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La Redazione

 

Il nuovo Prometeo: Frankenstein

Scissi tra l’ebbrezza per le meraviglie della tecnoscienza e i foschi presagi che il loro impiego risveglia, attingiamo al mito di Frankenstein: alla ricerca delle origini psicologiche della duplice natura della scienza, emancipatoria o “luciferina”
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A cura di Redazione CDC
Il 29 Aprile 2023
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frankenstein

Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

 

Cos’è un mito? Il secolare precipitato di un sogno gruppale capace di mettere ordine in un punto nodale della nostra esistenza emotiva collettiva, come lo definisce lo psicoanalista Antonino Ferro. Oppure…una storia epocale, apparsa nella mente di un artista fattosi sismografo dello Zeitgeist. Esso è insieme cosmologia, filosofia, conferimento di significato all’esistenza, teoria della mente. In quest’ultima veste risolve e rappresenta grandi conflitti, tragici enigmi sepolti nella psiche umana…che chiedono d’essere continuamente rinarrati.

Ritorna allora come una litania, un bolo in gola da riprocessare poiché mai digerito, il mito nato dalla creatività geniale di Mary Shelley, Frankenstein. Non a caso esso venne più volte ripreso dalla cinematografia hollywoodiana, consentendo al pubblico di contattare in forma sublimata pulsioni presenti in ognuno di noi, intrise di hybris e invidia per il padre-creatore. Al contempo, permetteva sin dalla sua origine una “protoelaborazione” delle angosce suscitate da una scienza oramai capace di erodere i confini del possibile.

Notevoli ne sono le rielaborazioni fantastiche, dal carattere altrettanto sfolgorante: è il caso del cult movie Blade Runner (1982),  in cui la creatura – questa volta sublime nelle fattezze del biondo Rutger Hauer –  ricorda al padre scienziato, prima di ucciderlo, come la sua massima colpa sia il non averlo fatto immortale. “I’ve seen things you people wouldn’t believe, attack ships on fire off the shoulder of Orion, I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die”.

Frankenstein si è insomma imposto nell’immaginario collettivo come archetipo inscalfibile, tanto per la valenza universale e atemporale delle tematiche inconsce in esso presentate, quanto per le già ricordate inquietudini storiche suscitate dallo strapotere di una scienza che rischia, proprio a partire da quella modernità da cui scrive Shelley, di inverare troppo ardite fantasie.

Il romanzo originale nacque da una gara tra la Shelley e i suoi amici, la “meglio gioventù” dell’epoca (era il 1816) mentre era ospite in un castello di Lord Byron. Avrebbe vinto chi improvvisasse la “ghost story” più scabrosa, e la vincitrice fu lei. Frankenstein si presenta da subito agli occhi del lettore come l’inesausta rielaborazione di un unico tema, affrontato con una ricorsività circolare simile a quella che in musica ritroviamo del “Bolero” di Ravel. Nel racconto sono dipinte tutte le angosce sottese alla generazione, alla paternità, alla filiazione. Vi vengono rappresentate  la giustizia o l’ingiustizia di padri, la gratitudine o l’odio dei figli, il terrore e l’estasi dei generatori al cospetto della loro creatura. In breve, tutto il desiderio e l’angoscia dinanzi alla novità assoluta che ogni nascituro porta al mondo.

La storia la ricordiamo tutti, è quella dello scienziato Frankenstein che, arso da volontà di potenza, crea un “mostro” nato dall’assemblaggio di membra di defunti, capace di sfumare i confini tra la vita e la morte e di invertirne i rapporti. Il mostro compie azioni efferate non per via della sua indole (che l’autrice dipinge anzi come mite ed estremamente sensibile, dedita a letture come il “Werther” di Goethe e il “Paradise Lost” di Milton), ma a causa della solitudine, del rifiuto e dell’abbandono subito a opera del suo stesso, terrorizzato creatore.

Qui troviamo il primo nucleo tematico del romanzo: il “mostro” abbandonato, incompiuto, solo; il “mostro” così orrendo da non poter essere nemmeno guardato senza venir ripudiato, metafora del “Domine, nun sum dignus” che abita nel profondo ognuno di noi.

Il mostro è il figlio: in tutti noi, figli, alberga un sospetto inconscio d’irrimediabile incompiutezza, che ci rende poca cosa al cospetto del padre. In qualche misura, per il padre dei nostri ideali siamo sempre una delusione… Il Dio e il padre possono così ripudiarci, nella nostra fantasia, se non aderiamo ai loro parametri. A volte va anche così: il padre, che nel figlio rischia di veder ricordata la sua menomazione fatale, ripudia il figlio: ne è anzi terrorizzato. Tanto quanto lo si può essere di uno sconosciuto familiare che abbia il potere di denunciare al mondo la nostra inadeguatezza…della quale non sappiamo nulla.

Nell’Edipo è Laio, come già Chronos nel mito, a perseguitare il figlio per primo, a volerlo uccidere…perché sa che è da questi che potrà essere ucciso, cioè “visto davvero” nella sua nascosta imperfezione.

Nell’ottica suggerita dal Bion di Second Thoughts, diversa da quella freudiana, il tema centrale del dramma edipico può esser considerato la conoscenza della verità (su se stessi): “Il reato centrale è l’arroganza di Edipo che consacra se stesso allo svelamento della verità a qualunque costo. Questo slittamento dell’enfasi porta al centro della storia i seguenti elementi: la sfinge, che pone un enigma e distrugge se stessa quando questo viene risolto; il cieco Tiresia, che possiede la conoscenza e deplora la decisione del re di andarla a ricercare; l’oracolo, che provoca la ricerca che il veggente deplora, e di nuovo il re che, conclusa la sua ricerca, patisce cecità ed esilio” (1967). Il viaggio del figlio Edipo è cioè verso la conoscenza e, al contempo, contro la stessa: tutti vogliono sapere, ma nessuno lo vuole davvero.

Il padre Frankenstein manca al figlio e ne fugge per vigliaccheria, perché sente che il mostro è il suo Doppelgaenger, la sua Ombra, colui che incarna il lato oscuro che egli non si permette di mostrare nemmeno a se stesso. Il tema è fortemente narcisistico, come qualcuno potrà osservare: abbiamo un’esclusione dalla coscienza di sé dell’imperfezione, così come accade nei meccanismi mentali schizoparanoidei, che impongono  di proiettare sull’altro, il nemico o l’avversario ideologico, le proprie parti imperfette, così da rimanerne al riparo. E’ il modo di procedere del nazista, che si considerava ariano rispetto all’ebreo, su cui proiettava le sue stesse parti rifiutate.

Il solare Frankenstein può dunque armeggiare con la putrefazione sentendosi un novello Dio, visto che sarà la sua “creatura” a ospitare i suoi orrori…così come accade in “Il ritratto di Dorian Gray” o in “Doctor Jeckyll and Mr Hyde”, in cui la mostruosità, che vive ed è reale tanto più quanto più viene denegata, rimane al riparo di uno specchio nascosto e da celare al mondo.

Ma qual è quell’oscura mostruosità dalla quale Frankenstein deve difendersi? La sua inermità, l’insignificanza al cospetto dell’infinità e della meraviglia della natura (ricordiamo l’orrido e il sublime tra i temi del romanticismo), intuita ma mai pienamente riconosciuta, e perciò ingigantita nella sua inconscia percezione di sé.

Sentendosi inconsciamente uno che vale zero, Frankenstein deve reagire inflazionando il Sé e rendendosi simile a un Dio. Passerà così dall’impotenza all’onnipotenza. Da questo nasce quella che la psicoanalista Janine Chasseguet Smirgel denomina una compulsione alla creatività scientifica di matrice perversa, vale a dire infantile, pregenitale e non autenticamente generativa. “Il sogno della ragione genera mostri”, non “il sonno”: questa è la corretta traduzione della frase che appare nel celeberrimo dipinto di Francisco Goya; potremmo dire che una “ragione” scientifica che si spacci per tale ma perda per strada ogni ragionevolezza, non arrestandosi al cospetto della sacralità della vita, del corpo, della nascita, della morte…  produca sogni d’onnipotenza destinati non a emancipare, ma ad asservire l’uomo.

Novello Prometeo dalle sfumature luciferine, Frankenstein si procurerà la sapienza con ingordigia al fine di dar luogo a un “nuovo inizio” in cui la natura possa avere un inedito corso e dar vita a una linea evolutiva: per il mostro di Frankenstein il romanzo di Shelley prevede una femmina, un’Eva altrettanto mostruosa.

L’odio inconscio e l’invidia narcisistica per la natura e il Dio padre creatore, che l’hanno fatto misero, inducono lo scienziato Frankenstein a dimostrare a se stesso d’essere superiore al Dio padre stesso, rinnegando il mondo da esso creato e le sue leggi, fondandone di nuove e “superiori”, tagliandosi fuori dalla natura e dalla realtà della sua origine, quindi dalla differenza tra generazioni (padre e figlio) e sessi (madre e padre, maschile e femminile che lo hanno generato e che deve superare e rinnegare, nel culto di una generazione che è fabbricazione, non frutto dell’atto d’amore).

Frankenstein odia il tempo, “quest’assenza di magia”…Odia il passato che gli ricorda il legame infantilizzante, per lui umiliante, con il padre, e il futuro, che gli ricorda un’evoluzione che non accetta, dovendosi pensare già perfetto così e dovendo lottare anche contro la semplice idea di “dover” crescere, di “dover” cambiare… Il che implica il maturare divenendo simile all’”odiato” padre, invecchiare per poi morire; dunque, darà l’avvio a una neorealtà in cui la vita nasca dalla morte e in cui nemmeno la morte esista più.

Giungiamo qui al secondo tema del libro: il figlio ricusa il padre. Si tratta di un netto scostamento dalla soluzione auspicata da Freud al conflitto edipico, quella dell’uccisione simbolica del padre. In adolescenza, noi tutti che siamo nati “oggetti” dell’amore dei genitori dobbiamo farci “soggetti”: quando tutto va bene, ci opponiamo alle attribuzioni dei genitori che ci hanno, sì, dato una forma ricavata dalla nostra totipotenza iniziale, indirizzandoci verso l’autorealizzazione, ma ci hanno anche vincolati, a volte traditi rispetto alle nostre reali possibilità che non sono, magari, stati in grado di intercettare. Nel tentativo di indirizzarci, i genitori ci hanno cioè sempre, e da sempre, un po’ “tarpato le ali”.

L’uccisione simbolica dei genitori è una tappa essenziale della soggettivazione, nella quale essi vengono detronizzati dal ruolo di “dèi” che gli conferivamo nell’infanzia per divenire comuni mortali, come noi. “Si è alla pari, adesso”, in una diversa relazione che diviene “tra adulto e adulto”. Solo dopo questa fase sarà possibile la vera “eredità”: prendere il bene dal passato, tralasciare ciò che per noi non lo è… e portare la fiaccola di quanto di buono ereditammo nel mondo di domani.

L’uccisione simbolica dei genitori non rinnega il tempo e le sue leggi ma ne prende dolorosamente atto, conduce un “esame di realtà”, si rimbocca le maniche e, anche per amore di quello che è stato, si dà un futuro.

Il mondo perverso di Frankenstein, invece, ricusa il padre, le sue leggi, la natura, la storia, il passato. “Siccome non sono fertile, grande, potente come il padre, posso rimanere me stesso (allo stadio infantile immutabile e inscalfibile dal tempo, vedi una società di eterni putti infantilizzati) ne demolisco l’immagine. Il padre non esiste, per me”. Oppure, la sua uccisione sarà cruenta, come nel film Blade Runner. Non c’è trasmissione del sapere umano dalle origini, plasmata dall’apprendimento dall’esperienza delle catene delle generazioni… la storia viene spezzata. Conta solo “il nuovo”, anzi: vi è un’idolatria di ciò che è nuovo che non può che provenire da un’ingenua fede nel “progresso” da un passato che non si riesce ad amare. Anche la natura non viene amata: non si vuole la creazione, la generazione, ma la “produzione”.

Il mondo di Frankenstein è oggi, per intenderci, quello in cui l’attrice spagnola sessantottenne Ana Obregon diventa “mamma” di un figlio nato da un “utero in affitto” messo incinta con l’ovulo congelato di un’altra donna, fecondato dalla sperma del figlio defunto dell’attrice. In questo mondo si nasce dallo sperma di un morto e si è figli della propria nonna, partoriti da una terza donna con l’ovulo di una quarta: se non è una “neorealtà” questa, ditemi quale lo è.

Ma il mondo Frankenstein è anche fatto di ibridi in cui non solo i semi OGM possono essere modificati geneticamente, non solo la carne può venir prodotta da linee cellulari, ma si può ipotizzare di produrre uomini-scimpanzé per finalità di ricerca, come recentemente suggerito. La legge del “padre” è, storicamente, quella delle differenziazioni e delle partizioni: dal caos informe e indistinto si separano le acque e le creature assumono un nome, si differenziano. La Bibbia proibisce gli innesti e gli ibridi, per esempio, poiché eredità dell’indifferenziato senza legge univoca, in preda all’anomia.

Ancora, in questa contemporaneità alla Frankenstein si è già dato vita a una creatura sintetica a forma di Pac-Man, lo Xeno Bot, creata assemblando cellule staminali embrionali di rana, che ha già iniziato a riprodursi.

Parallelamente nell’universo senza vita del digitale sono nate Intelligenze Artificiali, come ChatBot GPT, che imitano in tutto le risposte naturali dell’umano, anzi ne producono di nuove, “più naturali del naturale”, “più vere del vero”, potrebbe affermare un pubblicitario . Una simulazione che sconfina nella contraffazione e che preoccupa, perché non sarà facile mantener saldo il discrimine tra ciò che è vivo e ciò che non lo è, nelle nostre umanissime percezioni. C’è già chi propone di legiferare per i diritti delle Intelligenze Artificiali.

Nel testo di Chasseguet Smirgel, scritto nel lontano 1985 dunque al di fuori da “ogni sospetto”, si afferma, con linguaggio e metafore desueti ma tuttavia praticabili:

“L’attitudine perversa mira a sconfessare la realtà e la realtà dei limiti, l’universo della legge del padre, la legge delle partizioni e delle differenze; le differenze di generazione, con l’insieme delle coordinate spazio-temporali, razionali ed etiche che esse comportano. Alla sconfessione seguono: la sostituzione della legge del padre con un universo caotico, che vede l’affermazione dell’”hybris” e l’abolizione di ogni categoria, la confusione, la “mescolanza” delle diversità secondo un processo di frammentazione e omogeneizzazione. Qui si intravede  il tentativo di riprodurre il caos originario e allo stesso tempo di “creare” una realtà idealizzata in cui tutto divenga possibile, intercambiabile: oggetto, fonte, piaceri erogeni sono adattati al potenziale infantile, evitando di organizzarsi in un assetto adulto. Ne consegue una parodia della realtà genitale del padre, fondata sull’illusione di non dover crescere né acquisire la maturità che si raggiunge prendendo il padre come modello.”

La “scienza alla Frankenstein” non nasce da un sincero amore per la verità, dallo studio appassionato della realtà e della natura per conoscerla, valorizzarla, ripararne gli inceppi e ripristinarne il corso. Non sorge da una buona sublimazione di marca freudiana, in cui le pulsioni parziali perverse vengano sublimate al servizio dell’epistemofilia e sotto l’egida del primato della verità. Non è suo intento riparare una natura ferita avendo fiducia che in essa vi sia un qualcosa di degno, al cospetto del quale fermarsi accettando la frustrazione che questo comporta e il “limite” oltre il quale non si può andare. La “scienza alla Frankenstein” nasce, anziché dall’amore e dal rispetto biofili, dalla rabbiosa e necrofila necessità di glorificare il proprio Io, di magnificarlo, di acquisire potenza sulla natura per invertirne il corso, per “fare di meglio”, per sostituirsi ad essa… con un odio sconfinato a quella natura che ci ha resi, in fondo, irrimediabilmente imperfetti.

Essa sarà più vicina alla magia che alla ragionevolezza, più incline a funzionare sul registro dell’illusione che su quello della realtà.

Diverrà così facilmente scientismo, feticismo, magia. E poiché sarà asservita al trionfo  dell’illusione, poiché militerà contro la verità (scritta nell’eterno libro della natura e della vita) necessiterà di proseliti, grazie ai quali soltanto potrà confermarsi nella sua validità.

L’importante è che non emerga mai la verità sottostante, una hybris nichilista capace di condurre l’uomo, senza progettualità né consapevolezza alcuna, alla sua miserevole sconfitta. Vincerà allora il “cupio dissolvi”, quella pulsione di morte che solo tardivamente Freud si sentì costretto a includere nella sua teoria, sospinto dall’osservazione di quella che gli apparve come un’irrimediabile, tragica presenza nella psiche umana.

Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

29.04.2023

Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista

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