Di Alceste
Roma, 14 dicembre 2023
Il centrodestra vuole il premierato. Per chi? Per il prossimo supertecnico che le darà il benservito. Col proprio consenso, ovvio. Nel farlo, tirerà un sospiro di sollievo: le famiglie sono ormai al sicuro, gli appalti pilotati a dovere … ora tocca ai vicini di loggione … il popolicchio si arrangi, lui e il suo stellone … per noi può tornare chiunque … Draghi, Monti, Schlein … espirazione, inspirazione … sinistra, destra, tecnico, sinistra, destra, tecnico … il micco è servito, Davai Italianski!, limone in bocca e carota, l’immancabile carota, a vellicare il tifo più sterile e l’istinto dell’autocommiserazione. Rivoltolarsi nel brago della decadenza, infatti, dona brividi di piacere.
Non è stato il Ministro dell’Istruzione e del Merito dell’ex Repubblica Italiana, Giuseppe Valditara, a nominare Anna Paola Concia quale ambasciatora dell’Amore che ci Avvolge Tuttə nelle aule che stipano i residui pargoli italiani, ormai istupiditi, bensì Anna Paola Concia a creare le condizioni per la nomina di Giuseppe Valditara. Solo alla luce delle vere gerarchie si comprende la realtà globale. La devoluzione dell’avanspettacolo leghista “Profumo Dur – secessionismo con carro armato di latta – ponte dei terroni – lesbiche in classe” è solo apparentemente enigmatica. In realtà non ci siamo mai spostati dalla catastrofe (gr. kαταστροϕή, rivolgimento, capovolgimento finale che rivela la tragedia), progettata più di trent’anni fa, a cadaveri e macerie ancora caldi. Che la Anna Paola Concia abbia rinunciato all’incarico fa solo parte del piano che, al riparo da ogni obiezione, avanza. Al prossimo suono della campanella, magari con una nuova maggioranza, avremo i surrogati della direttrice artistica Concia, vestiti a festa, con i talleri europei cuciti sulle tutine d’organza, a insegnare come si diventa un servo, definitivo e irredimibile.
Il giornalista Massimo Del Papa, vaccinato, si lamenta dei danni da vaccino. La sua ricognizione sulle responsabilità istituzionali è condivisibile. Meno accettabile è lo j’accuse contro lo Stato e i partiti che promanerebbero da ideologie totalitarie, di destra e di sinistra. Già che c’è, forse per riflesso pavloviano, Del Papa coinvolge anche la Chiesa. L’errore è fatale. È proprio l’assenza dello Stato, già parodia della Patria, e cioè lo Stato 2.0 aggredito e conquistato dalle fanfaluche sul libertarianesimo, il liberismo, i liberali e il pensiero debole, ad aver permesso e giustificato questo. Il presunto Stato, in tale vicenda allucinante, entra solo coi suoi rami repressivi; un nudo esoscheletro con mere funzioni di polizia, ingannevolmente al servizio degli individui. La partita impari, e dall’esito segnato, si giocava fra tale apparato, connesso criminalmente a livello globale, e l’individuo. Di qui la tragedia. Tutto ciò che sino a pochi decenni or sono costituiva la vera difesa dell’individuo dal totalitarismo – organizzazioni religiose, accademiche, amicali, militari, corporative, politiche e professionali – fu dolosamente liquidato; spesso in nome di quella falsa libertà anarcoide, instaurata durante le rivoluzioni colorate degli anni Sessanta, di cui le parole di Massimo Del Papa sono ancora riflesso.
La fiscalizzazione dell’esistenza si è insinuata fra noi inavvertitamente, grazie al trojan della comodità.
App, scaricate la app, utilizzate la app; la PEC, la mail, lo SPID, la password, il codice, il QR code, la registrazione digitale, la firma digitale. Ciò che doveva liberarci dalle scartoffie, ha creato il kipple della scartoffia: spesso, gravoso, ineliminabile. Centinaia di scadenze, decine di disguidi, more, aggi, multe, gerarchie di solvibilità, interessi, ratei, ammortamenti, imposte, gabelle. Lo scopo è di impoverire, certo, questa la facile accezione del fenomeno; soprattutto, però, di tenere sulla corda, mai tranquilli, perché i debiti degli usurai, come sa chi ne è stato vittima, annientano lentamente l’anima. Di fatto è una tecnica di tortura per indurre all’abiura, adottata con successo in ogni realtà concentrazionaria. Ne sono travolti tutti. In una parrocchia del suburbio la perpetua ha acceso una vertenza contro il sacerdote entrante: 60.000 euri. E il nuovo non sa dove sbattere la testa. La messa in regola degli impianti ne ha già depauperato irreversibilmente il fondo-cassa; ora questa batosta; la saletta teatrale, fonte di qualche spiccio, è stata chiusa poiché non soddisfa le regolamentazioni europee vigenti. L’ENEL si è fatta viva reclamando un pingue conguaglio. I Nostri si sono ridotti ad affittare alcuni locali a raduni di usurai: compravendite aggressive di varia natura. I parrocchiani, per salvare il salvabile, si acconciano da credenti a clienti. La Chiesa, luogo del Sacro che espelleva il Mondo, è stata invasa proprio dal Mondo: se i Guardiani del Sacro, i Santi, sono assassinati sugli spalti, è inevitabile che le mura cedano di schianto.
Nel romanzo Ubik il protagonista è un tecnico, Joe Chip, al soldo della multinazionale guidata da Glen Runciter. Il mondo del depresso e povero Joe Chip, popolato da freak (telepati, precognitivi, inerziali) e da razze aliene, oltre che da un’implacabile burocrazia, è governato da intelligenze artificiali che, ormai, vantano un posto nella gerarchia superiore al suo. Persino la porta della propria misera abitazione gli dà sulla voce: “[Chip] fece quindi ritorno frettolosamente alla porta dell’appartamento, girò la maniglia e fece leva sul catenaccio. La porta rifiutò di aprirsi. Disse invece: ‘Cinque centesimi, prego’. Cercò nelle tasche. Non aveva più monete; nulla. Tentò ancora la maniglia. La porta rimase sempre chiusa. ‘Ti pagherò domani’, disse alla porta. La porta non si mosse. ‘Quello che ti pago’, lui informò la porta, ‘è soltanto una mancia; io non sono obbligato a pagarti’.
‘Io la penso diversamente’, disse la porta. ‘Guardi nel contratto che lei ha firmato acquistando questo appartamento’.
Trovò il contratto nel cassetto del tavolo; da quando lo aveva firmato si era trovato spesso nella necessità di consultarlo. Era abbastanza chiaro al proposito; il pagamento alla porta per ogni apertura e chiusura costituiva un obbligo contrattuale. Non una mancia.
‘Ha scoperto che ho ragione’, disse la porta. E la sua voce suonò soddisfatta”.
E, ovviamente, cos’è un mondo futuro senza usura? “Signor Chip, l’Agenzia di Analisi e Verifica dei crediti Ferris e Brockman ha pubblicato uno speciale avviso al suo riguardo. E’ pervenuto soltanto ieri al nostro ricevitore automatico e perciò lo ricordiamo ancora bene. Da luglio lei è precipitato nella scala di affidabilità del credito dal triplo G al quadruplo G. Il nostro reparto, come tutti gli altri dell’intero palazzo, è ora programmato contro l’erogazione di servizi o crediti a una patetica anomalia come lei. Per quel che la riguarda, d’ora in poi ogni servizio dovrà essere condotto sulle basi dell’ immediato pagamento in contanti. Probabilmente lei resterà su tale base per tutto il resto della sua vita …”.
Multinazionali che regolano la vita degli umani da remoto. Una vita indegna di essere vissuta: Chip, ovvero cheap, circondato da cheepnis, robetta da poco, rapida a deteriorarsi, maledetta dall’obsolescenza e che, da subito, degraderà nel pattume per eccellenza, il kipple, sorta di estremo eone gnostico destinato a invadere e sostituirsi definitivamente al reale.
Mi guardo, da entomologo, Il mondo dietro di te, il cui titolo originale è ben più pregnante e imperativo: Leave the world behind.
Una famiglia bianca (genitore 1 – Julia Roberts – e 2 – Ethan Hawke – + figlio + figlia) se ne va in vacanza; strani presagi: salta internet, poi l’energia elettrica, una petroliera si arena sulla spiaggia, i cervi migrano in massa; si aggiunge una seconda coppia, di colore (genitore 2 – Mahershala Ali, già pianista discriminato in Green book + figlia), proprietaria della casa-vacanza. Inizio con frizioni razziali che vedono lo scontro tra le femmine alfa (i maschi sono appendici): quella bianca non si capacita di come due negri siano più ricchi di loro; la negra non si capacita del perché si debba sottostare a dei bianchi: in fondo il bellissimo appartamento è il loro et cetera. Si profila, quindi, un’apocalisse americana (leggi: universale) di cui stentiamo a comprendere la natura: terrorismo islamico? Gradatamente i due nuclei prendono a miscelarsi, stimolati dalla paura di un nemico incombente quanto ignoto. La femmina bianca alfa quasi cede al negro, la femmina negra alfa, concupita dal figlio bianco, viene salvata dalla femmina alfa bianca: riconciliate, vedranno New York in fiamme attaccata dai “ribelli”.
Tale pellicola, una morality play concepita dal Potere, insegna variamente:
1. Dobbiamo rinunciare a ciò che siamo stati. Già prima dell’apocalisse la femmina alfa bianca (Julia Roberts) rivela al marito di volersi estraniare dalla routine che la disgusta. Ma ora ne ha la possibilità. Il mondo che detestava, infatti, non esiste più. L’insistente presenza dei cervi (simbolo della rinascita: la nuova umanità è anche questione di corna) significa che ci si deve reinventare su nuove basi: ciò è necessario e non si deve aver paura poiché – la battuta nel film è inevitabile – “andrà tutto bene”. Negri e bianchi, tutta la classe media benestante (quella che conta, il resto è plebe che seguirà il branco più scelto), dovranno unirsi contro il pericolo dei ribelli, degli Heathens; i Nemici; e chi sono questi nemici? Quelli che vi diranno di volta in volta: novax, russi, islamici, cinesi, suprematisti bianchi, alceste il blog, omofobi. Ovviamente a ogni popolo verrà servito il suo piattino … ai Russi gli Ucraini, a Taiwan i Cinesi, a Italiani e Francesi gli antieuropeisti, e così via
2. Il cubicolo si rende necessario per sopportare questa fase di transizione verso il nuovo Eden. La figlioletta bianca sarà la prima a intuire la goduria della restrizione da lockdown catastrofico: stanca degli andirivieni dei grandi, troverà il paradiso nel bunker d’una villa vicina, dove potrà finalmente guardare l’agognata puntata finale di Friends.
3. Non c’è un complotto, dice il maschio negro: anche le élite improvvisano nel panico. The Heathens, infatti, hanno colto di sorpresa pure loro. È una menzogna, ovviamente, ma fa scena.
4. La sequenza memorabile è quello del cimitero delle Tesla: a causa dei disturbi elettromagnetici, esse impazziscono, sfuggendo dai recinti delle concessionarie e, prive di guida, vanno a schiantarsi in colonna, come lemmings suicidi, tutte eguali (bianche), intasando di rottami le vie di fuga stradali. Si tratta di un avvertimento a Musk? O forse d’una amabile presa in giro: come dire, il green è una sciocchezza, vi stiamo fregando un’altra volta.
5. Ce n’è anche per i survivalisti estremi e i reazionari: i primi, a dispetto della loro paranoia, dopo essersi preparati scientificamente per la fine del mondo, spariscono senza lasciare traccia; i secondi fanno tante storie, poi accettano dei contanti per una medicina: cioè carta straccia. Messaggio: sono avidi, stupidi e asociali, non hanno capito che nel brave new world saremo tutti fratelli; affidatevi a noi, con fiducia.
6. La suddetta medicina, una qualunque, in pillole, deve lenire un disturbo (inventato ad hoc dagli sceneggiatori) che colpisce il figliolo maschio. Sintomo: gli cascano i denti. Messaggio subliminale: i giovani maschi bianchi, questi Cerbero sciovinisti (“Cerbero, il gran vermo,/le bocche aperse e mostrocci le sanne”), vanno deprivati dell’aggressività, attorno ai sedici anni circa, quando i testicoli sono al picco dell’efficienza sbruffona. Da accorti castrini, o dentisti dell’anima. Auspicabile, quindi, produrre maschi bianchi privi di carica elettrica: generare dei neutrini, smagnetizzati, cioè privi di contezza del passato: tecnopueri obbedienti. Le femmine, conformiste per natura, non daranno problemi, accontentandosi di granaglie ideologiche o della puntata finale di Friends.
Questa frase, “andrà tutto bene”, è una sorta di stigma luciferino. Me la ritrovo pure in un film taiwanese, Le cascate. Un film arty, dal messaggio più rarefatto. La protagonista, divorziata, crolla psichicamente durante il lockdown, perde il lavoro, accumula debiti, s’adatta a lavorare in un supermercato, vende la casa. Nel finale si scopre che il lockdown c’entra e non c’entra, forse la malattia era solo la premonizione del disastro in cui rischierà di morire la figlia. Ma la figliola si salva: ecco la felicità vera, pure in un cubicolo; ci si adatta a tutto, anche a posizionare scatolame con la laurea in management; le pretese cadono, la vita va avanti, pure il pretendente bruttino diviene accettabile. Parva sed apta mihi. In fondo andrà tutto bene, produce Netflix. La Taiwan dei nostri giorni, peraltro, non si differenzia granché da una qualsiasi capitale europea: stessi arredi e architetture, medesime aspirazioni, eguali finte libertà. La globalizzazione ha spinto in secondo piano i tratti distintivi d’ogni popolo, rendendoli, al massimo, pittoreschi. Presto spariranno. In perfetto tripudio egalitario, si governerà l’intero ecumene con qualche enclicica zoologica.
Il principiare dell’apostasia europea, di cui Cromwell fu uno dei primi apici, e da cui seguì quasi tutto, innervò il desolato pessimismo scespiriano. Di fatto siamo ancora fermi lì poiché le idee di allora sono le medesime di oggi, solo più radicalizzate. Non fa sorpresa, quindi, ritrovare in questo passo di J.L. Borges l’essenza del nichilismo europeo: “’In uno dei parlamenti popolari convocati da Cromwell’, narra Samuel Johnson ‘fu proposto con tutta serietà che si bruciassero gli archivi della Torre di Londra, che si cancellasse ogni memoria delle cose passate e che tutto il regime della vita ricominciasse’”.
L’Argentino, poi, s’abbevera a un filo di speranza: “Il proposito di abolire il passato si manifestò nel passato e – paradossalmente – è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile; prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato”.
Preghiamo con lui.
Abbattere i monumenti? Perché no. Si comincia da Cesena, ennesimo epicentro della demenza progressista: “Patrimonio dissonante a Cesena: in città il primo meeting europeo per ripensare gli edifici costruiti in periodi storici difficili, portatori di valori controversi”: questo per quanto riguarda la ganascia polcorretta. Poi abbiamo l’altra ganascia, l’Usura, che garantisce la colatura di un poco di ambrosia: “Avvio del progetto che ha garantito a Cesena un finanziamento di 180.876,86 euro”.
Vediamo cosa vogliono intendere per “dissonanza” e “periodo storico difficile” (all’inizio lo spreco di versificazioni vaselineggianti pare d’obbligo): “Quando si parla di patrimonio dissonante, o controverso, si fa riferimento a un oggetto patrimoniale collegato ad eventi storici più o meno conosciuti e riconosciuti, in alcuni casi legati ad un passato comune complesso e controverso, da cui possono scaturire interpretazioni conflittuali – o comunque in contrasto tra loro – da parte di gruppi socio-culturali diversi (es. Architetture dei totalitarismi del ‘900)”.
Leggi: qualunque gruppo di idioti, se avverte una dissonanza con la propria identità, impregnata di giuste rivendicazioni universali, può adire una pratica burocratica onde avviare la futura cancellazione di quell’edificio, monumento, pittura, affresco, scultura che ne offende la summenzionata sensibilità.
Esempio: alcuni antifascisti non riescono proprio a vivere perché il Palazzo delle Poste all’Ostiense o la scalea della Facoltà di Giurisprudenza presso la cittadella universitaria “La Sapienza” in Roma furono progettate dal razionalista Marcello Piacentini in piena epoca mussoliniana. Si avvia l’iter burocratico. Il politico, intanto, uno qualunque dell’arco in-costituzionale, avverte i propri tangentisti di riferimento. Si compone un lancio d’agenzia in cui “patrimonio” e “dissonanza” esondano dalle pagine. I Sovrintendenti ai Beni Culturali (a Roma ce ne sono addirittura due), frattanto, sono in vacanza. “Il Fatto Quotidiano” ordisce una raccolta di firme. La mozione passa in Comune dove un partito, uno qualunque, fa finta di opporsi. Battibecchi. Coccodé. Chicchiricchì. S’avvia, finalmente, la costruzione di una nuova scalea, ovviamente orrenda e disagevole, e però colorata d’arcobaleno grazie a innovativi quarzi ecologici. Gli influencer, intanto, influenzano. Il professor Nicodemo Colonna, ultranonagenario e decano di “Italia Sacra”, stila una vigorosa protesta grazie alla penna d’oca del proprio bisavolo, ma viene zittito, fra strepiti di putipù, da un tweet congiunto di Fedez e Selvaggia Lucarelli. “Il Fatto Quotidiano” alza il pollice, ma, per allungare il proprio brodo populista, parla di costi esorbitanti e sospetti. “La Verità” tentenna, “Il Corriere della Sera” e “Repubblica” approvano senza riserve. La Procura apre un’indagine affidandola alla magistrata Monica Cerbiattini che, dopo un anno infruttuoso, va in vacanza. L’iridescente scalinata ha via libera; viene inaugurata l’8 marzo 2029 alla presenza della Presidenta della Cosa Pubblica (il latino è stato abolito) Giulia Bongiorno e delle maggiori autorità; una targa con dedica alla trans Ermenegilda Birillo è scoperta fra gli applausi ecumenici dei convenuti. L’appena nominata Procuratrice Generale della Procura della Cosa Pubblica di Roma Ciliegia Rossetti (città che, presto, verrà ribattezzata Armonia), derubrica l’indagine di cui sopra annotandola nel registro modello 45.
Oppure: la Comunità Ebraica di Roma intende come dissonante l’Arco di Tito. E giù pure quello. Alla Comunità indiana non va giù la dedica a Keats, colonizzatore, agli animalisti l’epigrafe in lode di Goethe che, è notorio, odiava a morte i cani. E così via.
Il progetto di cancellazione è potenzialmente totalitario e, soprattutto, istituzionale e trasversale: “… lo scorso giugno è partito il progetto europeo finanziato da URBACT IV ‘AR.C.H.ETHICS – Architecture, Citizenship, History and Ethics to shape Dissonant Heritage in European cities’ che vede Cesena capofila di un team composto da altre otto città: Permet (Albania); Vilanova de Cerveira (Portogallo), Betera (Spagna), Gdansk e Krakow (Polonia), Leros (Grecia), Leipzig (Germania) e Kazanlak (Bulgaria)” in collaborazione con i quisling locali e le numerose, edaci, istituzioni private e pubbliche.
La conferenza stampa d’introduzione ha riscosso innumerevoli coccodè d’approvazione. E, per ora, anche un paio di chicchirichì.
La convinzione che dobbiamo strapparci dagli occhi è quella dell’evoluzione, del progresso. L’ottimistica processione paradarwiniana, rilanciata in ogni testo scolastico o divulgativo, dell’ominide che scende dagli alberi, guadagna la stazione eretta, perde il pelame, arrotonda la capoccia e conquista la scienza con la provetta in mano per lanciarsi finalmente verso le stelle, è una delle massime falsificazioni dell’Illuminismo Nero. Da d-evoluzionista, so che l’evoluzione non è sinonimo di progresso; con l’evoluzione, intesa come mero adattamento, e neutro dispiegamento, si acquista e si perde, allo stesso tempo. La falsificazione consiste nell’occultare le perdite e nel magnificare le presunte conquiste. Se, per un titanico sforzo della mente, si riguarda la storia umana con tali occhi luminosi e il più disperato sarcasmo, tutto il teatro del progressismo attuale si mostra per ciò che è, una recita mal condotta, un battibecco insulso e arrogante su fondali rammendati alla meglio.
Chi ama discettare sulle nuance, e nella ricerca di queste si compiace, s’accorge subito delle perdite e degli apparenti guadagni che abbagliano gli occhi dei superficiali. Una Natività di gusto bizantino, con quelle drastiche formazioni rocciose, la vegetazione stecchita dalla stilizzazione, la solidità pesa dei nimbi, le processioni degli adoratori e degli offerenti schiacciate in un grezzo tentativo di prospettiva, le campiture schiaccianti, esclusive … tutto questo suona primitivo rispetto a un Caravaggio o a un Georges de la Tour … eppure la concentrazione simbolica del primo, il lavorìo artigianale quale correlativo oggettivo d’un appressamento liturgico alla divinità, la profonda devozione effusa nell’immagine del Bambino e della Madre addormentati … tutto questo è perduto negli autori successivi a vantaggio (apparente) d’una tecnica esecutiva di certo superiore, ma che non compensa la densità inesauribile cui i primi simboli rimandavano: evocando un mondo di sensibilità comune a tutta l’ecclesia. Perdere, guadagnare: chi ha l’immane sapienza per tali calcoli?
Un fulmine riga i cieli in tempesta a incendiare un albero; cosa avrà voluto dire il nostro dio? L’uomo, irsuto e livido, esce dalle spelonche, s’avvicina a quel prodigio, dapprima tremebondo, poi riconfortato: è forse quello un dono? S’inginocchia, forse piange; la comunità si raccoglie presso di lui. I nuovi nati saranno deposti in quel luogo di rivelazioni. Tutti si sentono più forti, la fede non s’interroga su sé stessa; ogni pericolo o angoscia sembra superata. Dopo di lui qualcuno ne canterà la vita, istoriandola nei totem, figli e i nipoti ne ricorderanno le gesta mitiche, a glorificare il capostipite e quindi la stirpe, sempre più larga. Queste bestie sono inferiori a noi, meno felici? Cos’è la pienezza della felicità se non una fede che mai s’interroga? Quale la differenza fra questi uomini che non hanno un nome per la felicità, essendone inconsapevolmente immersi, e la Candida Rosa dell’Alighieri, ove ognuno, immemore di sé stesso, stinge nella pura luce della beatitudine?
Philip Edmund Gosse risolse il contrasto tra fede e darwinismo con una soluzione elegante e insuperata. È ancora Borges a ricordarla: “Gosse [immagina] un tempo rigorosamente causale, infinito, che è stato interrotto da un atto passato: la Creazione … Il primo istante del tempo coincide con l’istante della Creazione, come dice sant’Agostino, ma quel primo istante comporta non solo un infinito futuro ma un infinito passato. Un passato ipotetico, naturalmente, ma minuzioso e fatale. Sorge Adamo e i suoi denti e il suo scheletro hanno trentatré anni; sorge Adamo (scrive Edmund Gosse) e ostenta un ombelico, sebbene nessun cordone ombelicale l’abbia legato a una madre … di tutte [le cause] vi sono vestigia concrete, ma solo quelle posteriori alla Creazione hanno avuto esistenza reale. Esistono scheletri di glittodonte nella valle di Luján, ma non vi sono mai stati glittodonti”. Dio crea un Adamo reale assieme a fossili di tirannosauri mai esistiti e a concrezioni geologiche mai stratificatesi. Tale ipotesi si può deridere, ma è impossibile confutarla senza confutare la fede in sé. Ma chi può farlo se questa è salda e immediata?
I socialisti da social ridono e scherzano. Non hanno la più pallida contezza di chi si trovano davanti. Allo Zecchino d’Oro la piccola Aurora Esposito canta Ci vorrebbe un ventaglio:
“Si dice che una formica e una cicala
… si trovarono insieme a chiacchierare
in un giorno che non era nemmeno d’agosto!
Che caldo! che afa!
Diceva la cicala stremata
che grande fatica …
le confidava la formica …
In questo caldo innaturale
che sale, sfinisce, fa male
per questo sole che sembra malato
c’è un cielo, un mare,
una terra che non ce la fa! …
Che non ce la fa! Che non ce la fa!!”
Piegare Esopo al climate change … perché il caldo è “in-naturale” e “fa male”, il sole è “malato” e Gaia, la nostra terra, “non ce la fa!”. Infiltrare lo Zecchino d’Oro e il coro dell’Antoniano di Bologna. E dovrebbero tremare per dei tweet?
I maschi sono intrisi di cultura maschilista. E le galline? Di cultura gallinacea. Si possono fuorviare i comportamenti naturali? Certo. Lo afferma Martin Seligman nei suoi esperimenti sull’impotenza appresa (1965).
Tre gruppi di cani vengono sottoposti a coercizioni di qualche natura (una scossa, per esempio): il primo gruppo è liberato subito; il secondo può evitare la scossa premendo una leva; il terzo ne subisce le conseguenze senza scampo. Successivamente i cani dei tre gruppi vengono posti ognuno in una scatola divisa in due: la scarica elettrica è somministrata solo nella prima metà per cui il cane, per evitare la prossima, è costretto a saltare la barriera per rifugiarsi nella seconda metà. I cani dei primi due gruppi eseguono in larghissima maggioranza la manovra, mettendosi al riparo; quelli del terzo si accucciano, aspettando la sofferenza con occhioni umidi di rassegnazione. Perché? La prima esperienza, priva di alternative, ne ha depresso la volontà e l’intelligenza tanto da fargli accettare come inevitabile ciò che, invece, con un semplice saltello, è palesemente evitabile. Tutto ciò è noto da sempre. L’estinzione di interi popoli si basa su questo. Gl’Italiani rinchiusi in lockdown, snaturati, posti l’uno contro l’altro, sottoposti a un fuoco di fila di ignominie contro la propria storia, quotidianamente, aspettano l’ultima scarica al mattatoio. A questo servì il lockdown, questo ha prodotto.
La storiella dei femminicidi introduce al prossimo culto: sacerdoti di Cibele che si tagliano la massa scrotale in nome dell’eguaglianza. Nelle cliniche approvate dal SSN vi sarà uno strapuntino ove liberarsi di tale molesto impaccio in modo da accedere a relazioni basate sul rispetto l’uno dell’Altra. Quando sei ridotto all’impotenza, e sviluppi psicologicamente l’inevitabilità della tua meschina condizione (sindrome di Turetta), ti prendono a calci pure i gatti.
Alcuni storici pretendono di comprendere gli eventi ricorrendo agli ultimi saldi concettuali: fascismo, comunismo, liberalismo. Altri, filosofi, ripassano in padella la cicoria metafisica, spingendosi, i più arditi, addirittura sino a Kant. Ma l’uomo inizia la sua corsa verso il Nulla attuale milioni di anni fa. Le attitudini sono divise e colori indossati su complessioni mioceniche.
La natura autentica dell’uomo, che ama nascondersi, non si è mai dispiegata per compiacere le quattro carabattole polcorrette che oggi si gettano quale pastone ai micchi di tutto il mondo … essa, anzi, è aspra; irricevibile; terribile. Nel 1991, in Italia abbiamo 1916 omicidi volontari; al 12 novembre 2023 siamo a 285. In trent’anni, grazie alla pervasività crescente dei social, alla liberalizzazione del vizio (droga, prostituzione, alcool) e alla cooptazione delle organizzazioni criminali nello Stato, la linea di sangue si è quasi estinta. La data, 1991, è altamente simbolica. Il Potere Globale dirige verso la narcolessia morale, sociale, etica. La meta finale è la stasi dell’anima, la reificazione, da perseguire discolorando ogni campo umano, dal passato all’arte alla religione mercé la disgregazione progressiva dell’istruzione e la dozzinalità dell’offerta culturale. In fondo si tratta di un’utopia, pur terminale. Le gazzarre sull’inesistente femminicidio a questo servono: al grado zero dell’irreversibilità. Poiché i delitti, di ogni natura, qui sta il segreto terribile dell’umanità, ci avvertono di una vitalità; così come il crollo della litigiosità nelle aule dei tribunali significa la sparizione del tessuto economico, ormai annientato dalle multinazionali e depredato quotidianamente dallo Stato 2.0. Non è un caso che la residua criminalità sia portata dagli immigrati: fra di loro c’è ancora qualche essere umano. L’Italia e gli Italiani sono talmente corrotti, istupiditi e fessi da anelare il vuoto. Dall’horror vacui al cupio dissolvi. Finiranno per ciancicare barrette proteiche e scolare bottiglie green di sciacquatura di piatti ipnotizzati da un irenismo allucinatorio. Immemori di tutto, bramosi di scomparire, di sparpagliare le ceneri della loro transeunte e ormai odiata esistenza nell’oceano dell’Indifferenziato.
La nostra epoca ha creato la menzogna perfetta, colei che assume sembianze di verità. Per far ciò ha dovuto segretamente assassinare il principio di non contraddizione: se nel medesimo tempo e sotto il medesimo rispetto un’affermazione é vera e non vera, allora assume parvenza di verità qualunque altra affermazione. O, se non tira l’acqua al proprio mulino, di falsità. O quello che volete. Con l’abolizione del Principio Massimo si entra nel Paese dei Balocchi a festeggiare il carnevale delle Pecore Matte. Se è vero che Alberto è più bugiardo di Claudio non può esser vero che quest’ultimo sia più bugiardo del primo; oppure: se Alberto è meno bugiardo di Claudio non è possibile che quest’ultimo sia meno bugiardo del primo; e viceversa: se Claudio è più bugiardo et cetera. Non può essere che “A ∧ ¬A”. Se accettassimo tali affermazioni come entrambe valide potremmo dire di tutto: persino che siamo europeisti pur militando in un partito antieuropeista; o siciliani pur essendo nati a Lambrate; o esperti d’arte pur sdilinquendoci davanti a croste micidiali.
E così nei telegiornali il Cristianesimo è una religione oscurantista in un servizio delle 20.08: poiché si deve servire la causa uranista; e una religione-vittima nel servizio delle 20.23 poiché degli islamisti hanno assassinato quattro cristiani; Saddam va bene quando sbudella iraniani, male quando invade il Kuwait; bene i Talebani a colazione, se danno addosso ai sovietici, male durante il brunch, nel 2001, perché i colpevoli sono quelli con lo straccio in testa; il patriarcato è benevolo quando si parla della dinastia Agnelli (l’Avvocato, così lungimirante!) e depravato se Mario Bombacci ha nostalgie da patria potestas; l’amore per le quattro ruote va bene nelle pubblicità dei SUV da 80.000 euri, male quando si è riottosi a rottamare la Panda del 2006; la bistecca va bene allorché la rosolano gli chef stellati, male quando Sante Katzone anela accendere il barbecue di famiglia; bene se la fregna è fatta intravedere e annusare lascivamente sul palco (femminista), male se Gigio Tambroni esclama per strada “Bionda, beato chi te se monta!”. E così via.
Se Rocco Siffredi incula una poveretta deportata sul set dai carnai dell’Est post-‘89, e poi le infila la testa nella coppa del cesso tirando lo sciacquone, siamo in piena libertà d’espressione, poiché la pornografia serve come mezzo di dissoluzione; se accenno la mano morta sul 556, vengo linciato a pagliacci unificati; se spedisco un sedicenne in fabbrica invece di costringerlo in classe spiegandogli pazientemente il principio di non contraddizione, e questo rimane schiacciato sotto un muletto, sono un benemerito che introduce i ragazzi presso il mondo del lavoro; se faccio fare tre giri a dei ronzini in piazza del Campo a Siena, due volte l’anno, assurgo a massacratore. E così via.
“Ah, proprio Lei cercavo … e così guarda i film di Rocco Siffredi?”. “Certo”. “Come, certo?”. “Lo ritengo un campo d’indagine perfetto … humani nihil a me alienum puto et cetera et cetera … più sottoculturale è la sottocultura, maggiormente essa s’impregna dello Spirito dei Tempi. Più stupido è il presunto intellettuale, più egli rivela, che lo voglia o meno, la verità sul futuro riservatoci. Nei cretini ci sono meno resistenze, capisce? Il gallinaio pomeridiano di RAI1 è maggiormente rivelatore d’un file riservato della CIA … occorre frugare e rimestare nelle tinozze più lutulente e fetide … tutta l’estetica dell’alto complotto reca la mente a kolossal troppo grandiosi. L’apocalisse si annida nelle pratiche burocratiche, nei filmucoli, nei pop-up dei social, nelle interruzioni pubblicitarie di Spotify … si è mai chiesto perché Spotify è gratis? Dopo aver perseguitato dei poveracci per anni a causa di qualche CD fasullo preso sulle bancarelle o del download gratuito di un album di progressive tedesco del 1972? Il copyright, la proprietà intellettuale, la SIAE, il genio creativo … e poi aprono la discografia mondiale di mezzo secolo sul PC … sì, occorre indagare gli anfratti più spisciati, gli scantinati della propaganda, le latrine autostradali, le dark room del Nulla … qui si rinviene il vero inferno … occorre farsi Assange della merda, per comprendere … che la catastrofe proprio qui si denuda, come una Kali impietosa e stracciaculo …”.
Ho sempre reputato Fabrizio De Andrè un cantante ordinario e un compositore mediocre. Su tale giudizio pesano indubbiamente i suoi sciocchi turiferari, gli assordanti rituali delle celebrazioni, le titanomachie libresche: Faber, poeta, maestro di pensiero … ma quando mai … come presunto intellettuale ne detesto la sciocca faciloneria nel giudicare epoche e Italiani impregnata del relativismo tipico di quegli anni che, a onta del clamore, hanno fruttato solo un raccolto miserabile: “Sia da giovane che da anziano [ho avuto] pochissime idee ma in compenso fisse …. in questa canzone già esprimo quello che ho sempre pensato: che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non ho capito ancora bene, malgrado i miei cinquantotto anni, che cosa sia esattamente la virtù e che cosa esattamente sia l’errore. Perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c’erano morali nel Medioevo e nel Rinascimento che oggi non sono assolutamente riconosciute. Oggi vedo che c’è un gran tormento sulla perdita di valori. Bisogna aspettare di storicizzarli. Io penso che non è che i giovani di oggi non abbiano valori: hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capire bene perché siamo troppo affezionati ai nostri. Tutto questo per dire che io non ho nessuna verità assoluta in cui credere, che non ho nessuna certezza in tasca e quindi non la posso neanche regalare a nessuno. Va già molto bene se riesco a regalarvi qualche emozione”. Un prodotto dei Sessanta, insomma, languido, falsamente umile e gonfio d’albagia morale, a disconoscere la Patria, scambiata per arengo d’una meschina lotta politica. La libertà anarcoide non fu che il consueto disprezzo ideologico verso ciò che si è stati, il rinnegamento che, nella storia, ritroviamo sempre prima della caduta di un paese. Anch’egli nella morsa di una contraddizione insanabile poiché se da una parte cicalava di libertà secernendola da un angusto relativismo (il passato, quale errore!), dall’altro era costretto a molestare i trovatori, Villon e Carlo Martello per cucinare le sue lagnose creazioni. La stessa attitudine ritrovo in un tal Michele Serra, già noto goliarda, interrogato sul patriarcato a proposito d’un recente fatto di cronaca nera. Inizia: “In realtà questa faccenda [del patriarcato] va avanti da un po’ di millenni … eh … dalla concezione di un dio padre …”; lui inizia e io giro canale; siamo sempre ai blocchi di partenza: il dio padre, maschio, barbuto e vendicativo … che uccide … Gott mit Uns … le solite sciocchezze, apprese, per via di Bignami, dal marxismo liofilizzato degli anni Sessanta, dalla bocca barbuta dell’altro goliarda … questo, però, degno di fede … tra una festa e una manifestazione … fra il gioco della bottiglia e il lancio della molotov arcobaleno. Questa nuova umanità che non sa nulla sull’Italia, ritiene che la civiltà sia nata con loro, circa mezzo secolo fa, e che i millenni che la precedettero siano buio, confusione e omicidio. Ciabattano di egalitarismo, lavoro, scuola, emancipazione … perché hanno inventato tutto loro, in perfetta giustizia … prima c’era l’intolleranza, il talebanesimo in porpora, la discriminazione. E ora, invece, dopo le conquiste civili, come ognuno vede, si respirano a pieni polmoni i diritti. E la libertà. La donna, povera donna … sotto i Romani, sotto il Papa re … ora, invece, ha i diritti … i diritti! I diritti! Diritti umani, diritti civili, diritti femminili, i diritti, insomma, distillati nelle storte dei laboratori globali … diritti … ma è proprio qui il busillis … quando la donna non ne aveva, di diritti, vantava un ruolo d’indiscusso e incomprimibile prestigio e autorità, una reverenza che nessuna legge positiva o meccanismo giuridico era in grado di rilevare. La contrapposizione fra l’aspro ius romano e la considerazione quotidiana che emerge dalle epigrafi familiari, a esempio, questo ci racconta; da un lato l’incapacità d’agire senza la tutela del marito, dell’agnato, della gens, dall’altro il popolo amorevole delle iscrizioni: figlia dolcissima, madre amatissima, moglie devotissima; persino le schiave liberate entravano in questo circolo di affetti. E fu davvero aspra, poi, questa legge? Il patriarcato latino marchiava a fuoco le sue bestiole? L’inizio e la chiusa del capitoletto sulla tutela muliebre nel diritto romano del professor Mario Talamanca, da ignorante, mi ha sempre sorpreso: “[In origine] la donna pubere … ha una limitata capacità d’agire ed é conseguentemente sottoposta a tutela … ridotta a un rudere formale la tutela muliebre sopravvive sino all’età, forse, di Diocleziano. Con Costantino la tutela mulierum é ufficialmente scomparsa”. Proprio con Costantino? Aveva forse letto le lettere di San Paolo ai Galati? È che, pure qui, si son fatti calcoli sbagliati sul passato … dolosamente … e si è costruita un’attualità fintamente egalitaria su tali somme e moltiplicazioni da somari: a donarci la vera schiavitù.
Aprono il supermercato automatico. Non c’è personale. Neanche la merce, a ben vedere, dato che la vera merce è quella che reca il carrello. Esso scorre via, silenzioso, ed è lui a guidare l’avventore, muto; quindi il brivido della scelta inesistente; la sciocca convinzione dell’abbondanza; la cassa rumina un totale. Si striscia una carta, o s’imprime un pollice, o l’iride fissa un decrittatore digitale. È così comodo! La comodità è il progresso degli usurai, in effetti … hanno sostituito la libbra di carne col divano … in ottanta comode rate … comodamente seduto a casa tua … in tutta comodità … non si scomodi, gliela invieremo per mail … un QR code da leggere, più comodo di così! Facile, semplice, elementare, comodo, s-pensierato. La catalessi. Poi, nel cubicolo, mentre si spacchetta il mangime da pollaio, lacrime incomprensibili salgono agli occhi. Per fortuna soccorrono i social, i visori. I chiarori azzurrini nello sgabuzzino, quale balsamo! Nel buio folgora il superomismo vanesio del micco: ci si accapiglia su questioncelle di quart’ordine, puerili … si odia, ci si rinfranca, si tendono alleanze, si mostrano le frattaglie di un’esistenza insulsa.
Allo stesso modo le mandrie degli zombi di Romero. Avidi di carne umana, scossi dalla furia cieca dell’unica pulsione sopravvissuta, cenciosi, putrefatti, mutilati, essi gridano a milioni sciamando verso un orizzonte che più non comprendono e che non ha fine e meta; improvvisamente, però, si chetano; è uno spettacolo straordinario per la simultaneità con cui quella turba disperata ammutolisce; alte, sopra di loro, s’allargano alcune esplosioni artificiali; gli ombrelli dei fiori di fuoco, a decine, verdi, dorati, rosso sangue o d’un bianco accecante, illuminano i loro visi mostruosi e scarnificati che, ora, illusi da quegli sfavillanti arabeschi, posano in una stupefazione soporosa che, in un essere umano, potrebbe confondersi per felicità.
Qualcosa, però, a loro insaputa, si muove, annidandosi con cautelosa professionalità. La fucileria è freddamente disposta. S’inquadrano i bersagli inermi: sarà un massacro.
Per annientare un Paese occorre prima isolare i migliori, poi assassinarli a tradimento. La scia di sangue e diffamazione al sorgere della Seconda Repubblica ci ammonisce riguardo a tali eliminazioni propedeutiche all’instaurazione del Nuovo Ordine. Le tronfie santinificazioni postume, a base di trombette infilate su per la bocca del culo, sono il marchio indubitabile del martirio. Il cha cha cha istituzionale copre spesso un omicidio di Stato; dettato da sicari globali.
Non tutti gli uomini sono eguali, non tutte le civiltà sono eguali. Per dominare definitivamente e senza ritorno, occorre annichilire le fonti più luminose. Una città italiana, a esempio, vive di alcuni luoghi d’irradiazione precisi, non necessariamente vistosi. Una chiesa, un panorama, una piazza, una torre. Il genius loci, ovvero la ragion d’esistere, sgorga da qui. Eliminatelo e avrete eliminata la città stessa. Si avrà poi un bel dire: “Ma no, è ancora lei, non vedi i palazzi, le strade, le ferrovie, gli abitanti?”. Ma occorre andare oltre, sviluppare un nuovo sguardo. Orvieto o Lucca non sono mai state un gruppo di architetture, ma stratificazioni vertiginose, come un olio di Tiziano Vecellio, il Colorista Sommo: ricco di otto, dieci, venti stesure e velature. Alcune città, un tempo bellissime, e perciò risanatrici, tanto che gli apostati del Nord venivano qui a ricostituire l’anima slabbrata, sono ormai comabonde, o morte, perché i pugnali degli assassini hanno colpito proprio quei centri vitali. Seppur presenti allo sguardo, esse languiscono residuando quali puri ricettacoli di sozzure pubblicitarie, di sciocchi espedienti turistici, d’intrallazzi digitali.
I roghi più inumani sono innescati dai focherelli più innocenti. Le domeniche a piedi … ah, finalmente si respira, ah le biciclette, oh, la città come non l’avevo mai vista, certo, certo, bisogna ripetere … ripetere! Ogni domenica! Macché, pure il sabato! Tutti i giorni, poffarbacco! Basta inquinamento, che vengono i tumori! La Panda smarmittata, revisione ogni dieci anni? Ma no, ogni quattro, anzi, ogni due! E multe, multe! Salate, però! Questa la via! E le strisce blu, a pagamento, si paghi, uno due cinque dieci … cento! Come a Wall Street! E ora, pover’uomo? E ora per entrare nel cuore della tua città devi sborsare la tangente, perché ti hanno ridotto a estraneo. Anzi, questo il sottinteso, è meglio che non vi entri più. Dapprima ti abbiamo scacciato da lì, maledetto vandalo, poi abbiamo lentamente degradato le zone di pregio ad abbassare i prezzi e acquistarle per un boccone di pane, ora le recintiamo a nostro esclusivo godimento … ma sì, Roma Firenze Napoli Palermo sono nostre, per te c’è la città in quindici minuti netti, nelle periferie nichiliste, fra il kipple che avanza, giorno dopo giorno, come una ruggine che sfibra palazzi, fabbriche, parchi, viali, occhi, mani … rust never sleeps … solo il cubicolo rimane, il simulacro statale a regolare una vita indegna d’essere vissuta; e tanti diritti, poi, tantissima libertà … di annientarsi, da soli, senza memoria, lontani da Dio e da ciò che si è stati, in perfetta e disperata letizia, avidi di dissoluzione: disperdete le mie ceneri, ammazzatemi ex lege, usatemi da concime … merda eris …
“Mi scusi, ma devo dirlo, Lei è proprio pesante e ripetitivo, lo sa? La nostalgia, l’apocalisse … Basta! Noi siamo attivi, studiamo, siam birbanti …. vogliamo l’azione, l’offesa bruciante e futurista … i graaaaficiiii .. non questi sermoni …“.
“Ma no, prego, è che mi ripeto come i vecchi … son fuori sincrono … e poi ho una memoria totale per le piccinerie, come Ireneo Funes … a esempio, oggi, sì, proprio oggi, mi son ricordato la strada in cui venni al mondo … mille anni fa, forse … e le vetrine dei suoi cento negozi, la sera, a illuminare il mio cammino verso casa. Il profumo della carta e delle colle, al giornalaio, o il pane dorato, la tuta bisunta dei meccanici, il tanfo del grasso da lubrificazione, o l’afrore dei formaggi, più avanti, spesso e definitivo, i due tavolinetti del minuscolo ‘vino e olio’, stipati fra pareti di bottiglie scure, e i loro giocatori di carte, mio nonno, occhiali spessi e cravatta, e il suo amico Michele, giacca e panciotto color cielo, la pendula catenella dell’orologio, le linee impeccabili dei pantaloni, e poi i pacchetti della tintoria, fazzoletti e lenzuola, le timide offerte della merceria, il fioraio, il biciclettaro, il varichinaio, la maglierista. La città dei quindici minuti era già qui, fra noi. Si era in Italia, chi doveva insegnarci qualcosa? Amori nascevano fra i lotti popolari, spesso per procura, sotto sguardi vigili e implacabili. Ci si sposava, si avevano dei figli, si invecchiava. Senza mai lasciare quei pochi chilometri quadrati. E chi aveva bisogno d’altro? Fosse stato per me ancora sarei lì, a volte sogno le appliqués verdoline dell’atrio del mio palazzo, a cartoccio, flebili ambasciatrici della luce. Si, quello era un impero. Avrei desiderato altro? E poi … mi dica: cos’altro posso cantare?“.
Di Alceste
Fonte: https://alcesteilblog.blogspot.com/2023/12/il-mondo-dietro-di-noi.html