IL NUOVO CORSO DEL GUUAM

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L’avvento al potere di Sâka_vili in Georgia e Ju_èenko in Ucraina, ha donato nuova linfa al progetto del GUUAM, sostenuto da Washington e Bruxelles. Esso deve però fare i conti con la non ancora definitivamente intaccata influenza russa nello spazio postsovietico, che sta creando non pochi problemi, anche di carattere interno, ai paesi ostili alla politica del Cremlino.

DI DANIELE SCALEA per ”EQUILIBRI”

Il primo GUUAM

Nel 1997 Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldova decidevano d’associarsi in un nuovo soggetto geopolitico (che dalle iniziali dei paesi membri ha preso il nome di GUUAM), il cui campo d’azione doveva essere lo spazio postsovietico, gli alleati esterni USA e (in seconda battuta) UE, e i principali obiettivi controbilanciare l’influenza regionale dell’asse Mosca-Minsk ed estromettere la Russia dal controllo del petrolio caspico.
Com’è noto, la Bielorussia di Luka_enko è da anni la migliore amica della Russia, nel tentativo che impegna quest’ultima a mantenere nella propria sfera d’influenza lo spazio postsovietico, o “estero vicino”. Nell’aprile 1996 Mosca e Minsk s’erano associate nella cosiddetta “Comunità delle Repubbliche Sovrane”, una specie di pungolo per favorire la coesione della CSI, ma che ebbe semmai l’effetto contrario di suscitare reazioni ostili come quella del GUUAM. Negli ultimi anni i due paesi sono sembrati molto meno vicini (un po’ anche per l’antipatia e diffidenza reciproca tra Luka_enko e Putin), ma questa situazione è senz’altro destinata a ribaltarsi nuovamente, ora che Mosca e Minsk condividono la preoccupazione d’essere nel mirino delle “rivoluzioni colorate”.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, va ricordato come lo spazio postsovietico poggi ancora ampiamente sulle infrastrutture retaggio dell’URSS, e tra queste vi sono anche gli oleodotti e i gasdotti che dal Mar Caspio e dall’Asia Centrale conducono all’Europa tramite il territorio dell’odierna Federazione Russa. Questo stato di cose ha permesso al Cremlino di esercitare una notevole influenza, almeno in passato, su paesi produttori di petrolio o gas naturale come Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan, facendo leva sul proprio ruolo di monopolista delle infrastrutture atte all’esportazione delle risorse da essi prodotte. D’altro canto, tale influenza si esercitava e si esercita in modo ancora più pressante suoi paesi non produttori, come Ucraina, Moldova, Bielorussia e Georgia, i quali dipendono ampiamente da Mosca per i propri approvvigionamenti energetici. In quest’ottica, era ed è di primaria importanza, per quanti volessero indebolire l’influenza russa sull’estero vicino, riuscire a differenziare i canali d’esportazione delle risorse caspiche e centrasiatiche, e diminuire la dipendenza energetica di molti paesi postsovietici dalla Russia.
Questo primo GUUAM ha eseguito i propri compiti in maniera indecisa e altalenante, aiutato dalla sostanziale inerzia della Russia el’ciniana, ma sfavorito dal mancato pieno coinvolgimento degli USA, più impegnati a permettere la transizione dell’Europa Orientale nella NATO e ancora lungi dal dispiegare le proprie forze in Asia Centrale. È sintomatico il fatto che, in questo periodo, la prima “rivoluzione colorata” antirussa avvenga ben lontano dall’estero vicino, e cioè in Jugoslavia: l’ondata atlantica era in avvicinamento, ma non ancora pronta a investire la Russia.

I marines alle porte della Russia

Lo sarebbe però stata di lì a poco. Possiamo individuare tre date simbolo per descrivere il “salto di qualità” nella politica nordamericana. La prima è il 1999, allorché l’Alleanza Atlantica pubblica un documento nel quale aggiorna il proprio orientamento strategico, arrogandosi il diritto d’intervenire anche al di fuori delle tradizionali (e legittime) aree di azione: per dirla volgarmente, la NATO ufficializzò il proprio passaggio da alleanza a scopo difensivo, ad alleanza a scopo offensivo. La seconda data cardine è quella del 28 maggio 2002, l’istituzione del forum permanente NATO-Russia, ma soprattutto, l’accettazione da parte di Mosca dell’occupazione occidentale dell’Europa Orientale come fatto compiuto, in cambio d’una poco sincera promessa di non toccare Ucraina e Bielorussia. L’ultima data – in verità la seconda cronologicamente, ma essendo di gran lunga la più importante la lasciamo per ultima cosicché si possa darle la giusta enfasi – è l’11 settembre 2001. Con gli attentati al Centro del Commercio Mondiale (WTO Center) e al Pentagono, si apre per gli Stati Uniti d’America una nuova fase di attivo e aggressivo coinvolgimento che adotta quale campo d’azione l’intero scenario mondiale. È un palese salto di qualità nella politica antirussa della tradizione anglosassone, che muove da Mackinder per arrivare fino a Brzezinski: completata con successo l’opera in Europa Orientale, il campo d’azione nordamericano s’avvicina al massimo grado ai confini della Russia. Così le truppe statunitensi e alleate invadono l’Afghanistan, e con tale pretesto ottengono di mettere il piede a terra anche in Uzbekistan e Kirghizistan (temporaneamente anche in tutti gli altri paesi centrasiatici): per la prima volta i marines entrano in quella che fu l’Unione Sovietica. Sempre col pretesto della “guerra al terrorismo”, le truppe speciali statunitensi sono invitate da Tblisi nella Valle di Pankisi – ufficialmente per stanare i membri di Al-Qaida legati ai separatisti ceceni, anche se qualche dubbio suscita il fatto che parecchi uomini legati al Presidente Bush siano apertamente schierati coi guerriglieri antirussi.

Le rivoluzioni colorate

Ad imitare il passaggio dei bombardieri statunitensi dalla Jugoslavia all’Asia Centrale e alla Transcaucasia, anche le “rivoluzioni colorate” si trasferiscono nello spazio postsovietico. Nessuno si sogna di negare che a Washington esse siano guardate di buon occhio: a dire la verità, non è neppure difficile dimostrare che proprio da Washington esse siano partite. Se l’aperto sostegno a fatti in corso non costituisce da sé una prova decisiva, possiamo allora considerare come tutte le opposizioni “colorate” (unite dal comune denominatore del filoccidentalismo) siano state ampiamente finanziate per anni da organismi governativi e non, degli USA, del Regno Unito e persino dell’UE (a proposito dell’Ucraina, si vedano i miei “Kiev verso Occidente?” pubblicato anch’esso su “Equilibri” o, per più ampie informazioni, “Ucraina, terra di confine”, comparso sul numero 2/2005 della rivista “Eurasia”). Le strategie di colpo di stato adottate prima nella “rivoluzione rosa” georgiana e poi in quella “arancione” ucraina, sono state mutuate dai predecessori jugoslavi i quali, per loro stessa ammissione, hanno ricevuto tale know-how da ex agenti della CIA ed ex ufficiali della US Army, per il tramite della Freedom House di James Woolsey.
Così, alla fine del 2003 il moderato Eduard _evarnadze è spodestato dalla presidenza e pochi mesi dopo rimpiazzato da Mikhail Sâka_vili, nazionalista decisamente filoccidentale e russofobo, il cui primo punto programmatico è la chiusura delle basi russe in Georgia e la riconquista delle regioni secessioniste (l’Agiaria è stata rioccupata nel maggio 2004, mentre Ossezia Meridionale e Abkhazia sono tuttora indipendenti).
In Ucraina la “rivoluzione arancione” che ha portato al potere Viktor Ju_èenko è invece storia di pochi mesi fa, e non pare il caso ritornarvi; stessa cosa vale per l’ancora più recente rivolta kirghisa che ha spodestato il Presidente Askar Akaev. Vale invece la pena notare come il timore di tali “rivoluzioni colorate” abbia reso più malleabili molti dei dirigenti postsovietici, in primo luogo i Comunisti al potere in Moldova con Voronin i quali, partiti da posizioni limpidamente filorusse, sono ora passati disinvoltamente nel campo filoccidentale.
È difficile, al momento, pronosticare se e quando l’ondata delle “rivoluzioni colorate” dovrà fermarsi. Gli “arancioni” a Kiev proclamavano che la loro rivoluzione sarebbe giunta fino a Mosca, dove facevano loro eco i liberali russi, che colà piuttosto deboli debbono appoggiarsi a comunisti e nazionalbolscevichi – non certo molto filamericani. Un accenno di rivolta s’è avuto in Uzbekistan contro Islam Karimov, ma si è trattato, appunto, solo di un accenno. Stando alle parole di Condoleeza Rice, segretaria di stato del secondo mandato bushiano, non vi sarebbe dubbio che la prossima “rivoluzione colorata” debba scoppiare in Bielorussia contro “l’ultimo dittatore d’Europa”, Aleksandr Luka_enko. Nel frattempo, a Mosca, Vladimir Putin si prepara già per la difficile prova delle elezioni presidenziali previste per il 2008, intorno alle quali aleggia ancora una completa incertezza.


Il secondo GU(U)AM

L’ascesa al potere di Sâka_vili e Ju_èenko al posto dei moderati _evarnadze e Kuèma, e la “redenzione” di Voronin, hanno permesso un rilancio del GUUAM attorno all’asse portante Moldova-Ucraina-Georgia. Gli obiettivi, rispetto al primo, non sono cambiati; ma sono mutate alcune situazioni. Innanzitutto, a dispetto della gran decisione mostrata dai tre membri suddetti, Azerbaigian e Uzbekistan si sono subito mostrati restî di fronte alla prospettiva di rianimare il GUUAM. Innanzitutto, com’è ovvio, perché né Aliev né Karimov appaiono i più adatti a stare fianco a fianco con Sâka_vili e Ju_èenko. In secondo luogo perché entrambe, seppur in misura diversa, hanno parzialmente mutato la propria prospettiva politica. L’Azerbaigian non ha più la necessità di liberarsi d’alcun vincolo energetico colla Russia: esso produce quanto basta per sé, e può esportare il resto anche senza passare per il territorio della Federazione, grazie all’oleodotto Baku-Supsa aperto nel 1999 e al Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC) inaugurato il 25 maggio di quest’anno. Pertanto, l’Azerbaigian non avrebbe più grossi motivi per lasciarsi trascinare in una nuova battaglia politica con Mosca, soprattutto se ciò comportasse una posizione prona alla volontà nordamericana che, in relazione all’Iran, pone seriamente in pericolo l’integrità dell’Azerbaigian in caso d’un attacco contro la Repubblica Islamica che partisse proprio dall’ex repubblica sovietica. D’altro canto, però, il leit motiv della politica di Baku è sempre legato al recupero del Nagorno-Karabakh, oggi in mano agli Armeni, che sono legati alla Russia. In quest’ottica, una rapida soluzione di tale questione sarebbe vantaggiosa per tutti: per l’Azerbaigian che recupererebbe parte dei territori perduti in guerra, per l’Armenia che vedrebbe cessare il blocco economico turco-azero che la soffoca, e per la Russia che potrebbe normalizzare i rapporti con Baku (anche se rischierebbe d’essere scaricata da Erevan come amica non più necessaria). Ad ogni modo, saranno infine decisive le pressioni che il governo azero riceverà dagli USA, dall’UE e dalla Turchia (e, dunque, fondamentali i rapporti tra Ankara e Washington, negli ultimi anni un po’ meno cordiali), affinché questo partecipi attivamente al nuovo GUUAM. L’apporto azero sarà ancor più decisivo, se si considerano i due fattori seguenti: che la libertà d’azione del GUUAM è vincolato alla sua autonomia energetica, e l’Azerbaigian è l’unica a poter garantire in tal senso; e che l’Uzbekistan s’è ritirato ufficialmente dall’associazione il 5 maggio, lasciandola così ridotta a GUAM. Resta da vedere se l’Azerbaigian saprà garantire il soddisfacimento dei bisogni energetici di Moldova, Georgia e Ucraina, e soprattutto se potrà applicare tariffe vantaggiose come faceva la Russia: se il primo punto è possibile, il secondo appare altamente improbabile. Ecco che allora si materializza il grande problema del GUAM. La Georgia sta già in parte pagando la sua politica violentemente ostile a Mosca, dato che il conseguente peggioramento delle condizioni di vita ha generato una certa opposizione a Sâka_vili, cui il Presidente georgiano ha risposto rilanciando i propri cavalli di battaglia, e in particolare la chiusura delle basi russe sul suo territorio, giudicate illegali e minacciate di blocco. Ma mentre la Russia si prepara a smobilitare (inizierà entro quest’anno) tali basi, ormai inutili, si prepara a rientrare in Georgia per la porta di servizio: la Gazprom, colosso dell’energia russa, si è fatta avanti come acquirente del tratto georgiano del gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum. Il governo georgiano vorrebbe mantenerlo di proprietà statale, spalleggiato dall’ambasciatore statunitense Richard Miles, il quale teme un monopolio russo, ma senza concreti aiuti finanziari da parte dell’Occidente sarà costretto a cedere, poiché la mancanza di fondi non gli permette neppure di provvederne la manutenzione.
L’Ucraina non sta certo affrontando problemi minori. Per ora ha lanciato diverse minacce, ma si trova nella situazione di mantenerne ben poche. Ha per esempio già fatto sapere che non rinnoverà alla Russia l’affitto della base navale di Sebastopoli per la sua Flotta del Mar Nero, ma tale affitto scade nel 2017, e non si può sapere se allora Ju_èenko o la Timo_enko saranno ancora al potere. Anzi, pare al momento improbabile che possano esserlo entrambi, dato che sono già in rotta. Il problema deriva dalle diverse vedute del Presidente e della sua Prima Ministra: l’uno è molto ligio ai dettami provenienti da OMC e Banca Mondiale, ai consigli del patrono nordamericano e alla stabilità dei mercati; l’altra ha invece un piglio decisamente più populista e indipendente. La Timo_enko – pur cercando di riabilitarsi agli occhi dei Russi, dopo le sue sparate demagogiche fortemente russofobe in campagna elettorale – si è impegnata in un vero e proprio braccio di ferro con le compagnie energetiche russe che riforniscono l’Ucraina (esse controllano il 90% del settore petrolchimico nazionale). È stato inserito un dispositivo di calmieramento dei prezzi, per cui le compagnie energetiche non possono alzare il prezzo del petrolio di più del 13% rispetto a quello fissato dalle autorità (l’Ucraina è un paese agricolo, e dunque in primavera ed estate il fabbisogno aumenta): le proteste delle compagnie sono state zittite sbandierando la minaccia d’aprire un’indagine anti-trust. Ma poco tempo dopo, le imprese russe hanno comunque fatto pervenire la propria risposta alle autorità ucraine, tagliando la fornitura di petrolio e fissando un limite di 10 litri di carburante per veicolo nelle stazioni di rifornimento TNK e LUKoil. Quest’infelice risultato ha suscitato l’ira di Ju_èenko, che ha criticato aspramente e pubblicamente la sua Prima Ministra: la Timo_enko ha però potuto rispondere a muso duro, forte dell’appoggio della maggior parte della popolazione. Al contrario, il Presidente ha perso parecchia popolarità dai tempi della “rivoluzione arancione”, e dunque ha l’assoluta necessità di mantenere compatto il suo fronte politico, non ostante gli aspri dissidi interni. La revisione delle privatizzazioni, più volte minacciata da entrambi, non è una possibilità aperta: essa non potrebbe riguardare unicamente le compagnie russe senza svelare un chiaro intento persecutorio, ma d’altro canto Ju_èenko non ha la minima intenzione d’attaccare anche gl’interessi delle compagnie occidentali o degli oligarchi nazionali. Inoltre, una simile mossa, per quanto giustificabile dal punto di vista legale, creerebbe una situazione d’incertezza sui mercati che danneggerebbe seriamente l’economia ucraina.
In tale non facile situazione, Georgia, Ucraina e Moldova stanno cercando d’assicurarsi richiedendo l’ingresso nell’Unione Europea e nell’Alleanza Atlantica: ma il recente “no” referendario alla Costituzione europea in Francia e Olanda, frutto anche dell’ostilità verso l’allargamento a est dell’Unione, potrebbe inficiare perlomeno la prima opzione.

IL GUUAM COME CORDONE SANITARIO

Sfogliando i giornali russi (che, a differenza delle televisioni, parlano di tutto e come vogliono), gli analisti enfatizzano questi elementi di debolezza del nuovo GUAM, e affermano con sicurezza ch’esso non potrà danneggiare più di tanto gli interessi della Russia. In controtendenza, invece, Aleksandr Dugin (geopolitico noto per il suo antioccidentalismo e per essere presidente del Movimento Internazionale Eurasiatista) ha rivelato in un’intervista con l’autore di considerare il GUAM l’ennesimo cordone sanitario contro la Russia, e di temerlo non tanto per ciò che può fare, ma per la sua stessa presenza. Infatti, argomenta Dugin, a prescindere da quanto effettivamente tale associazione possa fare contro l’influenza russa nello spazio postsovietico, essa è legata all’Unione Europea attraverso la cosiddetta “Nuova Europa”, e questo crea un motivo di tensione ulteriore tra Bruxelles e Mosca. Secondo il geopolitico russo, dunque, il GUAM sarebbe principalmente uno strumento manovrato da Washington per impedire che Russia e Europa facciano fronte comune.

Daniele Scalea
redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”
17.06.05

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