IL LATO OSCURO DI DUBAI

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DI JOHANN HARI
independent.co.uk/

La grande faccia sorridente dello sceicco Mohammed, il padrone incontrastato di Dubai, splende sulla sua creazione. La sua immagine è in bella mostra sulla facciata di un edificio su due, alternata a quelle più familiari di Ronald Mac Donald e del Colonnello Sanders (di Kentucky Fried Chicken,ndt).

Quest’uomo ha venduto Dubai al mondo come la città dalle mille e una luce, una Shangri-la del medio oriente, isolata dalle tempeste di sabbia che imperversano sulla regione. Egli domina dall’alto la skyline in stile Manhattan, spuntando da file su file di piramidi di vetro e hotel che ricordano torri fatte con monete d’oro. Lo ritroviamo lì, sull’edificio più alto del mondo, uno spunzone lanciato verso il cielo più di ogni altra costruzione dell’uomo nella storia.
Ma il sorriso dello sceicco Mohammed ha perso un po’ di smalto ultimamente. Le onnipresenti gru si sono prese una pausa nel panorama, come ferme nel tempo. Ci sono innumerevoli edifici fermi a metà, all’apparenza abbandonati.
Nelle costruzioni più scintillanti, come l’enorme hotel Atlantis, un gigantesco castello rosa, edificato in 1000 giorni ad un costo di più di un miliardo di euro su un isola artificiale costruita ad hoc, l’acqua piovana filtra dal soffitto e le tegole si staccano dal tetto.
Questa terra da favola e’ stata costruita su un sogno e adesso cominciano a vedersi le crepe.
Improvvisamente sembra assomigliare un po’ meno ad una Manhattan al sole e un po’ più ad una Islanda nel deserto. Ora che la folle esplosione dei cantieri si è fermata ed il vento sta girando, i segreti di Dubai stanno lentamente emergendo. Questa è una città costruita da zero nell’arco di pochi decenni selvaggi di macro-credito e di uccisione dell’ecosistema, di soprusi e di schiavitù. Dubai è una metafora vivente di vetro e metallo del neo-liberismo globalizzato che può finire la sua folle corsa schiantandosi contro la storia.

Erba rotolante

30 anni fa quasi tutta la Dubai che oggi conosciamo, era deserto, abitato solo da cactus, erba rotolante e scorpioni; ma nel centro città ci sono ancora delle tracce della cittadina che c’era una volta, nascosta dal vetro e dal metallo. Nel polveroso fortino del Dubai Museum viene raccontata una versione edulcorata della sua storia: verso la metà del diciottesimo secolo fu costruito qui, nel basso golfo persico, un piccolo villaggio i cui pochi abitanti pescavano perle non lontano dalla costa. Qui si formò in breve tempo una popolazione cosmopolita, arrivata dalla Persia, dal subcontinente indiano e da altri paesi arabi, attratta dal sogno di fare fortuna. Diedero al villaggio il nome di una vorace cavalletta locale, la Daba.
Il villaggio fu presto preda delle navi da guerra dell’impero britannico che lo mantenne con la forza fino al 1971. Quando gli inglesi se ne andarono, Dubai decise di allearsi con i 6 statarelli confinanti per formare gli Emirati Arabi Uniti.
Le navi inglesi salparono per sempre proprio quando i giacimenti di petrolio stavano per essere scoperti e gli sceicchi che improvvisamente si ritrovarono al potere dovettero subito affrontare un enorme dilemma: erano per lo più nomadi analfabeti che avevano vissuto finora portando carovane di cammelli attraverso il deserto e adesso galleggiavano su oro puro; cosa ci avrebbero fatto?
Dubai aveva solo un rivoletto di petrolio in confronto alla vicina Abu Dhabi, perciò lo sceicco Maktoum decise di usarne i proventi per creare qualcosa di durevole. Avrebbe costruito una città che sarebbe stata il cuore mondiale del turismo e dei servizi finanziari, succhiando contanti e talenti da tutta la terra. Attirò il mondo con la promessa del Tax-free e risposero in milioni, sommergendo la popolazione locale che adesso forma solamente il 5% degli abitanti di Dubai, una città che sembra essere piovuta dal cielo, fatta e finita in soli 3 decenni. C’e’ stato uno scatto in avanti dal diciottesimo al ventunesimo secolo nell’arco di una generazione.
Se prendete il “Big Bus Tour of Dubai”, vi viene somministrata la versione ufficiale di come tutto questo sia successo: “Il motto di Dubai e’ ‘porte aperte, menti aperte’” vi dice la guida in toni studiati prima di depositarvi al suk a comprare copri-teiere di pelo di cammello. “Qui siete liberi”. “Di acquistare artigianato”, aggiunge.
Passando accanto ad ogni edificio monumentale, vi dice “Il world Trade Center è stato costruito da Sua Altezza..”.
Ma è una bugia.
Non l’ha costruita lo sceicco questa città. L’hanno costruita gli schiavi.
La stanno costruendo proprio ora.

Nascosti in bella vista

Esistono 3 diverse Dubai, sebbene ben intrecciate fra loro.
Ci sono gli Expats, gli occidentali ben remunerati.
Ci sono gli emirati, come lo sceicco Mohammed;
e poi c’e’ la sottoclasse straniera, quella che ha costruito la città e che è intrappolata qui.
Sono nascosti in bella vista.
Li vedi ovunque, nelle loro impolverate uniformi blu, mentre vengono aggrediti con urla dai loro superiori, ma si è allenati a non guardare.
Senti sempre lo stesso Mantra: “Lo sceicco ha costruito la città, lo sceicco ha costruito la città”.
“Operai? Che operai?”
Ogni sera le centinaia di migliaia di giovani che hanno davvero tirato su Dubai vengono stipati negli autobus e portati dai loro cantieri fino ad una vasta distesa di cemento a circa un’ora dalla città, dove vengono tenuti in disparte. Fino a pochi anni fa venivano trasportati su carri bestiame ma poi gli Expats si lamentarono dicendo che non era un bello spettacolo, così ora vengono smistati su piccoli autobus di metallo che fungono da serre nel caldo del deserto: lì dentro sudano come spugne mentre vengono lentamente sbatacchiati.
Sonapur è un mosaico di miglia e miglia di identiche costruzioni di cemento divise da strade piene di calcinacci. Intorno a 300.000 uomini vivono uno sull’altro in questo posto che in Hindi significa “Città d’oro”.
Nel primo campo in cui mi fermo, sconvolto dall’odore di fogna e di sudore, gli uomini si accalcano, impazienti di raccontare a qualcuno quello che stanno passando.
Sahinal Monir, un ventiquattrenne magro originario della regione dei delta del Bangladesh mi dice:”Per portarti qui ti dicono che Dubai è il paradiso. Poi ci arrivi e ti rendi conto che è l’inferno”.
4 anni fa un “reclutatore” arrivò nel villaggio di Sahinal nel sud del Bangladesh. Raccontò agli uomini del villaggio di un posto dove si guadagnava 40.000 takka al mese (€ 450) per lavorare dalle 9 alle 17 in cantieri edili. Un posto dove si veniva trattati bene, alloggio confortevole e cibo abbondante. Dovevano solo comprarsi un visto di lavoro del costo di 220.000takka (€2500) che avrebbero potuto ripagare facilmente in 6 mesi. Così Sahinal vendette la terra della sua famiglia e prese altri soldi in prestito per raggiungere questo paradiso.
Appena arrivato, il suo passaporto fu preso in consegna dalla sua ditta. Non l’ha più rivisto da allora. Gli dissero con maniere brusche che da quel momento in poi avrebbe lavorato 14 ore al giorno nel caldo del deserto – dove ai turisti occidentali è consigliato di non stare all’aperto neanche 5 minuti in estate quando le temperature raggiungono i 55° – per uno stipendio di 500 dirham al mese (€ 105), meno di ¼ della paga promessa.

“Se non ti piace vattene a casa”. “Ma come faccio, il mio passaporto ce l’avete voi e non ho i soldi per il biglietto”. “Beh, allora ti conviene lavorare” gli risposero. Sahinal fu preso dal panico. La sua famiglia, moglie, un figlio ed una figlia, i suoi genitori, erano tutti in attesa delle sue rimesse, orgogliosi del fatto che il loro ragazzo ce l’avesse fatta. Ma lui avrebbe dovuto lavorare per più di 2 anni solo per pagare il costo di essere arrivato qui; e il tutto per guadagnare meno di quello che prendeva in Bangladesh.

Mi mostra la sua camera: una minuscola cella di cemento con letti a castello a tre piani che divide con 11 compagni. Tutte le sue proprietà sono ammassate sulla sua cuccetta: 3 magliette, un paio di pantaloni di ricambio e un cellulare. La stanza puzza perché i bagni nell’angolo del campo, meri buchi nella terra, traboccano di escrementi e di nuvole di mosche. Non c’è aria condizionata e nemmeno ventilatori, per cui il caldo è insopportabile. “Non si riesce a dormire, tutto ciò che fai è sudare e grattarti tutta la notte”. Nel picco del caldo estivo la gente dorme per terra, sul tetto, dovunque possa sperare di trovare un minimo di brezza.

L’acqua che portano nel campo in grandi contenitori bianchi non è totalmente desalinizzata; sa di sale. “Ci fa star male, ma non c’è niente altro da bere” mi dice.

“Il lavoro fa schifo” dice. “Devi portare mattoni e blocchi di cemento da 50kg sotto il sole cocente. Questo calore, non puoi capire. Sudi così tanto che non riesci a pisciare per giorni o settimane addirittura. E’ come se tutto il liquido ti uscisse dalla pelle e ti fa puzzare. Ti gira la testa ma non puoi fermarti mai, eccetto un’ora di pomeriggio. Sai che se ti cade qualcosa dalle mani o se scivoli, corri il rischio di morire, ma le ore che non lavori perché stai male ti vengono decurtate dallo stipendio e resti intrappolato qui più del dovuto.

Adesso sta lavorando al 67° piano di un nuovo scintillante grattacielo da dove costruisce verso l’alto, verso il cielo, verso il caldo. Non ne conosce il nome. Nei suoi 4 anni qui non ha mai visto la Dubai conosciuta dai turisti di tutto il mondo. Conosce solo quella che costruisce piano per piano.
E’ “arrabbiato”? Rimane in silenzio per un po’. “Qui nessuno tira fuori la rabbia, non si può. Ti arrestano e ti tengono dentro a lungo prima di deportarti. L’anno scorso dei lavoratori hanno scioperato perché non li pagavano da 4 mesi. La polizia di Dubai ha circondato il loro campo con filo spinato e cannoni ad acqua spedendoli a lavorare con la forza. I capi della rivolta sono stati sbattuti in galera”.

Provo con un’altra domanda: Sohinal si pente di esser venuto? Tutti gli uomini guardano in terra imbarazzati: “Come facciamo a pensarci? Siamo costretti a star qui. Se cominciamo a pensare ai rimpianti..” Lascia la frase a metà. Il silenzio viene rotto da un altro operaio:” Mi manca il mio paese, la mia famiglia, la mia terra. Puoi far crescere del cibo in Bangladesh. Qui non spunta niente. Solo petrolio e grattacieli.

Da quando è scoppiata la crisi, mi dicono, l’elettricità è stata tagliata in dozzine di campi e degli uomini non vengono pagati da mesi. Le loro compagnie si sono volatilizzate con i loro passaporti ed i loro stipendi. “Ci hanno tolto tutto. Anche se in qualche modo riuscissimo a tornare in Bangladesh, chi ci ha prestato i soldi ci chiederà di restituirli e se non possiamo ci sbatteranno in galera”.

Per legge tutto questo è illegale. I datori di lavoro devono rispettare le scadenze di pagamento, non possono confiscare i passaporti e devono concedere delle pause dal lavoro, ma non ho incontrato nessuno che mi abbia detto che questo davvero succede. Neanche uno.

Questi uomini sono portati qui con l’inganno e tenuti qui con la forza, con la complicità delle autorità locali.

Sahinal potrebbe facilmente morirci qui. Un inglese che lavorava su progetti edili mi ha detto:”C’è un enorme tasso di suicidi nei campi e nei cantieri ma non vengono riportati. Li fanno passare per incidenti sul lavoro. E anche in questi casi le famiglie non si liberano del debito. Semplicemente lo ereditano.
Uno studio di Human Rights Watch ha scoperto che è in atto una “copertura pianificata del reale numero” delle morti avvenute per colpi di calore, per sfinimento o per suicidio. Il consolato indiano ha registrato 971 morti fra i propri connazionali nel solo 2005. Quando queste cifre hanno cominciato a trasparire, ai consolati è stato imposto di smettere di contare.

Alla luce del crepuscolo mi intrattengo con Sohinal e i suoi amici che fanno la colletta per comprare una bottiglia di stracciabudella. La fanno fuori con sorsi feroci. “Ti aiuta a dimenticare” dice Sohinal con voce pungente.

Lontano, le luci della Dubai che ha contribuito ad edificare scintillano noncuranti.

Johann Hari
Fonte:www.independent.co.uk/
Link: http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/johann-hari/the-dark-side-of-dubai-1664368.html.
7.04.2009

Scelto e tradotto per www. comedonchisciotte da MAURO MORELLINI

La presente traduzione è un estratto dell’articolo originale

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