IL PAESE SEGRETO E' DI NUOVO IN GUERRA CONTRO IL SUO STESSO POPOLO

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DI JOHN PILGER

johnpilger.com

L’Australia ha nuovamente dichiarato guerra ai propri nativi, riproponendoci così le brutalità che portarono il Sudafrica dell’apartheid alla condanna universale. Gli Aborigeni saranno cacciati dalle terre dove le loro comunità hanno vissuto per migliaia di anni. Nell’Australia occidentale, dove le società minerarie accumulano miliardi di dollari in profitti sfruttando terreni aborigeni, il governo centrale afferma di non potersi più permettere il “sostegno” delle terre native.

Quelle popolazioni vulnerabili, a cui già sono negati i servizi di base che la maggioranza degli australiani da per scontati, sono sotto esproprio senza alcuna consultazione, e sotto sfratto a mano armata. Ancora una volta, i leader aborigeni hanno parlato di “una nuova generazione di sfollati” e di un altro “genocidio culturale”.

Genocidio è una parola che gli australiani odiano sentire. Il genocidio accade in altri paesi, non nella “fortunata” società che pro capite è la seconda più ricca al mondo. Quando la frase “atto di genocidio” fu utilizzata nella storica inchiesta del 1997 “Bringing Them Home”, che rivelò come migliaia di bambini indigeni fossero stati sottratti alle loro comunità da istituzioni bianche e sistematicamente abusati, una campagna di smentite fu lanciata dalla cricca di estrema destra che gravitava intorno all’allora primo ministro John Howard. Ne facevano parte quelli che allora si chiamavano Gruppo dei Galati, poi diventati Quadrant e quindi Bennelong Society; la stampa di Murdoch era il loro megafono.

Chiamarla Generazione Rubata era esagerato, dissero, ammesso che fosse realmente successo. L’Australia coloniale era un luogo benevolo; non ci furono massacri. I primi australiani erano vittime della loro stessa inferiorità culturale, ribadirono, erano buoni selvaggi… e avanti con altri eufemismi del genere.

Il governo dell’attuale primo ministro, Tony Abbott, un conservatore esaltato, ha rinnovato tale assalto su un popolo che rappresenta la singolare unicità dell’Australia. Poco dopo il suo insediamento, il governo di Abbott ha tagliato 534 milioni di dollari in programmi sociali per gli indigeni, di cui 160 milioni dalla sanità e 13,4 milioni dagli aiuti legali.

Nel resoconto del 2014 “Superare gli Svantaggi degli Indigeni: Indicatori Chiave”, il disastro è palese. Il numero di aborigeni ospedalizzati per autolesionismo è aumentato, così come gli suicidi tra i giovanissimi. Gli indicatori mostrano un popolo impoverito, traumatizzato e abbandonato. Basta leggere l’ormai classica inchiesta sull’apartheid in Sudafrica, “The Discarded People” di Cosmas Desmond, che mi disse che avrebbe potuto scrivere un resoconto simile sull’Australia.

Dopo aver insultato gli australiani indigeni dichiarando (ad una colazione del G20 in favore di David Cameron) che non c’era “nient’altro che sterpaglia” prima dell’arrivo dell’uomo bianco, Abbott ha annunciato che il suo governo non avrebbe più onorato l’impegno di lunga data verso gli aborigeni. Sogghignando aggiunse, “non è compito dei contribuenti sovvenzionare il loro stile di vita.”

L’arma usata da Abbott e dai buzzurri statali e del territorio come lui è l’esproprio con abuso e propaganda, coercizione e ricatto, come la sua richiesta dei 99 anni di locazione della terra indigena nel Territorio del Nord in cambio di servizi di base: un furto di terra in tutto tranne che nel nome. Il ministro per gli Affari Indigeni, Nigel Scullion, contesta questa decisione, affermando che “si tratta di una comunità e di ciò di cui una comunità necessita”. In realtà, non c’è stata alcuna vera consultazione, soltanto l’iniziativa di pochi.

Sia i conservatori che i laburisti hanno già revocato il piano per l’occupazione nazionale, CDEP, dalle terrre native, sopprimendo opportunità di lavoro, e vietando investimenti in infrastrutture: abitazioni, iniziative, servizi igienico-sanitari. Il risparmio è minimo.

Il motivo è da ricercarsi in una dottrina estrema che rievoca le campagne punitive del 20esimo secolo “primo protettore degli aborigeni”, come il fanatico A. O. Neville che decretò che i primi australiani si sarebbero “assimilati” fino all’estinzione. Influenzati dallo stesso movimento eugenetico che ispirava i nazisti, gli “atti di protezione” del Queensland furono un modello per l’apartheid sudafricano. Oggi, lo stesso dogma e il razzismo sono intrecciati nell’antropologia, nella politica, nella burocrazia e nei media. “Noi siamo civilizzati, loro no”, scrisse l’acclamato storico australiano Russel Ward due generazioni fa. Il concetto è identico.

Avendo avuto a che fare con le comunità aborigene a partire dagli anni ’60, ho notato una consuetudine stagionale in cui l’élite australiana interrompe il suo “normale” sopruso e incuria per la gente delle First Nations, e li attacca apertamente.

Questo accade quando le elezioni si avvicinano, o quando la popolarità di un primo ministro è bassa. Prendere a calci l’uomo nero è considerato uno sport popolare, sebbene prendere di soppiatto i loro territori ricchi di minerali serva ad uno scopo più prosaico. Costringere le persone ad insediarsi nelle baraccopoli marginali delle città fulcro dell’economia soddisfa l’ingegneria sociale prospettata dai razzisti.

L’ultimo attacco frontale è stato nel 2007, quando il primo ministro Howard mandò l’esercito nelle comunità aborigene nel Territorio del Nord per “tutelare i bambini” che, disse il suo ministro per gli Affari Aborigeni, Mal Brough, venivano abusati da gang di pedofili in “numeri impensabili”.

I media giocarono un ruolo fondamentale in quello che venne poi chiamato “l’intervento”. Nel 2006, il programma televisivo nazionale di attualità “Lateline”, della ABC, mandò in onda un’intervista sensazionale ad un uomo dal volto coperto. Descritto come un “lavoratore per i giovani” che aveva vissuto nella comunità aborigena di Mutitjulu, questi fece una serie di accuse raccapriccianti. Successivamente fu esposto come un alto funzionario del governo sotto diretta responsabilità del ministro; le sue accuse furono respinte dalla Commissione Criminale Australiana, dalla Polizia del Territorio del Nord e dal resoconto dei pediatri intervenuti. La comunità aborigena non ricevette alcuna scusa.

L'”intervento” del 2007 permise al governo federale di distruggere molte delle vestigia di autodeterminazione nel Territorio del Nord, l’unica parte dell’Australia in cui gli aborigeni avevano legalmente acquisito i diritti territoriali. Qui avevano amministrato la propria terra gestendosi con dignità, attaccamento al territorio e alla cultura e, come Amnesty riferì, abbassando il tasso di mortalità del 40%.

È proprio questa “vita tradizionale” che è anatema per il settore bianco parassitario dei dipendenti pubblici, imprenditori, avvocati e consulenti che controlla e spesso lucra sugli aborigeni in Australia, anche se indirettamente, attraverso le strutture aziendali imposte alle organizzazioni indigene. Le terre native sono viste come una minaccia, poiché esprimono una comunalità in contrasto con il neo-conservatorismo che governa l’Australia. È come se l’esistenza duratura di un popolo che è sopravvissuto e che ha resistito a più di due secoli di massacri e ruberie coloniali rimanesse uno spettro per l’Australia dei bianchi, ricordandoci di chi veramente è questa terra.

L’attuale attacco politico è stato lanciato nello stato più ricco, l’Australia Occidentale. Lo scorso ottobre il governatore Colin Barnett ha comunicato che il suo governo non poteva permettersi lo stanziamento di 90 milioni di dollari per i servizi comunali di base per 282 terre native: acqua, energia, servizi igienico-sanitari, scuole, manutenzione stradale, raccolta rifiuti. Era l’equivalente di informare gli abitanti dei sobborghi bianchi di Perth che i loro irrigatori non avrebbero più spruzzato acqua, che gli sciacquoni dei loro gabinetti non avrebbero più funzionato; e che loro stessi avrebbero dovuto traslocare; e che se si fossero rifiutati, la polizia li avrebbe sfrattati.

Dove dovrebbero andare gli sfrattati? Dove avrebbero vissuto? In sei anni, il governo di Barnett ha costruito alcune case per le popolazioni indigene in aree remote. Nella regione di Kimberley, il problema degli indigeni senza tetto – oltre alle calamità naturali e ai conflitti civili – è uno dei più alti ovunque, in uno stato rinomato per la sua considerevole ricchezza, i suoi campi da golf e le prigioni stracolme di povere persone di colore. L’Australia Occidentale imprigiona maschi aborigeni otto volte di più del Sudafrica durante l’apartheid. Ha uno dei tassi più elevati di carcerazione dei minori nel mondo, quasi tutti indigeni, compresi i bambini tenuti in isolamento in carceri per adulti, con le loro madri che li aspettano fuori.

Nel 2013, l’ex ministro per le carceri, Margaret Quirk, mi disse che lo stato aveva “rastrellato e impilato” prigionieri aborigeni. Quando le chiesi che cosa intendesse dire, precisò: “Sono diventate un deposito”.

A marzo Barnett ha cambiato la sua versione. C’erano “prove emergenti”, ha detto, “di terribili maltrattamenti di bambini piccoli” nelle terre native. E le prove? Barnett ha sostenuto che la gonorrea era stata riscontrata in bambini di età inferiore ai 14 anni, ma poi ha ammesso di non sapere se questi erano nelle terre native. Il suo commissario di polizia, Karl O’Callaghan, è intervenuto sostenendo che l’abuso sessuale sui bambini era “diffuso”. Ha citato uno studio durato 15 anni dell’Istituto australiano di Studi sulla Famiglia. Quello che si dimenticò di dire è che lo studio ha evidenziato la povertà come la stragrande causa di “abbandono” e che l’abuso sessuale rappresentava meno del 10% dei casi.
L’Istituto Australiano della Salute e del Benessere, un’agenzia federale, ha recentemente pubblicato un resoconto su quello che definisce il “fardello fatale” di malattie da Terzo Mondo e traumi a carico di persone indigene “che risultano in quasi 100.000 anni di vita persi a causa di morte prematura”. Questo “fardello fatale” è il prodotto di estrema povertà imposto in Australia Occidentale, come nel resto dell’Australia, dalla negazione dei diritti umani.

Nella vasta e ricca Australia Occidentale di Barnett, a malapena una piccola frazione di entrate dal settore minerario, petrolifero e del gas ha beneficiato comunità per le quali il suo governo ha il dovere di provvedere. Eppure, nella città di Roebourne, nel bel mezzo di Pilbara, la regione in rapida crescita e ricca di minerali, l’80% dei bambini indigeni soffre di un’infezione all’orecchio chiamato otite media, che causa la sordità.

Nella comunità di Oombulgurri, nel 2011, il governo Barnett commise un atto di grande malvagità che le altre terre native si possono aspettare. “In primo luogo, il governo chiuse i servizi”, ha scritto Tammy Solonec di Amnesty International, “Chiuse l’emporio, così la gente non poteva comprare cibo e cose essenziali. Chiuse la clinica, così i malati e gli anziani hanno dovuto uscirne, e la scuola, così le famiglie con bambini hanno dovuto andarsene, o rischiare di vedersi i bambini portati via. La stazione di polizia è stato l’ultimo servizio a chiudere, e per finire smisero di erogare l’elettricità e l’acqua. Alla fine, i dieci residenti che si erano risolutamente rifiutati di andarsene sono stati sfrattati con la forza [lasciandosi dietro] beni personali. [Allora] le ruspe arrivarono in Oombulgurri. Il governo dell’Australia Occidentale ha letteralmente scavato una buca e ci ha buttato dentro e sepolto i resti delle case e degli effetti personali della gente”.
Nell’Australia del Sud, i governi statale e federale hanno lanciato un attacco simile a 60 comunità indigene isolate. Il Sud Australia ha una tradizione di lunga data chiamata Aboriginal Lands Trust, così le persone sono state in grado di difendere i propri diritti – ma solo fino a un certo punto.

Il 12 aprile, il governo federale ha offerto 15 milioni di dollari spalmati su cinque anni. Che una somma così misera sia considerata sufficiente a finanziare i servizi adeguati nella grande distesa di terre native è la misura del valore attribuito alla vita degli indigeni dai politici bianchi, che senza esitare spendono 28 miliardi di dollari ogni anno in armamenti militari. Haydn Bromley, presidente dell’Aboriginal Lands Trust mi ha detto, “I 15 milioni di dollari non includono la maggior parte delle nostre terrre, e provvederebbero solo alle cose essenziali – elettricità, acqua. Sviluppo delle Comunità? Infrastrutture? Manco a pensarci”.

La distrazione del momento da questi sporchi segreti nazionali è l’avvicinarsi delle “celebrazioni” del centenario di un disastro militare edoardiano a Gallipoli nel 1915, quando 8.709 truppe australiane e 2.779 truppe neozelandesi – i cosiddetti Anzacs – sono stati mandati a morte in un inutile assalto su una spiaggia in Turchia. Negli ultimi anni, i governi di Canberra hanno promosso questo imperiale spreco di vite come divinità storica, per mascherare il militarismo che rafforza il ruolo dell’Australia come “vice sceriffo” dell’America nel Pacifico.

Sugli scaffali delle librerie, la sezione “saggistica australiana” è piena di tomi opportunistici sulla guerra dei temerari, eroi e fanatismo nazionalistico. Improvvisamente, gli aborigeni che hanno combattuto per l’uomo bianco sono di moda, mentre quelli che hanno combattuto contro l’uomo bianco in difesa del proprio paese, l’Australia, sono fuori moda. Anzi, sono ufficialmente non-persone. Il Monumento Commemorativo di Guerra australiano si rifiuta di riconoscere la loro notevole resistenza all’invasione britannica. In un paese disseminato di monumenti Anzac, non esiste un solo monumento ufficiale che commemori le migliaia di nativi australiani che hanno combattuto e sono caduti difendendo la loro patria.

Ciò fa parte del “grande silenzio australiano”, come W.E.H. Stanner nel 1968 chiamò il suo discorso in cui descrisse un “culto di dimenticanza su scala nazionale”. Si riferiva ai popoli indigeni. Oggi, il silenzio è onnipresente. Attualmente a Sydney, l’Art Gallery del New South Wales ospita una mostra, “La fotografia e l’Australia’, in cui la linea temporale di questo antico paese inizia, incredibilmente, con il capitano Cook.

Lo stesso silenzio copre un’altra resistenza epica e duratura. Manifestazioni straordinarie di donne indigene che protestano la rimozione dei loro figli e nipoti dallo stato, alcune armate, sono ignorate dai giornalisti e guardate con condiscendenza dai politici. Più bambini indigeni sono strappati alle loro case e comunità oggi che durante i peggiori anni della Stolen Generation. Un record di 15.000 sono attualmente detenuti “in custodia”; molti sono dati a famiglie bianche e non potranno mai più tornare alle loro comunità.

L’anno scorso, il Ministro della Polizia dell’Australia Occidentale, Liza Harvey, era presente alla proiezione a Perth del mio film, “Utopia”, che documenta il razzismo e teppismo della polizia nei confronti degli australiani neri, e le molteplici morti di giovani aborigeni in custodia. Il ministro pianse.

Sotto la sua egida, 50 poliziotti di Perth, armati, hanno fatto irruzione in un campo profughi indigeno a Matagarup, e sgomberato per lo più donne anziane e giovani madri con bambini. La gente del campo si descriveva come “rifugiati… in cerca di sicurezza nel nostro paese”. Hanno chiesto l’aiuto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
I politici australiani sono nervosi delle Nazioni Unite. La risposta di Abbott è stato l’insulto. Quando il professor James Anaya, relatore speciale delle Nazioni Unite sui popoli indigeni, ha descritto il razzismo dell'”intervento”, Abbott gli ha detto di “procurarsi una vita” e di “non ascoltare la brigata delle vecchie vittime”.

La prevista chiusura delle terrre native aborigene viola l’articolo 5 della Convenzione internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale (ICERD) e la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP). L’Australia si è impegnata a “fornire meccanismi efficaci di prevenzione e risarcimento per… qualsiasi azione che abbia l’obiettivo di espropriare [persone] indigeni delle loro terre, territori o risorse”. Il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali è chiaro. “Gli sgomberi forzati” sono contro la legge.

Un memento internazionale sta crescendo. Nel 2013, Papa Francesco ha esortato il mondo ad agire contro il razzismo e per conto degli “indigeni che sono sempre più isolati e abbandonati”. È stato lo sprezzo del Sud Africa per quel principio di base dei diritti umani che ha fatto esplodere lo sdegno e la campagna internazionale che ha fatto cadere l’apartheid. Australia, attenta a te.

John Pilger

Fonte: http://johnpilger.com

Link: http://johnpilger.com/articles/the-secret-country-again-wages-war-on-its-own-people

22.04.2015

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da GIANNI ELLENA

Ndt: Una petizione di Avaaz, con tutti i suoi limiti ma con il potere di cambiare le decisioni dei governi è auspicabile. Avanti, io firmo per gli aborigeni!

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