenni o forse servirà un intero secolo per la pulitura e il recupero. C’è l’ipotesi che una parte del nocciolo di almeno uno dei reattori sia già “fuoriuscita nella parte inferiore della sua struttura di contenimento” e ogni azione per portare il complesso sotto un qualche controllo sembra solo creare, o rischia di creare, altri problemi inaspettati (come l’acqua “leggermente radioattiva”).

Contemporaneamente, in mezzo alle scosse di assestamento dopo quella di 9.0 gradi Richter dell’11 marzo 2011 (e con la probabilità di altre scosse simili nei prossimi anni), il governo giapponese ha lentamente ampliato la “zona di evacuazione” di 20 chilometri (recentemente descritta dai visitatori come una misteriosa “zona della morte, come un episodio della Twilight Zone di Rod Serling incrociato con The Day After – una visione apocalittica della vita sulla terra nell’era nucleare”) attorno al complesso.

Solo questa settimana si è iniziato ad avvertire le donne incinte e i bambini di rimanere fuori da alcune aree fino a 30 km di distanza dall’impianto. Non deve sorprendere, considerando che in un piccolo numero di analisi effettuate sul suolo al di fuori dei 30 km – in un caso a 40 km da Fukushima – il Cesio 137 (il cui tempo di dimezzamento è di 30 anni) è stato riscontrato a livelli che hanno superato quelli che avevano costretto i residenti di Chernobyl ad andarsene. Molti dei centinaia di migliaia di giapponesi che vivevano in queste zone (e, se le cose peggiorano, anche al di là di esse), potrebbero non tornare mai più a casa.

Quello che è accaduto a Fukushima potrebbe essere uno spaventoso avvertimento che noi umani stiao oltrepassando il limite e che il nostro pianeta trova il modo di punirci per questa superbia? E, tenete a mente, i giapponesi in questo non sono affatto i soli. Dopo tutto negli USA almeno cinque reattori nucleari sono situati in “zone sismiche ad alto rischio” secondo un recente rapporto, che non comprende nemmeno il reattore di Indian Point, costruito su una faglia sismica a sole 30 miglia dal centro di New York, la mia città.

Forse, come suggerisce il solito TomDispatch di Michael Klare – autore di “Rising Powers, Shrinking Planet” – nell’articolo che segue, è ora di ricalibrare quando si tratta del modo con cui trattiamo il nostro pianeta Terra – prima che sia troppo tardi.
Tom

Nel suo libro del 2010, “Eaarth: Preparare una vita su un ostile Nuovo Pianeta”, l’attivista e studioso ambientale Bill McKibben descrive un pianeta così devastato dal riscaldamento globale che non è più riconoscibile come la Terra che un tempo abitavamo. Questo è un pianeta, predice, “di poli che si sciolgono e foreste morenti e un mare corrosivo e pesante, rastrellato dai venti, mitragliato dalle tempeste, bruciato dal calore”. Alterato dal mondo in cui la civiltà umana è nata e ha prosperato, ha bisogno di un nome nuovo – così gli ha aggiunto una “a”, “Eaarth”.

L’Eaarth che McKibben descrive è una vittima del consumo sfrenato delle risorse da parte del genere umano e delle sue emissioni incuranti di gas serra che alterano il clima. Vero, Eaarth causerà dolore e sofferenza agli umani, come il livello dei mari cresce e le coltivazioni deperiscono, ma come lui la ritrae, è essenzialmente una vittima della rapacità umana.

Con tutto il rispetto per la visione di McKibben, vorrei offrire un’altra prospettiva sulla sua (e nostra) Eaarth: come una potente protagonista nel suo diritto e come una vendicatrice, più che una semplice vittima.

Non basta pensare ad Eaarth come una vittima impotente dell’umana predazione. È anche un complesso sistema organico con molte difese potenti contro interventi esterni, difese che producono effetti devastanti quando si tratta di società umane. E tenete in mente: siamo solo all’inizio di questo processo.

Per comprendere la nostra situazione attuale, comunque, è necessario distinguere tra disturbi planetari ricorrenti e naturali e le risposte planetarie agli interventi umani. Entrambi necessitano di una rinfrescata, perciò iniziamo con cosa la Terra è stata capace di fare prima di rivolgerci alle risposte di Eaarth, la vendicatrice.

Sopravvalutare noi stessi

Il nostro pianeta è un complesso sistema naturale e, come tutti i sistemi, è in continua evoluzione. Mentre ciò accade – quando i continenti si separano, le catene montuose si alzano o si abbassano, i modelli climatici cambiano – si verificano terremoti, vulcani, tsunami, tifoni, siccità prolungate e altre perturbazioni natural, anche se in modo irregolare ed imprevedibile.

I nostri predecessori sul pianeta erano profondamente consapevoli di questa realtà. Dopo tutto le antiche civiltà venivano ripetutamente scosse, e in alcuni casi distrutte, da tali perturbazioni. Per esempio, è opinione diffusa che l’antica civiltà Minoica del Mediterraneo dell’est sia stata cancellata da un’enorme eruzione vulcanica sull’isola di Thera (chiamata anche Santorini) nella metà del secondo millennio prima di Cristo.

Evidenze archeologiche suggeriscono che molte altre civiltà siano state indebolite o distrutte da intensa attività vulcanica. In “Apocalypse: Earthquakes, Archaelogy and the Wrath of God” (“Apocalisse: terremoti, archeologia e la collera di Dio”) Amos Nur, geofisico dell’Università di Stanford e il suo co-autore Dawn Burgess suggeriscono che Troia, Micene, l’antica Gerico, Tenochtitlan e l’impero Ittita possano essere decaduti in questo modo.

Di fronte alle ricorrenti minacce di terremoti e vulcani, molte antiche religioni hanno personificato le forze della natura nella forma di dèi e dee e hanno elaborato rituali umani e offerte sacrificali per placare questi dei potenti. L’antico dio greco del mare, Poseidone (Nettuno per i Romani), altresì chiamato “lo scuotitore della terra”, si pensava causasse terremoti se provocato o arrabbiato.

In tempi più recenti, i pensatori hanno avuto la tendenza a farsi beffe di tali nozioni primitive e dei rituali connessi, suggerendo invece che scienza e tecnologia – i frutti della civiltà – offrono aiuto più che sufficiente per permetterci di trionfare sulle forze distruttive che governano la Terra. Questo cambiamento di coscienza è stato documentato in modo notevole da “A New Green History of The World” di Clive Ponting del 2007.

Citando pensatori influenti del mondo post-medievale, ci mostra come gli europei avevano acquisito la ferma convinzione che gli esseri umani dovrebbero e potrebbero governare la natura, non il contrario. Il matematico francese René Descartes, vissuto nel XVII secolo, per esempio, ha scritto di impiegare la scienza e le conoscenze umane per “poter rendere noi stessi i signori e padroni della natura”.

È possibile che questo sempre maggiore senso di controllo sulla natura sia stato rafforzato da un periodo durato poche centinaia di anni in cui ci potrebbe essere stato un numero minore di perturbazioni naturali a minacciare le civiltà.
In quei secoli le moderne Europa e Nord America, centri della Rivoluzione Industriale, non hanno sperimentato nulla di simile all’eruzione di Thera dell’era Minoica – o, per questo, qualsiasi cosa simile al doppio assalto del terremoto con magnitudo 9.0 e dello tsunami di 15 metri che hanno colpito il Giappone l’11 marzo.

Questa relativa immunità a tali pericoli fu il contesto nel quale si è sviluppata una civiltà molto complessa e tecnologicamente sofisticata che, per lungo tempo, ha dato per scontata la supremazia umana sulla natura su di un pianeta apparentemente quieto.

Ma questa è una valutazione accurata? Gli eventi recenti, dalle inondazioni che hanno sconvolto il 20 per cento del Pakistan e hanno messo sott’acqua le enormi pianure australiane agli incendi causati dalla siccità che hanno bruciato vaste aree della Russia, suggeriscono altrimenti. Negli ultimi anni il pianeta è stato colpito da un’ondata di forti eventi naturali, incluso il recente terremoto-tsunami del Giappone (con le sue numerose potenti repliche), il terremoto ad Haiti del gennaio 2010, il terremoto a febbraio 2010 in Cile, quello del febbraio scorso a Christchurch in Nuova Zelanda, nel marzo del 2011 in Myanmar e il devastante terremoto-tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano che ha ucciso più di 230.000 persone in 14 paesi, a causa di una serie di terremoti, di tsunami e di eruzioni vulcaniche in Indonesia e in tutta la zona circostante.

Se non altro questi eventi ci ricordano che la Terra è un sistema naturale in continua evoluzione, che i pochi secoli appena trascorsi non sono necessariamente predittivi dei prossimi, e che ci siamo cullati, nell’ultimo secolo in particolare, in un senso di compiacimento riguardo al nostro pianeta a mala pena giustificata. La cosa più importante che questi ci suggeriscono che potremmo – e pongo l’accento sul potremmo – ritornare in un’epoca in cui la frequenza di questi avvenimenti sia in aumento.

In questo contesto la follia e l’arroganza con cui abbiamo trattato le forze della natura viene messa prepotentemente a fuoco. Prendiamo cosa è successo al complesso nucleare di Fukushima–Daiichi nel Giappone del nord, dove almeno quattro reattori nucleari e le loro attigue vasche di contenimento per il combustibile nucleare esaurito sono tuttora fuori controllo.

I progettisti e proprietari dell’impianto non hanno ovviamente causato il terremoto e lo tsunami che hanno creato l’attuale rischio. Ciò è stato il risultato dell’evoluzione naturale del pianeta, in questo caso dell’improvviso movimento di placche continentali.
Ma loro sono ampiamente responsabili per aver fallito nel prevedere la potenziale catastrofe, per aver costruito un reattore su un sito che ha subito frequenti tsunami nel passato e per aver ipotizzato che le piattaforme in calcestruzzo possano contrastare ciò che di peggio la natura avesse da offrire.

Molto è stato detto sui difetti di progettazione dell’impianto di Fukushima e del suo inadeguato sistema di sicurezza. Tutto questo è senz’altro fondamentale, ma la causa ultima del disastro non era un semplice difetto di progettazione. Era l’arroganza, la sovrastima del potere dell’ingegnosità umana e una sottostima del potere della natura.

Quali futuri disastri saranno attesi in nome di tale arroganza? Nessuno, a questo punto, può dirlo con certezza, ma l’impianto di Fukushima non è il solo reattore costruito in zone sismiche attive o a rischio potenziale di altri eventi naturali. E non fermiamoci agli impianti nucleari.

Consideriamo, per esempio, tutte quelle piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico a rischio di uragani sempre più violenti o, nel caso di cicloni, sempre più potenti e frequenti; le piattaforme che il Brasile sta progettando di costruire in mare aperto a 290 km dalle sue coste nell’oceano Atlantico. E con i recenti eventi in Giappone, chi può sapere quale danno potrebbe infliggere un forte terremoto in California? Dopo tutto, anche la California ha siti nucleari sinistramente vicini alle faglie sismiche.

Sottovalutare Eaarth

L’arroganza è, comunque, solo uno dei modi con cui scateniamo le ire del pianeta. Di gran lunga più pericoloso e provocatorio è l’avvelenamento dell’atmosfera con i residui del consumo delle risorse, specialmente i combustibili fossili. Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, le emissioni totali di carbonio, derivati da tutte le forme di uso dell’energia, sono arrivati a 21,2 miliardi di tonnellate dal 1990 e si prevede di raggiungere i 42,4 miliardi di tonnellate nel 2035, un incremento del 100% in meno di mezzo secolo.

Più biossido di carbonio e gas serra scarichiamo nell’atmosfera, più alteriamo il naturale sistema climatico del pianeta e danneggiamo le altre entità vitali, tra cui gli oceani, le foreste e i ghiacciai. Tutti questi sono componenti della struttura del pianeta e, se danneggiati in questo modo, innescano meccanismi di difesa: l’aumento delle temperature, il cambiamento nei modelli delle precipitazioni e un aumento del livello dei mari, tra gli altri.

Il concetto di Terra come un sistema naturale complesso con molteplici azioni e reazioni fu proposto per la prima volta da uno studioso dell’ambiente, James Lovelock, nel 1960 e proposto nel 1979 nel suo libro, “Gaia: A New Look at Life on Earth” (“Gaia: un nuovo sguardo alla vita sulla Terra”) (Lovelock rubò il nome dell’antica dea greca Gaia, personificazione della Madre Terra, per la sua versione del nostro pianeta).

In questo e in altri lavori, Lovelock e i suoi collaboratori sostengono che tutti gli organismi biologici e il loro ambiente inorganico sul pianeta sono strettamente integrati nel formare un complesso sistema che si autoregola, mantenendo le condizioni necessarie per la vita, un concetto che chiamarono “Ipotesi Gaia”.
Quando una parte qualsiasi di questo sistema è danneggiata o alterata, le altre rispondono cercando di riparare o compensare il danno, in modo da ripristinare l’equilibrio essenziale.

Pensiamo al nostro corpo quando viene attaccato da microorganismi virulenti: la temperatura sale, produciamo più globuli bianchi e altri fluidi, dormiamo molto e mettiamo in campo altri meccanismi di difesa. Se si ha successo, le nostre difese prima neutralizzano ed eventualmente sterminano i germi invasori. Questo non è un processo cosciente, ma un processo naturale salvavita.

Eaarth ora risponde alle depredazioni dell’uomo in modo simile: riscaldando l’atmosfera, prendendo anidride carbonica dall’aria e depositandola negli oceani, aumentando le piogge in certe aree e diminuendole in altre, compensando in qualche maniera il massiccio rilascio di emissioni nocive nell’atmosfera.

Ma quello che Eaarth fa per proteggere sé stessa dall’intervento umano, è improbabile che sia benefico per le società umane. Quando il pianeta si riscalda e i ghiacci si sciolgono, il livello dei mari aumenta, distruggendo così città e inondando aree costiere e zone coltivate. La siccità diventerà endemica in molte aree agricole un tempo produttive, riducendo le scorte di cibo per centinaia di milioni di persone.

Molte specie-chiave di piante ed animali fondamentali per la sopravvivenza umana, tra cui varie specie di alberi, di colture alimentari e di pesci, si dimostreranno incapaci di adeguarsi a tali cambiamenti climatici e cesseranno di esistere. Gli uomini potranno – e sottolineo potranno – avere maggior successo nell’adattarsi alla crisi del riscaldamento globale rispetto a tali specie, ma in tale processo moltissimi rischiano di morire di fame, di malattia e in guerra.

McKibben ha ragione: non viviamo più sull’ accogliente pianeta una volta conosciuto come Terra. Abitiamo un posto nuovo, già cambiato radicalmente dall’intervento umano. Ma non stiamo operando su un’entità passiva, impotente e incapace di difendersi dalla trasgressione umana. Triste a dirsi, impareremo con costernazione quale sia l’immenso potere di Eaarth, la vendicatrice.

Michael T. Klare è docente di Studi sulla Pace e Sicurezza Mondiale all’Hampshire College, scrive su TomDispatch e autore del più recente “Rising Powers, Shrinking Planet”. Una versione film-documentario del suo libro precedente, “Blood and Oil” è acquistabile presso la Media Education Foundation.

Tom Engelhardt, co-fondatore dell’American Empire Project, dirige TomDispatch.com. È autore di “The end of Victory Culture”, storia della Guerra Fredda e di un romanzo “The Last Days of Publishing”. Ha anche scritto “The World according to TomDispatch: America in the New Age of Empire” (Verso, 2008), una storia alternativa dei folli anni dei Bush. Il suo ultimo libro è “The American Way of War: How Bush’s Wars became Obama’s” (Haymarket Books).

Fonte: www.tomdispatch.com

Link: http://www.tomdispatch.com/post/175379/tomgram%3A_michael_klare%2C_avenging_planet/#more

14.04.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICIOGA

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