IL MERCATO E’ MORTO ! VIVA IL MERCATO !

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DI CARLO BERTANI

Più
questa crisi avanza, e più m’accorgo ch’era assolutamente certo che
avvenisse. Lo sapevo da tanto: anzi, era una domanda che avevo iniziato
a pormi quand’ero adolescente.
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo
utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”,
etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è
quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la
“congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di
boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur,
e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del
capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera
essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che
si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.

Il
passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella
grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli
anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore
determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema
meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente,
per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo
bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.

Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe
di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura
consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?

La
tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per
ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset” – questo
lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli
altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei
Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed
esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi
creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto,
così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché
Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per
fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti
stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima
stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse”
stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in
cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi
opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile
accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma
il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede
procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.

Ecco,
il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali
siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis
(gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché
significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede
la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello
che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per
l’Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si
leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la
disoccupazione[1]:

(la
crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per
prevenire e combattere la disoccupazione) senza
intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che
favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi
di prepensionamento o limiti d’età per le opportunità di formazione,
in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del
lavoro…affrontare l’adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine
dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…

Siamo
nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione
di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare,
accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo
sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento
armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero
essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare,
tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così
scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti,
coraggiose…

L’unico
aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel
“drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne
dica – la tessera P2 n. 1816  è
il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci
fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché
è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base
necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma,
sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò
che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in
ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che
non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione
e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che
basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione
(per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato).
Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese)
qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per
mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre
quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno
peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero
dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque
scelta. Quali scelte?

Spicchiamo,
prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto
“congiuntura”.

Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima
“congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che
distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere
quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non
erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando
un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana.
Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior
parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle
erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro.
Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione,
concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora!
– passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli
agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo,
s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.

Senza
scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per
capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi,
energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei
trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è
mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che
schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò
nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting
era stato dato.

Ma
gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché
– volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle
assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per
correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”,
beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana,
quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al
1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e
fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia
è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’
flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si
parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi
di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato
l’Isola dei Penosi.

Un
allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali
– e domanda «Professore,
lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera
nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala
s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente
disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»

Il professore quasi ringrazia per la
domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una
mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che
sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può
compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non
troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi.
Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica
strada percorribile.»

Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più
infermieri negli ospedali…ma…chi paga?

Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.

Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i
disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico
per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi
pagherà?»

Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli
altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa
di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti
statali.»

Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo
fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona
la campanella.

In ogni modo, il professore ebbe ragione:
l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò
“l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono
inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da
piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora,
per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i
Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può
essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle
amministrazioni periferiche.

Eppure,
riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte”
sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo.
Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.

Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie
un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O
l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si
manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve
lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo
ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma
cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili
soluzioni.

La
prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si
auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un
mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune
situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio)
s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente
diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili
era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta
economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi,
cercando – in questa difficile mediazione – di trovare
l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.

Un
altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei
soggetti economici – chi produce beni e servizi – che
l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto
ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior
peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.

Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto
d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i
due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del
capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso
il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo
soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal
nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi –
poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan,
con la politica antipopolare della
Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle
Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso
forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera
d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che
Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione:
l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.

Cercare
aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a
Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è
l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o
per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di
produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le
fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la
manodopera era coloniale.

Si
può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate
all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma
bisogna allora affrontare quella scelta – krisis

– che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare,
cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure
esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive,
che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato
nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la
faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”)
ed osservare quali effetti produsse.

Per
quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a
ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e
che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per
affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale.
Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità?
L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si
ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via
dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di
monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità –
la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi,
allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità
di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche
se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.

Chi
scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è
stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di
laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi
ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità
più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale
spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per
dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche
esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che
s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era
un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva
dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel
lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?

L’India
dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande
pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le
comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche:
l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di
stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella
cultura ebraica.

Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la
grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà
del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma
c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata,
lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal
li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica
d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a
tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli
Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi,
che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in
grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura,
soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la
falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo
equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da
considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione –
forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo
stati allevati in una cultura tribale!

Il
ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso –
economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo
gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti
esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e
quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.

Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che
seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti,
mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità
– non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le
cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel
lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la
producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in
grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi
s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a
seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a
comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali
siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare
il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare
un cavallo?

Ciò
nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago
fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami
comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una
targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i
ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri
che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie
fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti
popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate
dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma
decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati:
tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia
composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi
ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la
globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui,
“coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).

Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia
quello che l’esperienza ci può insegnare.

I
regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno
fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo
tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di
guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza
rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe
imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra –
dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi,
rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita
da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di
giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo
Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al
Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto
tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”,
furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni
iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del
Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto
al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa
questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente
coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal
capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme
d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo
dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono
valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera
Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in
Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un
principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé
accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla
fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”.
Morte sotto la neve.

Sull’altra
sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per
mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così
com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo
non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del
1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva,
però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai
risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu
“socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo
frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da
parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa
di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere”
o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza
acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà
produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione.
Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni
di spazio.

La
vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle
“liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un
pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento
del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica
dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di
manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare
il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente
poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande
corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che
dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i
livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero,
era usato.

Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale,
del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere
l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse
sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche
– per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare,
poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della
filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti
economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole
liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di
restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto.
Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non
funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la
responsabilità di produrre e distribuire beni?

Diversa
è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi
“dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile
alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato
il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il
controllo dell’economia in mani pubbliche:

“…anche se la proprietà dello Stato
rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale,
tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata –
dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è
necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori
economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo
dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di
gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema
imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti
dall’economia di mercato”[2].

Certamente,
quel “soddisfare i requisiti
richiesti dall’economia di mercato”
stride alquanto con la prima
parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in
un’impresa che sembra più un volo pindarico.
Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del
Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove
potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in
poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti
gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica –
di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale:
possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.

Detto
questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in
senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su
obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato
sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o
passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve,
invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita
dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo,
con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche
guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la
riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere,
su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è
possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato
nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio
dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa.
Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma
nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che
le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere
delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi
farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per
far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste
indicazioni ne catalizzino altre.

Se
consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più
durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è
addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei
beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche
l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché,
un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da
garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si
può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che
non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da
tempo.

Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione
una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni
d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno.
Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il
mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se
l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi
se vuole pagare di più per niente.

La
benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano.
Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax.
Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce –
giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti
telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo,
dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente.
Scaroni: cuntent?

Nel
mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una
strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad
usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo
passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…
Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro
nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard
sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo.
Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le
intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei
tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo:
si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a
“dare il bianco”.

Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo
pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito
al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di
manutenzione, è chiedere troppo?

Se
non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un
sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro,
se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate.
Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi
è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser):
“non leggete più i giornali”?

Ramsetoni
– è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – 
vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare
l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe
urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa
dura, eh?

Dove
si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel
2003, a
cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?

In
Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10%
della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica,
una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si
dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e
Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più
iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica
differenza di reddito fra le classi sociali.

Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi
guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne
dovesse pagare
1000 in
più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare
i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11
miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età
della pensione per far cassa!

Purtroppo
per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e
non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in
tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog,
facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.
Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo
le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia
inizia con la pancia piena».

Carlo
Bertani www.carlobertani.it 

http://carlobertani.blogspot.com/

11.03.2009

[1]
Fonte: Repubblica, 9 Marzo 2009, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/economia/crisi-19/ue-disoccupati/ue-disoccupati.html

[2]
Decisioni su alcune
questioni relative all’instaurazione di un sistema economico di
mercato socialista
”, Plenum del Comitato Centrale del Partito
Comunista cinese, 14 novembre del 1993. Fonte: Michele Fabbri: “Economia
socialista di mercato o capitalismo tout court?”
 

http://www.marxismo.net/fm188/14_cina.html

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