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La Redazione

 

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IL MOMENTO UNIPOLARE DEGLI USA: IN CAUCASO FINISCE LA GRANDE ILLUSIONE

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A cura di Davide
Il 29 Agosto 2008
67 Views

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DI PINO CABRAS

Caucaso 2008: un punto di svolta.
La grande stampa non se n’è accorta subito, ma la guerra caucasica dell’agosto 2008 è uno degli eventi più importanti degli ultimi vent’anni. Segna un passaggio molto delicato, per molti spiazzante.
Dopo l’11 settembre 2001 fu recitato il mantra del “nulla sarà come prima”. La formula andrà rispolverata, magari in modo più giudizioso.
Non potranno essere più “come prima” né l’autopercezione dell’Occidente atlantista, né la valutazione che questo mondo dà della Russia putiniana, né si potrà più pensare di prendere decisioni con implicazioni militari nei confronti di Mosca con l’illusione che non abbiano un prezzo salatissimo da pagare, e subito. Si è già consumato tutto il tempo di un colossale abbaglio, ma dobbiamo capirlo al più presto se non vogliamo precipitare nella più grande catastrofe del nostro secolo.
La cosa che più mi ha colpito è lo stupore dei georgiani di fronte alla determinazione della reazione russa alle azioni scellerate del loro governo.
L’inconsapevolezza che regna non dico fra le nostre popolazioni ma anche fra le nostre classi dirigenti è della stessa pasta di quella di Tbilisi.
Su «The Times» del 26 agosto 2008 è stato ricordato che «Lord Salisbury, ministro degli esteri e Primo Ministro ai tempi dell’Impero Britannico, irradiò un potere globale immenso; il che non significa che amasse giocare con questo potere. Di fronte a proposte di scelte politiche britanniche che riteneva in grado di danneggiare profondamente gli interessi di altre grandi potenze, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi chiedendo semplicemente: “siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica”. Se gli eventi delle ultime due settimane hanno dimostrato chiaramente qualcosa, è che la Russia combatterà se percepirà sotto attacco i suoi interessi vitali nell’ex Unione Sovietica, mentre l’Occidente non lo farà, e in effetti non lo potrà, dati i suoi conflitti in Iraq e Afghanistan»
L’autore dell’articolo, Anatol Lieven, ricorda anche che «non c’è stata alcuna trappola russa. Negli ultimi anni Mosca ha reso assolutamente, pubblicamente e ripetutamente chiaro che se la Georgia avesse attaccato l’Ossezia del Sud, la Russia avrebbe combattuto». Eppure i ministri degli esteri continuano ad agire come se la Russia fosse ancora lo Stato esausto degli anni novanta su cui sobbalzava etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo gravava il cappio del Fondo Monetario Internazionale.
Perciò è importante aprire gli occhi, capire da cosa nascono le illusioni e dissiparle con una migliore percezione dei tempi di ferro e di fuoco che si preparano.


Il Cremlino che non c’è più

L’egemonia culturale e il momento unipolare
La rimozione del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, a cavallo degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, aveva scatenato negli Stati Uniti una nuova specie di politologi ambiziosi. Erano dei novelli fornitori di ideologia che architettavano una loro spaziosa nicchia nell’ecosistema imperiale nordatlantico, all’interno di un intreccio strettissimo fra fondazioni di pensiero politico, università, industrie editoriali e militari, ruoli di governo, lobby potentissime.
Per un po’ di tempo l’interprete più alla moda fu Francis Fukuyama, l’ideologo della “fine della Storia”, secondo cui l’unica evoluzione possibile di società e di Stato non fa che adempiersi nel liberalismo in chiave americana. Ma una delle più durature influenze fu quella di Charles Krauthammer, che elaborò il concetto di “momento unipolare”: la congiuntura storica che chiudeva il XX secolo, con gli USA unica superpotenza ancora in campo – una chance definita precisamente come il «momento unipolare» – delimitava un’occasione eccezionalmente favorevole per instaurare un dominio globale che, si disse poi, è il manifest destiny dell’America.
Fukuyama e Krauthammer sono tra i tanti neoconservatori che hanno fatto parte del PNAC, il pensatoio che ha dettato i principi della rivoluzione neocon durante l’amministrazione Bush, l’apice del loro momento unipolare.
I neocon – così come altri animatori dell’ideologia americanista che pure hanno accenti diversi – sanno nella pratica cosa significa “egemonia culturale”. È un tema affrontato da un intellettuale italiano del secolo scorso, i cui testi ebbero pure una certa fortuna ma che poi furono fatti ingiallire e furono o dimenticati o citati con sterile e cristallizzata nostalgia: Antonio Gramsci. Fra le sue pagine si legge che l’egemonia culturale è un concetto atto a descrivere il dominio culturale di un gruppo o di una classe che «sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo». Una definizione perfetta, che spiega per quale motivo certe norme culturali prevalenti non debbano essere viste come “naturali” o “inevitabili”, perché dietro di esse c’è il lavoro di apparati che le forgiano.
Ebbene, le instancabili officine delle idee della rivoluzione neoconservatrice e delle ideologie sorelle – ancorché apparentemente contrapposte – dei grandi elemosinieri “democratici” alla Soros hanno modellato un messaggio chiave, al centro di tutto un nuovo sistema di controllo.
Il messaggio egemonico è: il tempo per americanizzare il mondo fino in fondo è ora.
Questo proponimento ha avuto declinazioni diverse, con un arco di sfumature più democratiche o più militariste, ma ferreamente imperiali.
Zbigniew Brzezinski, noto politologo, esperto di strategia e analista internazionale, membro del Council on Foreign Relations (CFR) e della Commissione Trilaterale, capostipite della politica del nuovo espansionismo nordamericano, nonché consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza Carter e grande consigliere, oggi, di Barack Obama, aveva elaborato una grandiosa analisi geopolitica proiettata sul XXI secolo nel libro La Grande Scacchiera (Milano, Longanesi, 1998). L’analisi faceva perno su alcuni capisaldi:

  1. La fine del sistema sovietico lascia agli Stati Uniti il ruolo di unica superpotenza in termini politici, militari, economici e tecnologici, con interessi considerati vitali in ogni parte del mondo.
  2. È fondamentale che nel XXI secolo gli Stati Uniti mantengano la loro supremazia mondiale, estendano la loro area di influenza ed esportino il loro sistema politico e sociale e il proprio sistema di valori.
  3. Per conservare la leadership mondiale occorre controllare lo spazio geopolitico dell’Eurasia. Chi egemonizza l’Eurasia, e ne controlla le risorse, domina il mondo. Questo perché «fin da quando i continenti hanno cominciato ad interagire politicamente, circa cinque secoli fa, l’Eurasia è stata il centro del potere mondiale», e perciò diventa «assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America». Il continente eurasiatico, in termini geopolitici e geostrategici, ha un’area chiave definita come i «Balcani dell’Eurasia», un’area estesa che include Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Azerbaigian, Armenia, Georgia, Afghanistan e parte dell’Iran e della Turchia.
  4. Bisogna impedire che si affaccino sulla scena mondiale tanto delle potenze globali eurasiatiche, come l’Europa e la Cina, quanto delle potenze «regionali» come l’India e l’Iran, nonché far recedere la R
    ussia dal tentativo di riacquisire lo status di potenza globale sulle orme dell’URSS.
  5. Occorre creare, sul piano interno, fra masse abituate a un certo costume democratico, un’adesione alla politica di potenza, sapendo che «la democrazia è nemica della mobilitazione imperiale».

Si può riconoscere la filigrana di queste linee strategiche in tutte le correnti politiche statunitensi e britanniche che si sono misurate con le questioni internazionali nel corso dell’ultimo decennio. Sebbene i neocon siano stati gli interpreti con più potere a impadronirsi di queste idee (e per più tempo), proprio loro sono stati duramente criticati, e proprio da Brzezinski, per via dell’errore d’impantanarsi nella guerra irachena, troppo in contraddizione rispetto al punto 5 prima elencato.
Meglio uno strumento imperiale più morbido come le “rivoluzioni colorate”, realizzate o tentate a ridosso dei paesi ancora in notevole misura integrati con la Russia, per accerchiarla, in attesa di una rivoluzione sintetica che l’avrebbe disgregata, magari con un Mikhail Khodorkovskij al Cremlino, pronto a svendere ai “valori occidentali” tutta la tavola periodica degli elementi contenuta nel sottosuolo della patria di Mendeleev.
In attesa di mettere le mani sulla cornucopia dei minerali, ecco le rivoluzioni di accerchiamento.
La “rivoluzione delle rose” georgiana è un caso esemplare. In Georgia viene costruito ex nihilo un regime – quello di Mikheil Saakashvili – tuttora alimentato interamente dagli stanziamenti governativi degli Stati Uniti e da quelli privati dei fondi legati a George Soros. Potete contemplare il risultato già percorrendo la via che vi conduce dall’aeroporto di Tbilisi fino al centro della capitale georgiana: forse l’unica strada al mondo a chiamarsi viale George W. Bush. Il regime cerca di soffocare la naturale vocazione geografica del suo paese a integrarsi con l’economia russa. L’energia di cui ha bisogno viene fornita dagli americani. Dopo Israele, la Georgia è il paese che riceve più trasferimenti finanziari diretti dall’amministrazione USA. Come Israele, spende gran parte di questi turbo-dollari in armamenti di matrice statunitense. Non ci sorprende perciò che i ministri chiave del governo di Tbilisi (primo ministro, difesa e gestione delle aree contese) sono retti da cittadini israeliani. Nessun cenno su questo lo avete letto o sentito sui media mainstream, più realisti del re. Lo apprendo invece dai giornali israeliani, che rivelano anche che il primo ministro di Tbilisi, Lado Gurgenidze, pochi minuti prima che iniziasse l’attaco all’Ossezia del Sud, ha chiesto per telefono una benedizione del vecchio rabbino Aharon Leib Steinman, leader del partito più ultraortodosso e razzista di Israele. È in questo contesto che la Georgia decuplica le sue spese militari – soprattutto armamento pesante, quello poi usato nell’attacco all’Ossezia – e diventa il terzo contributore per numero di uomini nella guerra in Iraq. Delle privatizzazioni selvagge, non dissimilmente da quelle realizzate presso il grande vicino ai tempi di Boris Bottiglia Eltsin, beneficiano pochi clan, mentre l’economia tracolla. Ne gode su tutti il clan tribale della madre di Shaakasvili, un sistema di potere al centro della corruzione dilagante. Gli oppositori sono vessati, alcuni spariscono nel nulla. Il regime vieta persino l’uso della lingua russa, offrendo un’inequivocabile conferma alle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del sud circa il loro destino una volta che fossero ricomprese nei confini della Repubblica, qualora non bastasse loro l’atroce memoria dei bombardamenti subiti negli anni novanta.
Questo re di Gomorra è dunque il campione dei diritti umani, della “giovane democrazia” e dei valori occidentali difeso a spada tratta contro quel cattivone di Putin sul «Corriere della Sera» del 17 agosto 2008 da Filippo Andreatta, professore di relazioni internazionali a Bologna, consigliere di amministrazione della principale holding italiana di produzioni militari, Finmeccanica, nonché – come Saakashvili – educato in quelle scuole d’élite di emanazione militare che istruiscono gli intellettuali organici dell’atlantismo.
Andreatta – il giovane vecchio allievo dell’Atlantic college – naturalmente non esprime nessuna originalità rispetto alla vergognosa manipolazione dei fatti che ha permeato i media occidentali in questa vicenda. Sebbene ci risparmi l’ormai triviale richiamo all’icona dell’Orso russo, anzi sovietico, ripercorre tutti i luoghi comuni sulla minaccia russa e sulla sua violazione – udite udite – della «santità dei confini». Siamo alla mistica.
Altrettanta devozione riecheggia nei proponimenti di Bernard Kouchner, il ministro degli esteri francese, mentre lancia l’idea di inattuabili sanzioni a difesa della santità dei confini. Sanzioni? A questa superpotenza, alla Russia del 2008? Anche lui, Kouchner, non aveva fatto cenno a confini santi durante i bombardamenti del Libano da parte di Israele né agli esordi dell’invasione dell’Iraq, da lui appoggiata. È ovvio che il suo collega russo Lavrov possa permettersi di soppesare le parole di Kouchner come quelle di un bellimbusto ciarliero e fallace.
La linea che passa nei governi e nei giornali occidentali, interrotta da rare prese di posizione contrarie, è dunque quella di coloro che hanno già appoggiato con catastrofici errori di valutazione gli enormi disastri bellici del mondo post-11 settembre. Vedo un Occidente che per anni ha allargato la NATO e umiliato la Russia, con insistenza mai doma, da “bastona il cane che affoga”. Un’espansione che avveniva intanto che gli USA perdevano prestigio e forza, l’Europa si ingrippava, la Russia emergeva dal gorgo dei debiti e diventava un player energetico globale, un paese in grado di far valere anche militarmente la sua indipendenza, un super-creditore con posizioni di forza.
«Non si capisce per quale arcana ragione un creditore dovrebbe fare sconti ad un debitore che ogni giorno cerca di prenderlo a calci nel sedere», ha ironizzato in tempi non sospetti, nel 2006, il blogger Mark Bernardini.
Se siamo a quel che siamo, perlomeno c’è stata nelle classi dirigenti atlantiste una profonda incapacità di analisi e valutazione. Nei governi emerge avventurismo e irresponsabilità. Nel sistema della comunicazione una colossale inattendibilità.
Mentre le convention dei grandi partiti statunitensi pullulano dei nostri inviati che raccolgono cinguettando anche la più minuta nota di colore di quei riti falsamente spontanei, e in realtà pianificati quanto una coreografia nordcoreana (solo in chiave più jazz), le corrispondenze occidentali da Mosca – dove pure si decide il futuro del mondo proprio in questi giorni – hanno viceversa una staticità da avamposto nel deserto dei tartari, un fumo di mistero e un tocco televisivamente brezneviano. Hic sunt ursi.
In un simile contesto, chiedersi se proprio lì, sulle rive della Moscova, ci sia un trattamento migliore della verità, chiedersi se per caso oggi la disinformacija non abiti qui da noi, può apparire come una grande eresia. Eppure è una domanda utile da farsi. Forse una delle più utili in questo mondo più bugiardo deformatosi nei tempi della Guerra Infinita.

L’11/9 visto da Mosca. Altro che “complottismo”
L’11 settembre 2001 fu il momento clou per dare adempimento al “momento unipolare”. Nemmeno la Russia, fresca di default e con un Putin agli esordi, poteva dire no al dispiegamento di nuove basi USA che la circondavano in Asia centrale, in luoghi influenzati per secoli da Mosca.
Molti osservatori – anche quelli che non sono venuti giù con l’ultima pioggia – sono colti di sorpresa dalla durezza con cui, diversamente da allora, si
manifesta l’indipendenza russa. Eppure, senza aspettare che la copertina del settimanale «Time» consacrasse Putin Persona dell’Anno 2007, c’erano già i segnali che i russi avevano capito benissimo – e da subito – il significato dell’11 settembre, ed erano pronti a riorganizzarsi, come poi hanno fatto.
Il settimanale moscovita «Zavtra», ben addentro alle questioni dell’intelligence russa, ha pubblicato il 14 settembre 2002, appena un anno dopo i mega-attentati, la trascrizione di una tavola rotonda che analizzava la situazione mondiale generata da quel drammatico spartiacque della storia recente. Sebbene Vladimir Putin per alcuni anni abbia ripreso a suo modo la retorica statunitense della ‘guerra al terrorismo internazionale’ (in Cecenia fa comodo) e non abbia mai ufficialmente messo in dubbio le versioni ufficiali dei fatti, molti eminenti figure dei servizi segreti, cioè il suo ambiente di provenienza e la sua principale riserva di public servant, si sono mossi quasi all’unisono per esternare la loro visione della realtà effettuale, molto diversa da quella che si propala da Washington.
È interessante rivedere oggi quanto fu detto in quella occasione. Si possono capire molte consapevolezze della Russia di Putin e di Dmitrij Medvedev.
I partecipanti al panel di «Zavtra» erano il vice editore del periodico, Alexander Nagornij, l’analista strategico Generale Leonid Ivašov (che sino al 2001 era capo di Stato Maggiore), l’esperto finanziario Mikhail Khazin, il noto commentatore televisivo russo Mikhail Leont’ev e l’ex numero 2 del KGB Leonid Šebaršin.
La discussione ci racconta bene come questi osservatori russi – tutti collocati in un punto d’osservazione relativamente privilegiato – valutavano la nuova situazione. Non si dimentichi, era appena il 2002.
Per Ivašov l’11 settembre è stata – né più né meno – un’operazione interna agli Stati Uniti, l’espressione di uno scontro tra due forze operanti negli USA, aventi due concezioni molto diverse sull’uso della forza militare, seppure entrambe miranti all’obiettivo di modellare un impero mondiale. Una di esse – a parere dell’ex capo di Stato Maggiore – è più direttamente collegata ad ambienti militari, la seconda è collegata alle mafie finanziarie mondiali con addentellati inseriti nei vari snodi cruciali del potere americano, a partire dai servizi segreti.
Ivašov non si sorprendeva del fatto che – in parallelo con le indagini in corso sugli attentati – alcune inchieste mirassero alle attività di varie altre organizzazioni.
La pressione proveniente dagli ambienti finanziari spingeva ad anticipare le date del calendario che segnava il rafforzamento del potere imperiale, un po’ in urgente risposta alla spinta minacciosa della crescita cinese, un po’ perché l’occidente arabo si stava consolidando e, infine, perché in tutto il Sud-Est asiatico decollava uno sviluppo potente, in grado di spostare grandi equilibri. La sequenza che Ivašov nel 2002 prevedeva nell’agenda imperiale USA post-11 settembre era la seguente: attaccare prima l’Iraq, poi l’Iran, giungere a rendere stabile il proprio potere di controllo globale per poi piegarsi nuovamente su problemi interni, in previsione di un collasso economico e politico-sociale.
Sulla stessa linea si muoveva l’opinione di Mikhail Khazin, il quale connetteva strettamente la minaccia di guerra e l’inaudita crisi strutturale dell’economia statunitense, vista con larghissimo anticipo rispetto alla nostra stampa mainstream, oggi stupita dalla crisi dei subprime. Il solo modo per sfuggire a un catastrofico collasso economico-finanziario negli USA, sarebbe consistito per Khazin nel pieno controllo delle risorse petrolifere del Medio Oriente, a partire dall’Iraq, e per arrivarvi non sarebbe esclusa l’opzione dell’uso delle armi nucleari tattiche, mostrando al mondo una determinazione inarrestabile in grado di indurre tutti in soggezione.
Per Khazin «la grande debolezza attuale degli USA è il fatto che, nel bel mezzo di una situazione veramente critica, gli uomini al potere sono tutti mentalmente limitati. Questa è esattamente la condizione in cui si trovava l’URSS.»
Nell’analisi della crisi americana, Mikhail Leont’ev la paragonava a quella dell’Unione Sovietica dei primi anni ottanta: l’élite degli Stati Uniti, come prima di essa quella dell’URSS, non dimostrava altre capacità di fuoriuscire dalla crisi che attingendo ai metodi e alle soluzioni che aveva nel suo armamentario. L’11 settembre – rimarcava Leont’ev – è stato fondamentale per passare a metodi nuovi. Emergeva il contrasto, sempre più brutale, tra due gruppi: quello della ‘forza militare’ e quello degli ‘isolazionisti’. A questi ultimi importava di salvare l’economia statunitense e la sua industria e pensavano che il sistema dovesse concentrarsi sui propri problemi mettendo in atto intanto una svalutazione ‘controllata’ del dollaro. Cosa che in parte è poi comunque avvenuta. L’opinione di questo gruppo è che gli Stati Uniti non abbiano necessità di esercitare su tutta la scala della loro potenza militare un dominio mondiale, ma solo di costruire un efficace sistema di gendarmi regionali. Il che spiegherebbe l’ambigua politica nei confronti della Russia, le aperture, l’inserimento in logiche di sicurezza bilaterale, ecc.
Tuttavia Leont’ev constatava la prevalenza e l’egemonia dei propugnatori della ‘forza militare’, i quali intendevano sfruttare a fondo l’unica area in cui registravano per gli USA un vantaggio soverchiante e nessun rivale all’altezza, ossia la sfera politico-militare.
L’analisi di Leont’ev proseguiva a quel punto in un modo che ci appare particolarmente degno di attenzione, perché al tempo di quella tavola rotonda non era ancora partita l’invasione dell’Iraq da parte delle forze anglo-americane e descriveva uno scenario che oggi possiamo considerare straordinariamente esatto e lungimirante. Una cosa – per Leont’ev – erano i massicci bombardamenti aerei dell’Iraq senza gravi perdite per i militari USA, mentre una cosa molto diversa sarebbe stata un’operazione di terra, che sarebbe potuta durare a lungo. In quel caso, la situazione sarebbe peggiorata sempre di più, e la lotta intestina tra i due gruppi all’interno degli USA si sarebbe intensificata costantemente. Leont’ev non fece previsioni di lungo termine. Ciò che a suo avviso contava era che la Russia definisse una risposta chiara, previo un grande cambiamento nella politica interna. Oggi possiamo dire che il comportamento di Putin degli anni a seguire – quando a costruito un’efficacissima nuova “verticale del potere” – ha scommesso con successo su una linea molto affine a queste acute analisi.
Leonid Vladimirovič Šebaršin analizzava invece l’intervento USA in Afghanistan, che in quel momento – senza che fosse ancora in atto la grande ‘distrazione’ di truppe in Iraq – dimostrava tutta la potenza americana, subito dopo aver travolto i Taliban, scelto un Primo Ministro di comodo, creato una qualche stabilità. Altro rilevante successo americano – a parere di Šebaršin – è stato l’uso dell’Afghanistan per prendersi le posizioni dell’ex Unione Sovietica in Asia centrale, con ottime basi in Kirghizistan, in Tagikistan, accordi con l’Uzbekistan, e qualche sollecitazione di un certo effetto sul Kazakhistan. La pressione sulla Russia a quel punto si spingeva verso il massimo, negli stessi anni dell’allargamento a Est dell’Unione europea e della NATO, oltre che della disdetta del trattato ABM da parte di Bush.
Solo con la recente espansione della SCO (Shanghai Cooperation Organization) – l’associazione centroasiatica che sotto l’egida di Mosca e di Pechino si sta velocemente trasformando in una consistente alleanza politico-militare, oltre che in uno spazio di cooperazione economica – assistiamo a una netta inversione di tendenza rispetto al quadro tracciato nel 2002 da Šebaršin.< br>Le riflessioni di Leonid Šebaršin son riapparse, più aggiornate, nel marzo del 2005. In un’intervista esclusiva con «RIA Novosti», diffusa fuori dalla Russia da «Réseau Voltaire», l’ex numero due del KGB valuta che «soltanto fra dieci-quindici anni i giacimenti del Kazakhstan e del Turkmenistan saranno valorizzati in modo intensivo e occorrerà anche controllare il percorso dei prodotti energetici. La campagna afgana ha permesso agli USA di impiantare basi militari in Uzbekistan e Kirghizistan e adesso va al massimo “la valorizzazione politico-militare” della Georgia e dell’Azerbaigian. La regione caspica è sotto sorveglianza. Essa è un nuovo punto caldo del pianeta.»
Il senso di quanto accade nella regione sta nella creazione di condizioni adatte per un’offensiva degli Stati Uniti nella regione caspica, una ulteriore tappa di confronto con la Cina e la preparazione degli USA a un «inevitabile» scontro con questo Paese. Nell’accaparramento delle materie prime, la Cina tende a divenire il principale competitore degli Stati Uniti. Presto o tardi, lo scontro avverrà. Šebaršin domanda:

«perchè gli Stati Uniti hanno bisogno di una base militare in Kirghizistan? Per i voli sull’Afghanistan? Niente affatto. Peraltro, gli effettivi lì schierati eccedono nettamente il personale incaricato di assicurare il controllo dei voli e continuano a crescere. Gli Stati Uniti cominciano a circondare la Cina di basi militari e non è senza ragione che negoziano con il Vietnam un loro ritorno alla base militare di Cam Rahn.
Il compito della Russia, quale potenza indipendente, risulta dettato da precise condizioni storiche.
Nello stato in cui si trova attualmente, la Russia è particolarmente vulnerabile rispetto a un pericolo esterno inatteso, nato da un cambio della congiuntura mondiale. Oggi il nostro scudo nucleare è il solo garante della nostra indipendenza. Occorre preservarlo, tenercelo stretto. Fintanto che esisterà, nessuno tenterà di attaccare seriamente la Russia. È fuor di dubbio che i nostri partner s’impegneranno a indebolirlo al massimo. Quello è un obiettivo strategico che non abbandoneranno.»

Šebaršin nel 2005 è dunque a dir poco profetico riguardo alla successiva decisione degli USA di impiantare sistemi antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca.
«Per noi – aggiungeva Šebaršin – è prioritario prendere delle misure energiche e meditate in vista della creazione di un’economia che ancora non esiste. Fintanto che il paese non disporrà di un’economia efficace – osservava Šebaršin – esso resterà dipendente dalla congiuntura sul mercato mondiale del petrolio, tutto ciò che potremo dire resterà lettera morta.»
Queste parole di Šebaršin oggi ci colpiscono, perché vediamo che la politica di Putin si è mossa con una profonda cognizione di questi problemi, ottenendo risultati clamorosi dalla congiuntura favorevole per i prezzi degli idrocarburi. Nel 2006 la Russia ha restituito in anticipo di molti anni il debito nei confronti delle istituzioni finanziarie internazionali, e oggi ha un surplus commerciale senza precedenti, disponibile per l’acquisizione di nuovi asset strategici per l’economia russa. L’istituzione di un ‘fondo sovrano’ di diretta emanazione statale, che raccoglie centinaia di miliardi di dollari, fa della Russia un predatore rispetto alle industrie e alle materie prime su scala globale. Avviene lo stesso anche per la Cina.
Sul piano militare, la Shanghai Cooperation Organization, la cui importanza e le cui funzioni si accrescono di continuo, è un formidabile fattore di riequilibrio rispetto alla proiezione imperiale degli Stati Uniti, in un clima di crescente competizione e riarmo, gravido di pericoli. L’aggressività americana sullo scacchiere asiatico, ossia il vero movente che ha covato l’11 settembre, ha generato un blocco d’interessi che vi si oppone con molta determinazione, pienamente consapevole del fatto che si sta preparando una catastrofe bellica su scala planetaria.
La corsa verso un simile cataclisma deve preoccupare qualsiasi persona di buon senso.

Di certo, per capire i veri retroscena dell’11 settembre e di quel che ne è seguito, la nostra opinione pubblica ha avuto armi spuntate, mentre a Mosca sono stati usati strumenti analitici fondamentalmente esatti, sebbene non disinteressati e non immuni da distorsioni nazionalistiche.
Da noi le classi dirigenti hanno creduto alle proprie bugie e danno segno di crederci fino ad accelerare la prossima guerra mondiale. In Russia, d’altro canto, si conta sulla durezza inaggirabile dei fatti.
Lo ricorda bene Giulietto Chiesa:

La crisi energetica, evidente a tutti salvo a chi non vuole vederla, incombe ormai sull’intera economia mondiale e determinerà contraccolpi drammatici in tutto il mondo, mentre la Russia si trova ad essere l’unica grande potenza che ha tutte le risorse al suo interno e non avrà alcun bisogno di andarsele a prendere, con la forza, fuori dai suoi confini. Il cambiamento climatico colpirà ogni area del pianeta, ma tra tutte la più avvantaggiata sarà proprio la Russia, mentre Europa e Stati Uniti dovranno difendersene in tempi relativamente rapidi.

Il nuovo realismo politico deve ridimensionare l’atlantismo
Nel frattempo, la corsa agli armamenti è in atto. Lo segnala l’ultimo rapporto del SIPRI di Stoccolma, uno degli istituti più quotati in materia. Le spese militari su scala planetaria sono ora arrivate all’enorme somma di 1.200 miliardi di dollari (a valori costanti del 2005), la più elevata di tutti i tempi, in costante incremento.
Gli Stati Uniti, orientati secondo le loro dottrine militari ufficiali a non concedere a nessuno la più lontana possibilità d’insidiare la loro supremazia militare, restano di gran lunga in testa per le spese militari, con un bilancio di 547 miliardi di dollari.
Le spese militari della Russia sono di circa 15 volte inferiori (34,7 miliardi di dollari), e sono indirizzate soprattutto a rendere più moderno un apparato militare sì imponente, ma trascurato per anni. La cosa fa riflettere, se si pensa che i media mainstream attaccano la ‘corsa agli armamenti’ del presidente russo Putin, con allarmi gonfiati. Il bilancio del Regno Unito, per dire, è molto più voluminoso (59 miliardi di dollari), così come quello della Francia (53 miliardi), o perfino quello di un paese ben poco proiettato all’esterno dal punto di vista militare, come il Giappone (43,7 miliardi di dollari).
Mentre l’allarme sul presunto “espansionismo” russo è pura fuffa propagandistica, è però vero che – se non vogliamo valutare male la forza e l’esperienza militare russa, pur sempre dotata di un arsenale strategico termonucleare, dovremo sapere che i russi stanno investendo molto ed efficacemente, con tecnologie che solo un irresponsabile come Saakashvili potrebbe sminuire. Per ora la disfatta delle sue forze armate se l’è beccata lui. Sarebbe folle trovarci presto – e senza sapere perché – a rintanarci in inutili rifugi mentre ci sorvolano i Tupolev.
A Mosca non ci sono nuovi Hitler. Ci sono statisti che fanno i loro interessi nazionali, e lo fanno maledettamente bene. Alcuni interessi contrasteranno con i nostri. Ma è normale. Sono più numerosi però gli interessi comuni. Non potremo passare a un futuro paradigma energetico senza idrocarburi escludendo una transizione di alcuni decenni che utilizzi proprio gli idrocarburi regolati da Mosca. La posta in gioco alternativa è una guerra mondiale, cioè – dati i mezzi distruttivi a disposizione e le dinamiche fra potenze – l’Apocalisse. Con questi mezzi e queste dinamiche una simile guerra è già da tempo fuori dal campo della razionalità politica. Il realismo politico oggi non può che ridimensionare l’atlantismo e prefiggersi un mondo multipolare. È la vera chiave del
la sicurezza collettiva.


La bomba a implosione russa

Pino Cabras
Fonte: http://pino-cabras.blogspot.com
Link: http://pino-cabras.blogspot.com/2008/08/il-momento-unipolare-degli-usa-in.html
29.08.08

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