DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane fuorilinea
Uno scossone, il pulmino che precipita sul lato, s’inarca, si blocca nel fosso a due centimetri dal palo della luce. Bozzo sulla fronte da incontro con il parabrezza. Io arrivavo da Roma e stavo in braccio a Morfeo. L’autista, spossato dal terzo millechilometri in 24 ore tra Amman e Baghdad, era riuscito a frenare nel dormiveglia. Non avevamo potuto rimpimparci con il caffè turco di prammatica nell’unico posto di ristoro tra il confine e la capitale irachena. Giuntivi stremati, ci eravammo infilati tra mucchi di macerie ancora fumanti, là dove c’erano l’ambita taverna del kebab, negozietti di pistacchi e souvenir, giardinetti stenti strappati all’immenso deserto grigio della Mesopotamia occidentale. Gli erano piombati addosso due missili non più di un quarto d’ora prima. I primi due missili per la “soluzione finale”.
Era la notte tra il 17 e il 18 marzo e “l’Alleanza dei volenterosi” a comando Usa aveva iniziato a radere al suolo il più grande, progredito, civile, coraggioso popolo del Medio Oriente. Non ho mai capito perché tutti datano l’inizio dell’aggressione all’antimperialismo laico e socialista e ai pozzi di petrolio iracheni al 20 marzo. Risparmiarsi due giorni di crimini?
Con gli occhi e i pensieri a mezz’asta proseguimmo verso la città martire. E sotto le palpebre mi scorreva il film di tanti e tanti anni di frequentazione e amicizia con questo paese, culla di ogni civiltà, faro della rinascita araba, bastione contro il colonialismo occidentale di ritorno e il feroce espansionismo israeliano. La prima volta mi ci mandò da Londra, nel 1977, The Middle East, giornale anglo-arabo di cose mediorientale. Era una specie di Cuba, con le palme di datteri al posto di quelle chiamate “reali”, ma con lo stesso fervore creativo che fioriva dall’universale consapevolezza di star facendo qualcosa di nuovo, di grande, di degno. Di lavorare sulla rottura con la frana reazionaria e restauratrice che schiacciava nel pensiero unico e sotto lo stivale della dittatura capitalista quello che nella seconda metà del secolo era stata la liberazione di tanti popoli e la rivolta di un universo giovanile, allora dotato di audacia e di idee chiare. Era un paese dallo sfolgorìo intellettuale, artistico, internazionalista, con incontro che rincorreva incontro con le forze delle lotte sociali e nazionali in visita da tutto il mondo.
Vi si accorreva per partecipare a un sistema scolastico che, dalla scuola materna all’università, regalava studi, alloggi, testi e mense agli iracheni e agli ospiti del Terzo Mondo. Per vedere, finalmente in un paese musulmano, donne senza velo, in minigonna, assise sugli scranni del governo, della magistratura, dell’accademia, delle professioni. Per compiacersi dalla fraterna intesa, sotto l’ombrello statale del rispetto per i diritti di tutti, celebrato anche dal maggior numero di matrimoni misti di qualsiasi paese pluralista, tra musulmani sciti e sunniti, cattolici, evangelici, arabi, curdi, turcomanni. Soprattutto tra classi, dove la distribuzione della ricchezza aveva colmato l’abisso, vertiginoso in tutta la regione, tra poveri e poverissimi e ricchi e ricchissimi. Era il paese del Fronte del Rifiuto, quello che risollevò la bandiera araba e palestinese che Sadat e Begin, con gli accordi di Camp David, avevano lacerato e buttato ai piedi dei sionisti.
Il sostegno iracheno, anche materiale, ai palestinesi, il più cospicuo e costante di tutti, sarebbe continuato, incredibilmente, fino al 9 aprile 2003, giorno dell’ arrivo dei barbari a Baghdad. Ripartito per Amman, mi trovai a fianco, nella stessa direzione, una vettura con due funzionari iracheni del Ministero per la Palestina che portavano ai palestinesi gli ultimi 20mila dollari per ogni famiglia di martiri.
Glielo fecero pagare, quel Fronte del Rifiuto che aveva sottratto alla cospirazione oltre metà dei paesi arabi. Glielo fecero pagare usando la mannaia Khomeini, appena insediato in Iran, dove era giunto su un aereo Usa, e già impegnato in una bisogna analoga con lo sterminio delle sinistre laiche e islamiche che avevano fatto la rivoluzione, poi rubata dai preti. Era l’estate 1989, qualche settimana prima dell’invasione iraniana, quella poi mediaticamente rovesciata nel suo contrario quando si trattò di sostenere i teocrati capitalfeudalisti contro il cuore del laicismo progressista della regione. Un tenente curdo della Guardia Nazionale ci aveva accompagnato su per le montagne del Curdistan iracheno fino al confine con l’Iran, dove le vette nevose erano costellate da villaggi antichi e nuovi insediamenti turistici. Da 25 anni il Curdistan aveva avuto l’autonomia, l’autogoverno – unico tra i curdi sparsi in quattro paesi – con parlamento a Irbil, l’università, la parificazione della lingua con quella araba. Nel governo centrale il Partito Democratico Curdo reggeva da anni le sorti del paese insieme a Baath e Partito Comunista. Su ordine degli Usa, il primo, e su quello dell’Urss il terzo, si schierarono poi con il nemico persiano e rimasero fuori dal governo. La base dei comunisti entrò nel Baath, la gerarchia andò in esilio in Iran e in Siria.
Ci arrampicammo tra villaggetti rurali parzialmente inceneriti e, arrivati alle casette in stile alpino del centro turistico abbarbicato sulla montagna che separava persiani da arabi, fummo accolti da qualche salva di artiglieria pesante.
I botti, i crateri, quei paesi bombardati, ci confermavano l’elenco che il giovane tenente ci aveva fatto dell’ininterrotta serie di provocazioni armate e politiche subite (“Iracheni, impiccate Saddam”, tuonavano gli ayatollah da Tehran), delle infiltrazioni a creare quinte colonne curde e scite, delle rivendicazioni sullo Shatt el Arab, unico sbocco iracheno sul Golfo, dell’occupazione iraniana di isole arabe, e degli infiniti ricorsi che Baghdad aveva invano rivolto all’ONU, alla Lega Araba, alla Conferenza Islamica, alla Comunità Europea. Seguirono otto anni di bagno di sangue che, nelle intensioni del sionimperialismo, avrebbero dovuto sfiancare e ridurre a miti consigli (così Henry Kissinger) i due grandi concorrenti regionali. L’Iran non gliela fece, il Kuwait, microburattino degli Usa, prese a sabotare l’economia e il petrolio iracheni, gli Usa finsero di acconsentire acchè l’Iraq si riprendesse quella 17ma provincia che gli inglesi gli avevano sottratto, Saddam fece l’errore strategico di far rientrare il Kuwait nella madrepatria.
Non gliela fece l’Iran, ma ci provarono gli occidentali, insofferenti di quel paese riottoso alla “globalizzazione” e ingordi di energia. Fu la prima guerra del Golfo. Non gliela fecero neanche loro. Allora provarono con un embargo più criminale di tutti gli embarghi. Neanche uno spillo, neanche un’aspirina, neanche un cuscinetto a sfera. Gli iracheni sarebbero morti per fame, cancri da uranio, diarrea da acqua contaminata, crollo di industria e agricoltura, import-export cancellati. I sopravvissuti si sarebbero liberati di Saddam. Zeppi di dollari, a Londra e Washington i mercenari iracheni fuorusciti stavano facendo le valigie.
Ma non gliela fece neanche l’embargo. L’Iraq restò in piedi, ricostruì tutto e meglio. Con un sistema annonario, che l’ONU definì il più efficiente e onesto del mondo, il governo riuscì a garantire a tutti i 25 milioni di cittadini il fabbisogno alimentare. Milioni di militanti del Baath e comunisti non fedifraghi si addestravano alla guerra di popolo contro l’inevitabile invasore alla ricerca del colpo risolutivo. Da tutti i pizzi accorrevano compagni – io venni con gli statunitensi di Ramsey Clark – attivisti politici, pacifisti, sostenitori dei diritti umani, in primis della sovranità e della giustizia sociale, più ad animarsi all’esempio di resistenza e coraggio modellato da tutta la società irachena, che a contribuire solidarietà. Le sinistre ufficiali, eleganti, riconosciute nel resto del mondo, stavano appollaiate su trespoli più o meno di velluto rosso e gracchiavano contro la guerra all’insegna, però, delle rassicuranti diffamazioni della propaganda Cia-Mossad. Ne andava della partecipazione, certo elemosinale ma che fa, ai pranzi di gala colonialisti, imbanditi di pietanze irachene: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, nutritevene nel segno della nuova alleanza…”
E fu la soluzione finale, marca Auschwitz. Tanto gli iracheni avrebbero gettato fiori sui carri invasori. Niente fiori, ma quei soldati, quei militanti, quei guerriglieri, quel popolo rimane in piedi e tiene per la strozza un nemico che, pur sottraendo alla salute, al benessere, al portafoglio, al futuro dei propri cittadini tre trilioni di dollari (tre milioni di milioni), non riesce a metterli sotto, nemmeno dopo cinque anni. Anzi, va di sconfitta in sconfitta, qualunque trucco tenti, che siano i capitribù comprati, le squadracce tagliagole scite sguinzagliate nella più orrenda caccia all’uomo mai vista, le bombe piazzate nei mercati dagli specialisti del terrorismo di Stato, le muraglie che separano e rinchiudono i quartieri, lo sterminio bombarolo degli F-16, la tortura sistemica, l’incarcerazione di 60mila persone qualunque, la stretta collaborazione tra Usa e il finto avversario iraniano nel congiunto, seppure concorrenziale, squartamento dell’Iraq.
A oggi, partendo dalla prima guerra del Golfo e dall’embargo, sono morti ammazzati tre milioni di iracheni, un milione e mezzo per le sanzioni, altrettanti, secondo i più qualificati istituti di ricerca occidentali, dal 17 marzo 2003. Quattro milioni hanno perso tutto e sono fuggiti dalle bombe, dal terrorismo dei rastrellamenti, dai trapanatori di teste al servizio di Tehran: due sono profughi in Siria e Giordania, gli altri vagolano nel paese tra tende e coperture di fortuna.
Il più ricco e antico patrimonio storico ed archeologico dell’umanità, quello al quale tutti dovremmo dire “mamma”, è stato devastato dalle granate, dai cingoli dei carri, dai ladri su commissione privata occidentale, dai morti di fame. Squadre di scuola sionista hanno liquidato, uno a uno, gli esponenti dell’intelletto e delle capacità: professori universitari, medici, giuristi, artisti, letterati. Mai con Saddam c’era stato il colera, l’Aids, la dissenteria da totale mancanza di acqua potabile e da Eufrate e Tigri straripanti di rifiuti e cadaveri. Ora dilagano e decimano un popolo la cui ostinazione e dignità meritano di essere strappati alla vista e alla coscienza di tutti. Come il Kosovo, un paese ormai tripartito sotto il tallone di sicari venduti ai boss dei boss è diventato, negli spazi ancora sotto controllo dei portatori di democrazia, una latrina dove la fame e interessi neanche tanto occulti coltivano per il circuito finanziario occidentale l’oppio al posto del grano, un supermercato degli organi, spesso rapinati ai feriti e moribondi, un lupanare dove madri, sorelle e figlie, per nutrire i loro cari, devono vendersi nelle varie forme richieste.
E’ la più grande catastrofe umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Ogni giorno viene ammazzata una media di cinquanta civili, i feriti sono il doppio. Con il rinvigorirsi della Resistenza nei primi mesi del 2008, sono riprese, a rilanciare odi e conflitti confessionali, le stragi, teleguidate dalla “zona verde”, alle moschee e nei mercati. E’ stato inaugurato un millennio che i padroni vogliono rendere quello della vittoria finale su un pianeta spopolato e su tutte le risorse, ma di cui nessuno vedrà la fine. A tutto questo si oppone una Resistenza cui gli stessi analisti Usa hanno attribuito 200mila combattenti e il consenso del 92% della popolazione. Una Resistenza che si conferma lucida, articolata ma compatta. La possono chiamare, con piena adesione di pavide e stolte sinistre, alla fin fine conniventi, Al Qaida quanto vogliono, sfidando il ridicolo di una guerriglia che, di colpo, a cavallo tra 2007 e 2008, si vorrebbe trasmutata nell’organizzazione dell’agente Cia Osama. Bin Laden. E’ Al Qaida che punisce i capitribù collaborazionisti (ma già scontenti e renitenti) dei “Consigli del risveglio”. E’ a dirigenti di Al Qaida che i topgun mirano quando massacrano i dieci membri di una famiglia a Kut, o mezzo villaggio a Hilla. Sono di Al Qaida i cecchini e gli ordigni che fanno scoppiare come popcorn marines e loro mezzi. Sostituita da Al Qaida l’armata brancaleone del prete di ventura Moqtada al Sadr, propagandisticamente avverso agli occupanti Usa e sostanzialmente apripista dell’espansionismo territoriale e clericale persiano. E’ Al Qaida per Giuliana Sgrena, la santina del “manifesto” che da un Fabio Fazio, come sempre commosso e ammirato, con voce stridula sciorina leterna tiritera sul velo e mezz’ora di viscerale ripulsa contro l’Islam e tutto quello che ci ha a che fare.
Mi sono fatto i bombardamenti rispondendo al fuoco con la videocamera dal terrazzo del Hotel Mansur. Lì accanto c’era il ministero dell’informazione, bersaglio privilegiato. Zitti devono stare, zitti. Come i giornalisti della Tv di Belgrado. Ogni mattina, negli ospedali di medici incrollabili, impegnati 24 ore su 24, ci facevamo ferire gli occhi e tracimare la bile dalla vista di bimbetti sminuzzati, di donne lacerate, di uomini mutilati, arrivandoci per strade fiancheggiate da macerie come dal ghiaccio le piste di bob. Tra roghi che nessuno riusciva più a spegnere, esplosioni che penetravano nei più abissali dei rifugi, uranio come se piovesse, stupefacentemente la macchina dello Stato continuava a funzionare, manco fossimo in Prussia: servizi, assegnazione di buoni pasto e distribuzione di viveri, telefono, internet, trasporti, l’attività commerciale, le scuole, moschee e chiese, ospedali. Ma soprattutto continuava a funzionare la volontà di vita e una pervicace “normalità” di tutta la popolazione, a scorno dell’aggressore assassino. Una domenica dopo una notte marasmatica di bombe, dalle parti di Piazza della Rivoluzione, strabuzzai gli occhi su un formicolante mercatino degli animali, strapieno di gente, bambini, venditori di uccellini, cuccioli, gattini, pesci rossi, conigli. Una domenica di festa e di allegria. Bastava vedere il viso di quella bambina che, legato a un filo, si portava via un botolo di dalmata. Fu su quel mercatino da giorno di festa che si avventarono i mostriciattoli appesi ai fili del puparo USraeliano. Due mesi fa, due bombe in successione disintegrarono la festa e tanti corpi come quello della bimba col dalmatino.
Tornai a novembre, quando già nel mondo si parlava di sconfitta americana (come se i compagni di merende degli stupratori, compresi i nostri professionisti di Nassiriya, se la fossero cavata meglio), quando già la Resistenza aveva messo in opera quello a cui il popolo iracheno da parecchi anni si era preparato. E, sgusciando tra gli sgherri mercenari dell’occupazione e collaborazione, addestrati a chiudere occhi e bocca a qualunque giornalista non embedded, percorsi per l’ultima volta la città che tante volte mi aveva accolto con quel sorriso e quell’ospitalità che, così autentica e diffusa, nella mia esperienza solo tra gli arabi ho trovato. Ci salutammo con tanti amici di passione politica, di grigliate di pesce sul lungo-Tigri sotto i lampioni, con coloro che mi avevano mostrato morte, speranza, lotta, ricordi, raccontandoli su tele a colori, in versi, a voce.
Mente e cuore si fanno accarezzare e graffiare da queste memorie. Ma una collera innaffia e annega tutto. La collera per l’ignavia, la bassa complicità, la compiaciuta ignoranza con cui di questi tempi i buoni e equi e solidali si stracciano i veli d’ipocrisia, ieri, sul disastro umanitario del Darfur, di un Sudan e della sua dignità e delle sue risorse strappate a forza di diffamazioni e di bande mercenarie secessioniste per conto dell’Impero. Oggi, su quel Tibet, cinese da un millennio, che la Cina – bella o brutta che sia – ha sollevato dall’ignoranza, dalla superstizione, dalla tirannia di una casta di monaci integralisti, sanguinari e pedofili, padroni di tutto, comprese le vite di contadini che non avevano mai visto una scuola, un ospedale, una libreria, se non selezionati ed eletti alla dittatura monastica. Traditori dell’informazione, neanche capaci di mettere in dubbio, alla luce dei mille inganni e complotti per distruggere paesi e la loro sovranità operati dal colonialismo di sempre, le grottesche turlupinature diffuse dalle centrali della disinformazione, si tratti di Gaza o Iraq, di Afghanistan o Somalia, di Belgrado o Sudan. O di Genova del G8. Ci alluvionano di lacrime e anatemi su dieci morti a Lhasa, su presunti profughi del Darfur, tanti quanto i granelli del deserto, sui poveri bersagli di quattro “Kassam” a Sderot, e tacciono, occultano il più orrendo olocausto in atto. Forse la sanno la verità, conoscono il terrorismo autentico ma, suicidi, tremano al richiamo morale di doversene far scudo contro le accuse di complicità col “terrorismo islamico”. Basta chiamare Al Qaida la Resistenza, pur sostenuta eroicamente anche per loro, per tutti, e ci si sente a posto. C’un genocidio iracheno, preludio all’etnocidio arabo. Basta una gita a Auschwitz e tutto questo svapora. La vicenda dell’Iraq, popolo più amato, mi accompagna senza tregua. Vive anche della rabbia più dolorosa e del dolore più rabbioso che in tanti anni di stupri della verità abbia provato. Rabbia per come la menzogna degli assassini abbia potuto rovesciare il mondo nel suo contrario ed escludere dalla solidarietà degli uomini, almeno dalla compassione, chi per la verità e per il futuro dell’umanità sostiene un sacrificio tanto terribile da polverizzare le parole. E dolore come se mi fosse morto un figlio.
Baghdad, 9 aprile 2003
Parto con la morte nel cuore, come si dice, tanti pezzetti di morte raccolti in due settimane di apocalisse, aggrovigliati nel cono di un vulcano in eruzione. Restare qui è privilegio di grandi testate, capaci di 500 dollari al giorno,embedded, inquadrate. Andarsene con un autista che sfidi i missili angloamericani contro chi arriva, costa ormai $1500, domani 2000. Inoltre, non mi sembra né sopportabile, né personalmente opportuno assistere al dilagare degli antropofagi, degli specialisti di stragi degli innocenti, di coloro che marchiano di terrorismo e mandano a Guantanamo chi non balla per Bush e getta fiori sui tank. Lascio un paese che amo da un quarto di secolo, di cui ho visto alti e bassi, verità e calunnie, il bello e il brutto, lotte che a noi parevano giuste o sbagliate e, soprattutto, le qualità del suo popolo fiero, forte e gentile. Lascio amici che non so se rivedrò e quanto gli resta per raggiungere quegli altri amici che se li è portati via il delirio di onnipotenza di miserabili omiciattoli ladroni, con tanta complicità dei loro manutengoli sparsi ovunque. Lascio un paese di cui ho potuto sfiorare le testimonianze moriture di civiltà, dallo zigurrat della Ur di Abramo, macinata dai carri armati invasori, alla Torre dei califfi in Samarra, dalla moschea d’oro di Ali nella Najaf frantumata, all’ Atra dalle romane vertigini colonnate, alla Niniveh dei sumeri, alla Babilonia di Nabuccodonosor, saggio dei saggi, alla stele di Hammurabi che per primo fece la legge da noi smarrita, quella uguale per tutti. Tutto ci ha insegnato questa gente, da 6000 anni, la ruota, la scrittura, l’irrigazione, la città e le sue convivenze, la musica, la legge. E tutto viene ora cancellato da ordigni tecnologici manovrati da chi è moralmente tornato alla clava e, dal verbo, all’urlo disarticolato e belluino. Ultima cena con una famiglia di Al Safina dove, lungo il Tigri, ho vissuto tavolate di grandi famiglie, tra riso, scambi e narrazioni, sotto lampioni colorati che gettavano stelle nel grande fiume. Stanno tutti e dodici nella stanza più protetta, giorno e notte, lungo l’orario scandito dalle bombe e dalle incursioni di deliranti zombie come la lancetta segna i secondi. Sei figli che, per fare un progetto di vita, devono disegnarlo sulla polvere delle macerie, ma decisi alla guerra di popolo, fino a quando al gigante sarà stata recisa anche l’ultima vena, come accaduto agli inglesi nella prima liberazione. All’ospite vengono offerte le razioni migliori di una riserva che già si sta estinguendo. Colpire i depositi e gli acquedotti, piegarli e poi sterminarli per fame, sete, peste. Usciamo, percossi incessantemente dalle detonazioni, ripercorriamo sentieri che nelle primavere della libertà erano di suoni, luci, vetrine colorate, panche di caffè e domino, il macellaio roboante di inni di vittoria, il barbiere dalle battute molto laiche, l’omino-kebab col suo triciclo fumante e profumato, il rotolìo dei ragazzini dietro palloni e gelati, il fruscio di ragazze colorate, in volo su tirannie di genere dissolte, il frastuono folk o rock dall’affollatissimo taroccatore… E’ diventato un percorso di rovine, un terzo della via è un ammasso di ferraglia e cemento, diciotto case spianate, con dentro tutti quanti. Una bambina, l’icona di un passaggio danzante verso l’adolescenza, che agitava nel riso il suo leggero velo e che il mio obiettivo aveva inseguito fino a perdersi nel buio, è stata sradicata, spenta al suo quartiere, ai genitori mutilati in ospedale, negata al futuro che l’attendeva con amore. I suoi amichetti, da sopra le macerie, mi salutano, sulla dannata macchina che mi strappa via, con un segno che sta diventando il vessillo arabo dall’Atlantico al Golfo: le dita a V.
Fulvio Grimaldi
Fonte: www.informationguerrilla.org
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17.03.08