DI CARLO BERTANI
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Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare.”
Leonardo Sciascia
Per chi è contrario alla pena di morte, è motivo di gioia quando s’accendono le luci del Colosseo, giacché una condanna alla pena capitale è stata trasformata nell’ergastolo, oppure un Paese ha rinunciato ad applicarla.
Ma, nel Belpaese, è stata realmente abolita la pena di morte? Ossia, de iure e de facto? Non ci sembra proprio.
Dal punto di vista giuridico, la pena di morte è stata abolita: dal 1994, anche dal Codice Penale di Guerra. E nella realtà?
Nel terzo d’Italia governato dalle mafie, la pena di morte viene decretata senza troppi ripensamenti; non confondiamo gli ammazzamenti delle mafie come semplici “regolamenti di conti”: per la gran parte, sono decisioni prese da ben definiti consessi.
Le esecuzioni decretate dalle mafie sono state – ad esempio nel periodo 1999-2003, nemmeno fra i più cruenti – 666[1], che significa poco meno di 133 morti l’anno. Sono gli unici?
I morti in carcere nel 2008 sono stati 142 [2], un dato vicino alla media dell’ultimo decennio, giacché si va da un minimo di 123 nel 2007 ad un massimo di 177 nel 2001.
Sommando gli uni agli altri, otteniamo la bella cifra di 275 morti: sparati, strangolati, suicidi, “suicidati”.
Se confrontiamo le 5.000 esecuzioni annue cinesi alla popolazione (1,3 miliardi), otteniamo un rapporto di una esecuzione ogni 260.000 abitanti, mentre in Italia (275 contro 60 milioni) siamo ad un rapporto di 1 a 218.000: più “esecuzioni” che in Cina!
E finisce qui? No:
Omicidio Mattei
Strage di Piazza Fontana
Omicidio Mauro De Mauro
Strage di Gioia Tauro
Omicidio Feltrinelli
Strage di Peteano
Strage alla questura di Milano
Strage di Piazza della Loggia
Strage dell’Italicus
Omicidio Pasolini
Strage di Via Fani e omicidio Moro
Omicidio Pecorelli
Strage di Ustica
Strage di Bologna
Omicidio Italo Toni e Graziella De Palo
Omicidio Roberto Calvi
Strage del rapido 904
Strage di Pizzolungo
Omicidio Mauro Rostagno
Attentato dell’Addaura
Strage del Moby Prince
Strage di Capaci
Strage di via d’Amelio
Omicidio Ilaria Alpi [3]
E, questi, sono soltanto quelli più conosciuti giacché riguardarono personaggi noti o perché furono tragedie di notevole dimensione mentre, per quelli “minori”, spesso non si sa nulla. Nella lista, ad esempio, non compaiono quelli impiccati “in ginocchio” – ricordiamo, uno fra i tanti, il colonnello del SISMI Mario Ferraro – ma ce ne sono stati altri. E gli omicidi “strani” e senza colpevoli? L’Olgiata? Il mostro di Firenze? Perché lo Stato uccide senza remore a destra ed a manca? Perché, se si ritiene innocente, non fa nulla?
Non è qui il caso di spilluzzicare sui numeri: le cifre comunicate sulle esecuzioni cinesi potrebbero essere state ridotte per non scatenare la stampa internazionale, mentre parecchi morti delle mafie – per contro – potrebbero non essere stati identificati come tali. Insomma, il dato che c’interessa evidenziare è che lo Stato Italiano, sotto varie forme, commina una quantità di sentenze capitali paragonabile, per numero, a quelle della Cina, considerata la grande “assassina” di Stato.
E non si venga a dire che le morti in carcere sono casuali: negli altri Paesi europei il fenomeno non ha simili riscontri, mentre le “morti di Stato” nemmeno esistono, salvo rari casi.
Per capirne qualcosa di più – chi è lo “stato” che condanna a morte? chi la decide? chi la attua? come? – seguiremo una doppia via: la recente morte di un anarchico calabrese e la vicenda delle navi affondate dalla ‘ndrangheta, perché ci riserveranno, entrambe, delle sorprese.
In morte di Francesco Mastrogiovanni
(e di Federico Aldrovandi, Franco Serantini, Giuseppe Pinelli…)
Non è che tutti i giorni un poliziotto spara e uccide, ma un solo giorno è di troppo. Così come non è un fatto usuale crepare sputando l’anima con i denti, legati mani e piedi (probabilmente con il filo di ferro) ad un letto di contenzione, in una struttura sanitaria pubblica – una di quelle che dovrebbero guarire i poveracci, e non essere usate come lager – nel generale menefreghismo delle vacanze italiote, dove tutto passa in cavalleria nel nome di Santa Grigliata Di Pesce, e benedetto dai Santi Spaghetti Allo Scoglio.
Mentre tutti gozzovigliano – chi nei ristoranti per ricchi, chi nelle baracchette di fronte al mare – si compie l’ennesimo scempio italiota, che ha affondato definitivamente la vita di Francesco Mastrogiovanni, insegnante di 58 anni, dopo che – più volte – già avevano cercato di silurarlo.
La vicenda è stata divulgata solo dalla stampa locale e, soprattutto, sul Web: e, questo, la dice lunga sull’infimo livello toccato dal giornalismo italiano, dal giornalismo d’inchiesta italiano, quello che – oramai – s’occupa solo più di contare con dovizia i “pilu” sparsi nelle ville sarde.
Sono dunque da onorare i giornalisti Antonio Manzo (Il Mattino, edizione di Salerno) e Daniele Nalbone di Liberazione per la carta stampata, poi Doriana Goracci, Sergio Falcone ed il sito Nazione Indiana (ed altri) che ha ripreso la notizia, “catapultandola” sul Web [4] (mi scuso se ho dimenticato qualcuno), mentre sono da precipitare nell’Inferno dei mendaci ben 9 canali televisivi nazionali, più qualche centinaio di TV “libere” che godono soltanto più della libertà di tette e culo, l’unico passepartout che tutte le porte apre nell’italico stivale.
Non ci sarebbe dunque bisogno d’aggiungere altro, se il tempo che scorre – come perfido giardino zeppo d’erbe velenose – non generasse ogni giorno un vomitevole germoglio, da raccogliere con i guanti spessi, per non farsi impestare.
Il nuovo nato viene alla luce nella vicina Calabria, dove il “pentito” Francesco Foti – per motivi che rimangono ignoti – decide di raccontare la verità sugli affondamenti d’almeno una trentina di navi colme di rifiuti tossici – forse radioattivi – colpendo al basso ventre l’ambiente, la salute ed il turismo italiani [5].
Il povero cittadino italiano – ignaro del Mare Nostrum violato come una donna in un androne di periferia, poi avvelenato – si riparava, per quelle vicende, dietro i cadaveri di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, massacrati a Mogadiscio perché avevano scoperto un’autostrada costruita sui bidoni tossici sbarcati dall’Italia, portati là con i “pescherecci” della “cooperazione” italiana: come usare il sacchetto delle elemosine per coprirsi il capo e compiere una rapina. Si credeva al sicuro, il povero italiano, ed affondava la forchetta nel piatto.
Ma cosa c’entrano Francesco Mastrogiovanni – uno stimato maestro elementare – e Francesco Foti, un ex appartenente alle cosche, il quale affondava a colpi di dinamite navi cariche di veleni di fronte alle nostre coste? C’è qualcosa che li lega?
I due non sapevano l’uno dell’esistenza dell’altro, fuor di dubbio, però c’è qualcuno che ha provveduto in qualche modo a riunirli, minuscole pedine da usare, oppure insetti da schiacciare, all’occorrenza, con un distratto movimento del piede. Ma procediamo con ordine: un po’ di cronologia.
Perché muore Francesco Mastogiovanni?
Non ha nessun senso che il sindaco di Pollica/Acciaroli disponga per Mastrogiovanni il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) – per di più psichiatrico! – giustificandolo con una semplice guida contromano in area urbana! Non ci risulta che il Presidente della Regione Liguria – Claudio Burlando – sia stato colpito da
identico provvedimento e, si noti, Burlando guidava contromano in un raccordo autostradale! Finì con un buffetto e, se non ci fosse stata la solita rivolta del Web, non gli avrebbero nemmeno comminato la sospensione della patente. Cosa che, per Burlando, non significò nulla: auto blu a gogò.
Anche il presunto tamponamento di ben quattro autovetture – citato per emanare il provvedimento – è alquanto dubbio: l’auto di Mastrogiovanni non presentava nessun danno. Dopo quattro “tamponamenti” contromano? E poi, come si può “tamponare” – a voler spilluzzicare nella lingua italiana – “contromano”? Andava contromano in retromarcia? Mistero.
Eppure, tutto ciò consente al sindaco del comune Pollica/Acciaroli di spiccare un provvedimento per il TSO: probabilmente, il primo cittadino avrà letto la Legge 180/1978 prima di scrivere la condanna a morte per Mastrogiovanni. Resta un dubbio: sarà solo guercio o del tutto orbo?
Legge 180/1978
Art 1
“Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.”
Art 2
“(omissis)… la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.”
Gli omissis non celano nulla d’importante, e chiunque potrà prendere visione della legge tramite il collegamento in nota [6].
Insomma, secondo il sindaco di Pollica/Acciaroli, Francesco Mastrogiovanni era in condizioni di tale “disperazione psichiatrica” da dover essere urgentemente internato in una struttura ospedaliera.
Tralasciamo una serie di dubbi di natura giuridica – la extraterritorialità del provvedimento? la certificazione medica richiesta per simili atti, c’è stata? la conferma dell’urgente necessità di ricovero, che per legge deve essere prodotta dalla struttura ospitante, è stata consegnata? la “scomparsa” delle misure di contenzione dalla cartella clinica, accertate dall’autopsia (legacci ai polsi ed alle caviglie), ecc…poiché ci rammentano lontani deja vu, con Franco Serantini che agonizza per quattro giorni nel carcere di Pisa… – ma ci fermiamo qui, poiché c’è un’inchiesta in corso, ed un magistrato ci sta lavorando.
Noi, però, visto che desideriamo appoggiare il magistrato nella sua ricerca della verità, non molleremo, ed iniziamo col dire che Francesco Mastrogiovanni – nella sua “disperazione psichiatrica” – s’era recato tranquillamente al mare, presso un campeggio a Castelnuovo Cilento, dove aveva preso in affitto un piccolo appartamento.
Comportamento ben strano – dobbiamo riconoscerlo – per una persona giudicata, oramai, non più in grado di “intendere e volere”, come dovrebbe essere quella che riceve un tale, gravissimo provvedimento. No: fino all’arrivo dei Carabinieri, con tanto di “rastrellamento” a terra e motovedetta a mare, Francesco Mastrogiovanni fa i bagni e prende il sole.
Ma – difficile capire il motivo – un sindaco lo giudica così pericoloso per sé e per gli altri da inviare i Carabinieri in quel camping, per far eseguire un atto che è in sé terribile, e che la legge permette solo in casi d’evidentissima ed urgente gravità.
“Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi… [7]” verrebbe da dire, e giungono sotto forma di auto e motovedette dei Carabinieri.
Alla vista dei Carabinieri, Mastrogiovanni scappa ingenuamente in mare: là, dalla motovedetta, l’altoparlante avverte i bagnanti allibiti «Operazione di polizia, cattura di ricercato in corso.» Manco si trattasse di Al Capone. Perché scappa?
Poiché Mastrogiovanni è stato perseguitato dallo Stato più volte: nel 1999 per “resistenza a pubblico ufficiale”. Motivo? Aveva contestato una multa. Ovviamente, tutti quelli che contestano una multa – avrà forse anche alzato la voce, ma chi lo conosce afferma che era un tipo tranquillo, per niente violento – vengono arrestati per resistenza a pubblico ufficiale, condannati e schiaffati in galera. Condannato a tre anni senza la condizionale: sembra incredibile, ma le cose stanno proprio così.
Come nelle vicende epiche, un dio bonario assume le forme di un magistrato d’appello di Salerno e, in seconda istanza, Mastrogiovanni viene assolto con tanto di scuse: lo Stato viene addirittura condannato a rifondere un risarcimento per il periodo trascorso in carcere.
Ma perché – chiederete voi – così tanto accanimento?
Poiché Mastrogiovanni aveva già avuto a che fare con la giustizia, in un Paese nel quale – se capiti fra le grinfie della legge, e qui lo ricordo ai tanti che parteggiano tout court “per i giudici” – la cosa più sensata che puoi fare è scappare. Lo affermano noti penalisti:
«Soltanto chi e’ innocente deve avere paura della giustizia: vero o falso?» Rispondono due “principi” del foro. Domenico Pisapia: «E’ vero. Ma aggiungerei: non soltanto l’ innocente». Vincenzo Siniscalchi: «La frase più giusta è questa: un innocente deve avere paura della giustizia. [8]»
Se lo dicono loro…
La sera del 7 Luglio del 1972, Francesco Mastrogiovanni passeggia per Salerno in compagnia di Giovanni Marini ed altri anarchici. Vengono dapprima provocati e poi aggrediti da un gruppo di neofascisti, capeggiati da Carlo Falvella: nasce una breve colluttazione, nella quale Mastrogiovanni viene ferito ad una gamba con una coltellata. Il coltello, però, rimane infitto nell’arto: Giovanni Marini lo raccoglie ed uccide Falvella.
Al processo viene riconosciuta l’innocenza di Mastrogiovanni, mentre Marini è condannato a 12 anni (9 scontati) che gli segneranno la vita. Morirà nel 2001, dopo un calvario trascorso nei penitenziari italiani [9].
Perché Mastrogiovanni viene aggredito? In realtà, Mastrogiovanni è sfortunato – è solo Patroclo finito in mezzo alla bega fra Achille ed Agamennone, e ne seguirà il destino molti anni dopo – poiché l’obiettivo dei neofascisti non è lui, bensì Marini. Perché Favella e gli altri sono così determinati ad offendere, spaventare, forse deliberatamente uccidere Marini?
Poiché il gioco delle parti c’oscura il vero ruolo dei protagonisti: Giovanni Marini è un antesignano della controinformazione, mentre Favella (o chi per esso) non è un semplice “neofascista”, bensì qualcuno che probabilmente lavora per il “re di Prussia”, come capiremo dal seguito della vicenda.
A quel tempo, Giovanni Marini stava lavorando per ricostruire un evento fra i tanti di quegli anni bellissimi e terribili: la vicenda di cinque giovani partiti dalla Calabria con una Mini Morris e mai giunti a Roma, loro meta. Soprattutto, mai giunse a Roma il risultato delle indagini che avevano svolto sulla rivolta di Reggio Calabria, il cosiddetto “boia chi molla”.
Se fossimo superficiali, potremmo concludere che i cinque giovani – Gianni Aricò, Annalise Borth (moglie di Aricò), Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso – siano state vittime del clima di scontro fra diversi estremismi, come sarebbe successo più volte negli anni a seguire.
Chi conserva invece un minimo di memoria storica, ricorderà che il 1970 non fu ancora un “anno di piombo”: la mattanza fra estremisti di destra e di sinistra iniziò qualche anno più tardi: Lo Russo e Giorgiana Masi morirono nel 1977, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta nel
1978.
La questione è spinosa – sono il primo a riconoscerlo – però anche gli storici tendono a suddividere quel periodo in una prima fase (o dello “stragismo”) ed in una seconda che potremmo definire, semplificando molto, di scontri fra opposte fazioni (BR, NAR, ecc) [10].
Sta di fatto che, nel 1970, non s’era ancora instaurato quel clima di “caccia all’uomo” che poi degenerò negli anni seguenti: insomma, cazzotti sì, ma non erano ancora saltate fuori le pistole. E, soprattutto, quell’omicidio non ha i connotati dello scontro fra opposte fazioni: è roba di Stato.
Sarebbe lungo e non è questa la sede per approfondire il fenomeno della rivolta di Reggio Calabria di quegli anni: chi non la conosce e vorrà investigare, troverà il collegamento in nota [11].
Più interessante, invece, indagare sull’attività dei cinque anarchici – chiamati il “Circolo della Baracca”, dal luogo dove si riunivano, una sorta di centro sociale ante litteram – perché erano straordinariamente all’avanguardia nel loro lavoro d’informazione. Avevano acquistato una fotocamera sofisticata (probabilmente una reflex, rare e costose all’epoca) ma, soprattutto, avevano capito che il coacervo d’interessi che si nascondevano dietro il “boia chi molla” non si portava alla luce con le botte e gli scontri, bensì con un paziente collage fatto di dati, personaggi, situazioni, prove.
Cosa potevano aver scoperto?
Che spezzoni del neofascismo dell’epoca erano coinvolti nei fatti di Reggio? Acqua calda. Che la ‘ndrangheta ci marciasse? Acqua tiepida, tanto che la “rivolta” s’acquietò quando furono promessi soldi e investimenti (mai realizzati), ossia il centro siderurgico di Gioia Tauro e la SIR di Rovelli, una vicenda che giunge fino ad oggi [12].
E se avessero scoperto non dei mammasantissima e nemmeno degli uomini coi gagliardetti neri, ma che pezzi dello Stato – proprio dei dipendenti dello Stato – tramavano con le cosche? Se in quelle immagini fossero rimasti immortalati – a guidare cortei fra le barricate – “pezzi” dello Stato, uomini dei servizi?
Oggi è facile dirlo, ma siamo nel 2009, mille cose ci sono state raccontate da Saviano e da altri: e nel 1970? Che la mafia difendesse gli interessi agrari, oppure qualche traffico sporco…sì, ci stava…ma nessuno poteva – allora – immaginare lo stretto connubio che oggi è sotto i nostri occhi.
Se ci fu una ragione per far fuori deliberatamente – con l’intervento sul posto della squadra politica romana! – quei cinque ragazzi, non potevano essere bazzecole, perché non ci si scomoda così tanto per poco, e la mafia sa risparmiare anche le pallottole e l’esplosivo, quando occorre.
Qualcuno, però, forse meditava di tornare su quella vicenda, come Marini nel 1972, oppure (come Mastrogiovanni) era l’ultimo anello di una catena ancor vibrante: la mafia, in questi casi, vuole essere certa della sua intangibilità, e non lesina pallottole, esplosivo e Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Se una ragione c’è stata – e deve esserci stata – per assassinare in un modo così brutale ed istituzionale Mastrogiovanni, deve essere stata qualcosa d’importante: vendette personali, acrimonia politica ed altro non reggono quando s’uccide tramite le istituzioni. In caso contrario, potremmo solo affermare che il sindaco di Pollica/Acciaroli ed i medici dell’ospedale di Vallo di Lucania siano dei folli – loro sì, da internare con un TSO – e dovremmo concludere che le istituzioni sono presidiate da folli sanguinari.
Riflettiamo che il sindaco Pollica/Acciaroli, nell’ordinare quel TSO, si prende una bella gatta da pelare. I “sanitari” – ci schifa non virgolettare il termine – di Vallo di Lucania s’assumono una bella responsabilità quando lasciano morire Mastrogiovanni lentamente, per quattro lunghissimi giorni, imprigionato nel letto di contenzione, fin quando non esala l’ultimo respiro.
E’ una morte istituzionale, avvenuta in una struttura pubblica: lo stato italiano, che non è attrezzato per iniezioni letali, si prodiga in questo modo. Il nostro “miglio verde” è ben nascosto, ma esiste: quanti l’hanno già percorso?
C’è quasi una ritualità nella morte di Mastrogiovanni, al punto che lui già sembra capirlo quando lo arrestano, quella mattina di fine Luglio 2009 nel campeggio: «Se mi portano a Vallo di Lucania» confida ad un’amica, prima di salire in ambulanza «non ne esco vivo.» Perché Mastrogiovanni ha quella convinzione? Solo perché è depresso (tutto da dimostrare)?
Mastrogiovanni è l’ultima pietra miliare di un strada che parte da lontano: anche la morte dei cinque anarchici calabresi doveva essere terribilmente importante (come per il tentato omicidio di Marini), da eseguire subito, al punto che – per quello che fu definito un semplice incidente stradale – dieci minuti dopo erano già presenti presso Ferentino, a 60 Km da Roma, uomini della squadra politica della Questura di Roma.
I quali, non sono stupiti che i due camionisti coinvolti nell’incidente siano alle dipendenze del “principe” Junio Valerio Borghese – altra “anima nera” di Reggio Calabria – e che l’auto dei giovani, che ufficialmente ha “tamponato” il camion, non sia rimasta incastrata sotto il rimorchio il quale – miracolo italiano – ha i fanali posteriori intatti, mentre presenta danni alla fiancata.
La vicenda viene immediatamente chiusa – ovvio, un semplice incidente – ma la documentazione che i giovani dovevano urgentemente consegnare all’avv. Eduardo Di Giovanni – coautore de “La strage di Stato” [13] – non verrà più ritrovata. Documenti che ci avrebbe fatto fare, probabilmente, un passo enorme, considerando gli anni che ci abbiamo messo dopo per iniziare a capirci qualcosa.
Di più: qualcuno telefona dalla squadra politica di Roma (un amico? un parente?), la sera precedente e chiama a casa di Lo Celso, avvertendo il padre di “non far partire, il giorno seguente, il figlio per Roma” [14].
Se i sospetti fossero solo quelli riguardanti l’attentato al treno Palermo-Torino del 22 Luglio 1970 (6 morti e 66 feriti), probabilmente lo Stato non avrebbe colpito così duro: Marini condannato ad una pena esemplare, nonostante fosse stata legittima difesa, i cinque ragazzi ammazzati mediante un falso incidente, Mastrogiovanni condotto a morire a Vallo di Lucania. Probabilmente, c’è dell’altro.
Torniamo indietro di pochi mesi: la sera del 12 Dicembre del 1969, scoppiano le bombe a Piazza Fontana.
Per l’Italia è una mazzata senza precedenti, una sorta di “9/11” ante litteram: ancora ricordo lo sgomento diffuso, i punti interrogativi che veleggiavano sui visi della gente.
La storia è nota e non è il caso di riproporla: chi vorrà, potrà prenderne visione dal documento riportato in nota [15].
Ciò che risulta interessante è che, dopo la scarcerazione di Valpreda e la scoperta della cosiddetta “pista nera” (per inciso, i cinque anarchici calabresi s’occuparono anche della vicenda Valpreda), entra in scena un personaggio che c’entra poco con la “cellula” veneta di Freda e Ventura: Guido Giannettini.
Personaggio apparentemente di secondo piano, Giannettini è una sorta di “Travèt” dei servizi, un “tuttofare”, come vedremo in seguito. E, appena la “pista nera” prende forma, il processo viene spostato a Catanzaro.
Finché l’imputato è Valpreda, il processo può rimanere a Milano: quando entrano in scena Freda e Ventura (e, soprattutto, Giannettini), deve “migrare” (come il parallelo processo per le bomb
e di Roma). Potevano trasferirlo a Teramo, Aosta o Brindisi e invece no: il processo (che, per inciso, terminerà in una palude senza fine né costrutto) viene condotto proprio a Catanzaro, Calabria, dove s’è appena spenta l’eco dei roghi di Reggio!
La vicenda di Piazza Fontana continua a lasciare vittime nel “Miglio Verde” italiano: l’ultima ad occuparsene, pochi anni or sono, è il GIP di Milano Clementina Forleo, la quale rinvia a giudizio Delfo Zorzi (protetto e “blindato” in Giappone) ed ottiene la sua condanna all’ergastolo, poi vanificata dall’assoluzione in Appello.
Ma, il 28 agosto 2005, i genitori di Clementina Forleo muoiono in uno strano incidente automobilistico, che la Forleo stessa è obbligata a riconoscere – obtorto collo? – come “fortuito”, quando aveva, invece, ricevuto precise minacce ed avvertimenti, come potrete leggere nelle note [16]. Altri due innocenti finiti nel “Miglio “Verde”?
Il 3 Maggio dello stesso anno, la Corte di Cassazione aveva definitivamente confermato l’assoluzione per Zorzi e per gli altri imputati. Solo l’affair delle scalate bancarie? Può essere, ma non tralasciamo il resto.
Non vorremmo scatenare antiche rivalità fra “rossi” e “neri”, poiché siamo stati tutti presi sonoramente per il sedere, di là delle nostre idee politiche. La vicenda dello stragismo che parte da Piazza Fontana è soltanto un gioco delle parti, nelle quali i primattori sembrano avere sempre valenza politica, mentre i gran suggeritori sono sempre legati ai servizi: il ruolo è ricoperto da Mario Merlino per la pista anarchica e da Guido Giannettini per la pista nera. Ed è di Giannettini (e di qualche altro) che ci sembra opportuno occuparci.
Dietro ad ogni scemo c’è un villaggio
Prendiamo a prestito a sproposito il sottotitolo della canzone di De André – Il Matto – presentandolo quasi come un ossimoro, giacché in ogni “villaggio” italiano della recente storia – gli omicidi eccellenti, gli attentati, fino al recente sfregio delle navi affondate – c’è sempre uno “scemo”, che scemo non è. Anzi, tutt’altro.
Dietro a tutta la vicenda di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, s’agita un personaggio che definire “inquietante” è fare uno sberleffo ad Edgar Allan Poe: Giancarlo Marocchino.
Elemento che sembra uscire più da un romanzo di spionaggio che dalla realtà, Giancarlo Marocchino trascorre gran parte della sua vita in Somalia. Cosa fa? L’imprenditore. Quali sono le “imprese” che si possono intraprendere dapprima nella Somalia di Siad Barre, poi nel terrificante tourbillon della guerra civile?
Ufficialmente, Marocchino gestisce qualcosa nel porto di Mogadiscio, ma è veramente difficile stabilire cosa. Per sua ammissione, dovrebbe essere una sorta di spedizioniere, un factotum del porto: carico, scarico, tutto sembra pendere dalle labbra di Marocchino.
Giancarlo Marocchino diventa famoso dopo l’omicidio dei due giornalisti italiani: per qualcuno è un angelo, per altri un demonio.
Ascoltiamo cosa racconta, alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, Antonietta Motta Donadio, dirigente della DIGOS di Udine, citando confidenze raccolte da un testimone attendibile, “coperto” dalla stessa Donadio grazie all’art. 203 del Codice di Procedura Penale, per salvaguardarne l’incolumità:
“riuscimmo a definire esattamente il quadro dell’omicidio, individuando addirittura gli esecutori materiali, con nomi e cognomi, accertammo che si trattava di un gruppo di fuoco di sette persone che erano state portate sul luogo dell’eccidio da Giancarlo Marocchino, che nell’abitazione di Ali Madi e Moussa Bogor, che era sultano di Bosaso, il capo della polizia somala, tale Gilao e Marocchino, erano state individuate queste sette persone ed erano state portate sul luogo dell’eccidio dallo stesso Marocchino, che poi si allontanò; ritornò dopo che la giornalista e l’operatore erano stati uccisi ed aveva strappato dal block notes di Ilaria Alpi tre foglietti scritti che erano stati poi consegnati a Mugne e successivamente ad Ali Madi. [17]”
Giancarlo Marocchino sembra sapere tutto, riporta addirittura in Italia l’autovettura dove trovarono la morte i due giornalisti, e si dichiara sempre innocente. Durante l’ennesima convocazione in Commissione Parlamentare (Presidente Carlo Taormina), Marocchino si lascia scappare che “Avvertì il Sis…” del pericolo di un attentato contro giornalisti italiani, poi gli ufficiali italiani a Mogadiscio. Gli unici che non furono avvertiti furono le due vittime.
Antonietta Motta Donadio, dopo quelle rivelazioni, fu accusata di aver gestito “male” la sua fonte e fu trasferita dal suo incarico.
Sempre e solo “faccende”
Mi sono sempre chiesto perché in Italia non esista un apposito corso di laurea in “Faccendierato”, con relativo Master in “Faccende internazionali dubbie, sporche e da occultare”. Eh sì, perché da decenni sembra che, fare il “faccendiere”, sia la professione più remunerativa. Schiere di personaggi esercitano questa professione con successo: perché non conferire loro ufficialmente il titolo che ben meritano?
Uno di questi faccendieri, affaccendato in faccende che trasudano rifiuti e robaccia nucleare, è Giorgio Comerio. Anch’egli con una biografia pressoché anonima, fonda e gestisce “società” che hanno come obiettivo “smaltire” residui tossici: il nostro, vuole specializzarsi nel nucleare.
Pensa così, per risolvere il problema, di sistemare i rifiuti radioattivi in capaci “siluri” [18] che penetrano nel fondale marino e sono garantiti per 1.500 anni. Ossia, per 1.500 anni non rilasceranno sostanze radioattive: e dopo 1.500 anni? Cavolacci loro.
Ovviamente, sul fatto che viene indagato per queste faccende, Comerio minimizza e nicchia: ecco come si esprime in un’intervista a Panorama Economy nel 2004 [19]:
D) Il suo nome uscì per la prima volta nel 1995, quando Greenpeace denunciò che la sua società, la ODM, voleva seppellire scorie nucleari in Sud Africa violando le convenzioni internazionali.
Comerio: La questione ODM è sempre stata una bufala pompata da Greenpeace alla ricerca di pubblicità e di argomenti contro il nucleare. Bisognava fare notizia. Il primo articolo apparve sul settimanale Cuore, «infartatosi» qualche anno dopo, e fu ripreso dalla stampa nazionale.
Siccome seguiamo il vecchio adagio che recita “le parole sono pietre”, ci ha subito incuriosito quel termine – infartatosi – poiché ci conduce dritti dritti ad un’altra vicenda, quella della Jolly Rosso, arenatasi sulle coste calabre il 14 Dicembre del 1990.
Nella plancia della Jolly Rosso furono ritrovati documenti che conducevano proprio a Comerio, ma fu prontamente chiamata un’impresa “di pulizie” olandese che provvide a…a che cosa? Nessuno sa cosa fecero gli olandesi, e la nave rimase a poche centinaia di metri dalla costa ancora parecchio.
Chi invece si “infartò” veramente – e questo getta una luce sinistra sul termine usato da Comerio nell’intervista (perché proprio quello? Attenzione: questa è gente che non parla a vanvera e concede interviste solo per avvisare “per interposta persona”) – fu il Capitano di Fregata Natale De Grazia, l’uomo che seguiva come un segugio le tracce di 180 navi “scomparse” nei Sette Mari.
Purtroppo…quando si dice la sfiga…Natale De Grazia partì un bel mattino da Reggio Calabria per recarsi a La Spezia – dove ha sede l’Archivio Storico della Marina (e per interrogare l’equipaggio della Jolly Rosso) – e chiarire una volta per tutte la storia di quel naviglio…a Nocera Inferiore bevve un caff
é, mangiò un dolce è morì d’infarto!
Tutti possono morire d’infarto, ma non tutti – dopo un infarto – ricevono la Medaglia d’Oro al merito dal Presidente della Repubblica (Ciampi), soprattutto se la motivazione è a dir poco “sinistra”:
Il Capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della Procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina Militare Italiana. [20]”
Certo…il senso del dovere, la professionalità…però non è che le medaglie d’oro si concedano tutti i giorni, soprattutto per simili motivazioni. Ecco, di fronte allo strapotere delle mafie, l’unica cosa che può fare un Presidente della Repubblica, Capo Supremo delle Forze Armate (sic!): virgolettare “Arresto cardio-circolatorio”. Capito?
Un signorino per bene, innamorato dei colonnelli greci e dei carri armati
Stupisce che su Guido Giannettini, personaggio di spicco nella strategia della tensione, non esista una pagina in italiano su Wikipedia. Che strano, esiste persino su Flavio Briatore. Sarà per la scarsa propensione anglofona degli italiani.
Esiste però nell’edizione inglese [21], ed in quelle poche righe c’è un condensato di storia: tutta la storia, nascosta, degli intrighi internazionali del Secondo Novecento.
Eppure, nella vulgata imperante, Giannettini è considerato un povero Travèt dei servizi, uno che avvisava se qualcuno meditava di fare scritte sui muri o, al massimo, far scoppiare un petardo da qualche parte.
Tutti i maggiori responsabili della strategia della tensione, ma anche le storie d’imprenditoria “vigliacca”, hanno invece a che fare con lui: chi lo conobbe? Chi se ne servì? Chi lo aiuto? Presto detto.
Andreotti, Pecorelli, Ciarrapico, Aloia, Miceli [22]…la lista potrebbe continuare a lungo.
E’ così “insignificante”, il Giannettini, che quando l’Esercito Italiano deve provvedere alla sostituzione dei suoi mezzi corazzati, nel 1966, nella delegazione che va in Germania a visionare i carri armati Leopard1 c’è anche lui, il “Travèt” dei servizi. Un affare colossale per l’epoca. Eppure, tutti fanno finta di non ricordarlo: Giannettini, dopo la vicenda di Piazza Fontana, sparisce? Dopo la fuga in Francia ed in Argentina, va in pensione a coltivare prezzemolo?
Tutto ruota, e ritorna
Il pentito Valentino Foti, l’uomo che ha squarciato il velo d’omertà sulle navi cariche di rifiuti ed affondate nei mari italiani, ha anche chiarito quali erano i metodi utilizzati. Pressappochismo? Dilettantismo? Forse, nella gestione degli affondamenti.
Per quanto riguarda la gestione del traffico, invece, sembra un orologio svizzero: tutto concordato, pianificato con incontri fra lui ed esponenti dei servizi segreti, rapporti che Foti aveva coltivato sin dagli anni ’70, quando in Calabria imperava il “boia chi molla” e lui era già più che ventenne. Che caso.
Chi sono i suoi referenti? Ascoltiamolo [23]:
“Funzionava così: l’agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all’hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: “Sono Ciccio e devo parlare con Pino? Poi venivo chiamato al numero dell’albergo, e avveniva l’incontro.”
Chi è l’agente “Pino”, questa persona senza volto che gli comunica quando sarà pronta la nave, che prende accordi per il pagamento…insomma, la lucida mente – a questo punto possiamo affermare “dello Stato” – che è in comunicazione con le cosche calabresi? Lo confessa, candidamente, lo stesso Foti:
“Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all’indietro, presentatomi nella capitale da Guido Giannettini…”
Non possiamo, per concludere, che ricordare le parole – anzi, i versi – di Pino Corrias [24]: