VINCENZO MORVILLO
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Ore 3.00 del mattino. Notte di ferragosto. In un locale del centro storico di una Napoli semideserta, il Vecchio Perditempo, una trentina di persone ascolta musica, balla, flirta, beve qualcosa: insomma si diverte. A qualcuno però, evidentemente, questa cosa non piace, ed ecco arrivare una macchina della polizia municipale. Gli agenti dicono di essere stati chiamati da chi, a causa della musica troppo alta, non riesce a dormire; e ci può anche stare. Il problema è che, sin da subito, assumono un tono un po’ arrogante, provocatorio, insomma non consono a quella circostanza ferragostana e di sostanziale festa. In pratica, sarebbe bastato forse chiedere di abbassare un po’ la musica. E invece, gli agenti sembrano voler andare oltre: entrano, accusano i proprietari, dicono di voler effettuare controlli. A quel punto, uno dei presenti, Vincenzo Morvillo, giornalista pubblicista, responsabile cultura provinciale della FdS di Napoli e membro del collegio di garanzia, gli si oppone e chiede, dopo aver mostrato il tesserino dell’ordine per identificarsi, il motivo di quella perquisizione e di poter presenziare alla stessa. Gli agenti, allora, fanno uscire tutti, compreso Morvillo, che però non ci sta e continua a protestare vivacemente si, ma servendosi del democratico strumento della parola. Anche i vigili, però, non mollano e gli chiudono la porta del locale in faccia, lasciandolo sulla strada con gli altri. Morvillo cerca di riaprire la porta per rientrare e il vigile che è dietro gli si oppone nuovamente. Entrano in contatto e si tirano leggermente per un braccio. Nel frattempo, arriva un’altra macchina. I vigili che scendono chiedono spiegazione di quanto stia succedendo, Morvillo protesta anche con loro e, a quel punto, viene portato in macchina e messo in stato di fermo.
Per la cronaca, Vincenzo Morvillo è l’estensore del presente articolo e, il sottoscritto, quella sera, stava festeggiando anche il suo quarantaquattresimo compleanno. Non mi aspettavo certo di passare il resto della notte e metà di quel “fausto” giorno tra il comando della polizia municipale di Capodichino, l’ospedale Loreto Mare, dove mi sono sottoposto volontariamente all’alcolemia, e il palazzo di giustizia, aula 416, dove sono stato tradotto in manette, messo dietro le sbarre, processato per direttissima e condannato a 6 mesi. Ma certo, con sospensione della pena!
Ma andiamo per ordine. Quando sono stato fermato e fatto salire in macchina, mi è stato detto che mi sarei ricordato del compleanno. Ovviamente, ho risposto se volessero rinverdire i fasti della Diaz, ma non c’è stata aggressione. Arrivato al comando, sono stato fatto accomodare in una stanza dove, per circa mezz’ora, sono stato tenuto d’occhio da due, tre agenti che, dato che dicevo di non capire quale grave reato avessi commesso per trovarmi in quella incresciosa situazione, e che era mio diritto fare una telefonata, mi ricordavano che io, in quel frangente, non avessi diritti. Anche qui, come in macchina, ho fatto cenno –con un po’ di ironia, non nascondo- ai fatti di Genova, visto che il clima non mi sembrava, almeno all’inizio, troppo sereno. Comunque, le acque dopo un po’ si sono calmate ed è arrivato un agente più anziano, col quale ho chiacchierato per un’altra mezz’ora. Poi, uno degli agenti che mi avevano fermato mi ha riferito che era stato avvisato il magistrato e che questi aveva formalizzato l’arresto. Stupito, ho detto che la cosa mi sembrava incredibile ed eccessiva, visto che avevo solo tirato per una manica un collega e che, se le cose stavano così, volevo fare una telefonata per avvertire un avvocato, ma nessuno mi ha dato ascolto. L’incubo era cominciato ed io non me ne rendevo conto. Quindi, mi è stato chiesto se volessi fare l’alcolemia al Loreto Mare, dicendomi, come da prassi, che avrei anche potuto rifiutare. Ho acconsentito e così siamo andati in ospedale, dove mi è stato fatto un prelievo di sangue. Il referto parla di soggetto lucido, presente a sé stesso, che sa dove si trova e collaborativo. Si sospetta –ma cosa vuol dire?- uso di alcool. Tornati quindi al comando, sono stato messo su una sedia, in un corridoio, e lì tenuto per il resto della notte, senza mangiare e dormire e piantonato da due agenti, Ho chiesto più volte, come nel mio diritto, di poter fare una telefonata, ma mi è stata negata, dicendomi che tale diritto, in quella circostanza, non potevo esigerlo: “Guarda che non siamo in America!”, ha esclamato, con tono tronfio, un agente.
“No, siamo in Italia infatti” gli ho risposto con un pizzico di sarcasmo nella voce, e voi la telefonata me la dovete concedere. Di lì a poco, uno dei due giovani agenti che mi piantonavano, e con cui avevo anche scambiato qualche parola, si allontana e torna con una carta che mi consiglia di firmare, dicendomi che con essa io delegavo loro la possibilità di chiamare un legale o chi potesse chiamarlo. Mi sono rifiutato, adducendo che volevo chiamare personalmente, anche in loro presenza, o che fossero loro a chiamare in mia presenza. Ma queste possibilità mi sono state rifiutate e, dunque, la telefonata non l’ho fatta, pur continuando a protestare contro l’evidente violazione di un mio diritto.
Nel volgere di quelle due ore circa, tra l’alba e il sorgere completo del sole, devo confessare che ho sperato sinceramente che la luce portasse via quell’incubo in cui mi ero venuto a trovare. Del resto, anche sulle facce di alcuni agenti mi sembrava di leggere un certo imbarazzo per quella che, più passava il tempo e più appariva come una situazione surreale. Un incubo venato di grottesco, che però doveva ancora mostrarsi con la sua maschera più kafkiana. Ed infatti, intorno alle 08.30, un agente entrava nel corridoio e mi comunicava che stavamo per andare in tribunale per il processo. A questo punto, venivo ammanettato e portato in macchina tra due agenti. Neanche fossi Setola o Schiavone! Chiedo ancora di poter chiamare un avvocato o qualcuno che lo chiami per me, ma mi viene negata questa possibilità per l’ennesima volta.
Arriviamo in tribunale alle 09.00, vengo condotto nell’aula 416 e messo dietro le sbarre. Sono il primo, ma verrò processato solo verso le 12.15. Con me nel gabbiotto ci sono alcuni che avevano abbandonato gli arresti domiciliari, un tentativo di scippo, un possesso di droga e uno psicotico che aveva cercato di aggredire gli agenti di polizia. Quello che noto è che nessuno di loro sembra un vero criminale. Hanno facce segnate dal disagio, dalla povertà, dalla sofferenza, dalla solitudine. Figli di una Napoli e di una società che li ha emarginati e, in molti casi, condotti sulla via del crimine. Con alcuni di loro mi metto a parlare e stabilisco una certa empatia. Del resto, pur facendo le dovute differenze –e quando parlo di differenze lo dico a loro favore: io sono un privilegiato, mentre loro hanno sulla carne le ferite aperte dalla vita- siamo dietro a delle sbarre: noi da una parte, la società “sana” dall’altra.
Comunque, quando arriva il momento del processo, sono stremato, manco di lucidità, l’angoscia è alta e l’unico desiderio è di buttarmi alle spalle tutto. Sempre, ben inteso, che mi assolvano. Il giudice fa il mio nome e nomina il mio avvocato d’ufficio. Da questo momento in poi, commetto, proprio in virtù delle sensazioni prima descritte e di un’alterata emotività –ricordo che non dormivo da 24h e la notte era stata dura- gli errori più gravi. In primo luogo, non dico al giudice che la polizia municipale mi aveva negato il diritto di telefonare ad un avvocato. Poi, quando nonostante le rassicurazione dell’avvocato d’ufficio su di una mia immediata scarcerazione, considerata la fedina penale pulita e la natura certo non grave del reato contestatomi, il PM chiede sei mesi per resistenza, io decido di patteggiare, ascoltando l’ avvocato, il quale mi dice che, così facendo, la questione si sarebbe chiusa lì: pena sospesa e cancellazione del reato dal casellario giudiziario. Era tale la voglia di andarmene che ho accettato. E questi sono i fatti accaduti.
Vorrei però, a questo punto, fare alcune brevi considerazioni. Alla mancanza di lucidità valutativa della situazione, sono stato condotto dallo sconsiderato, coercitivo, disumano comportamento di una polizia municipale che, a Napoli, non è nuova ad imprese di questo genere. Una polizia municipale che, invece di regolare il traffico, di vigilare sulle ordinanze per i rifiuti, di contrastare i tanti abusi edilizi estivi e molto altro, preferisce giocare agli sceriffi. Una polizia municipale dedita a sgomberi di clandestini, a picchiare disoccupati e precari –chi non ricorda gli scontri con i Bros?- a smantellare i mercatini degli extracomunitari e, quando era ancora in carica l’ex comandante Sementa, a schiaffeggiare giornalisti. Una polizia municipale che, però va detto, rispecchia in pieno un clima da stato di polizia che, negli ultimi anni, e precisamente da Genova 2001 in poi, si è ampiamente diffuso in Italia. Le forze dell’ordine di questo paese troppo spesso pensano, solo perché indossano una divisa, di avere un potere amplissimo, quasi svincolato dalla legge -che proprio loro dovrebbero far rispettare- ed in virtù del quale possono permettersi di schiacciare la dignità ed i diritti di quei cittadini, al servizio dei quali dovrebbero essere. I casi Cucchi, Aldrovandi, Sandri, Giuliani sono un esempio e un monito.
Il problema è però, come sempre, politico. Le forze dell’ordine rispondono, infatti, alle istituzioni, non solo ai loro vertici, e certi comportamenti sono il sintomo di una politica e di una società che scivola sempre più verso destra, con l’ingiustizia sociale, il discrimine economico, il privilegio, il denaro a farla da padroni. Oramai, il potere politico è completamente subalterno al potere finanziario ed economico, al potere di quella borghesia capitalistica che sta modificando, nella sua stessa essenza, la società, specie quella occidentale, nella quale il virus dell’avidità dei mercati e del capitale, dilaga giorno dopo giorno. Le forze dell’ordine, troppo spesso, diventano così i gendarmi ed il braccio armato di quella borghesia, cui rispondono schierandosi contro la parte più debole del corpo sociale. Al sottoscritto, tutto sommato, è andata di lusso. Ecco perché ho deciso di raccontare i fatti.
Un’ultima annotazione. Chavez, quello che in occidente viene definito il dittatore venezuelano, ha mandato i corpi di polizia a scuola di diritti umani. E se facessimo altrettanto anche noi?
Vincenzo Morvillo (giornalista e pubblicista, responsabile cultura della Fds di Napoli)
Fonte: www.ilmanifesto.it
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20.08.2012