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di Antonio Di Siena
Il ritorno del grande liquidatore.
Il 4 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il DDL per il mercato e la concorrenza.
Un disegno di legge che riporta l’Italia indietro di trent’anni. A quel giorno del ‘92 in cui, a bordo del Britannia, proprio Mario Draghi (guarda caso) diede inizio all’ondata di privatizzazioni massicce delle aziende di Stato.
Una decisione che ha dell’incredibile. Sia perché il popolo italiano si è espresso più volte in favore della gestione pubblica dei servizi essenziali (da ultimo il referendum sull’acqua). Sia perché sono oramai ampiamente conclamati il fallimento dell’amministrazione privatistica e (o soprattutto) le capillari infiltrazioni mafiose negli appalti di gestione. Uno stato di cose che, almeno in teoria, dovrebbe apparire chiaro pure ai sassi: la concorrenza non funziona, anzi spesso peggiora di molto il quadro complessivo. Quantomeno nell’ambito dei monopoli naturali.
E invece niente. La furia cieca delle privatizzazioni ha ripreso nuovo vigore.
A dimostrazione del fatto che scelte politiche di questo tipo non rispondono ad alcuna necessità di carattere generale, ma esclusivamente a una visione ideologica e iper-liberista della società. Per di più in totale assenza di un preciso mandato elettorale in tal senso. Perché questa nuova (ma vecchissima) stagione di privatizzazioni selvagge – stavolta promossa e benedetta dall’agenda europea del PNRR in nome della “crescita” – altro non farà che accrescere ulteriormente i dividendi per gli azionisti a esclusivo detrimento dei cittadini. E sottraendo a questi ultimi i residuali spazi di gestione democratica della res publica. Prepariamoci quindi a nuovi e ulteriori aumenti di tariffe e costi di gestione e azzeramento degli investimenti, col conseguente peggioramento complessivo dei servizi, delle infrastrutture e della sicurezza. Ovviamente a discapito delle fasce più povere della popolazione. Esattamente come accaduto con autostrade e il crollo del ponte di Genova, con Alitalia o con la gestione dei rifiuti urbani, delle risorse idriche e del trasporto pubblico nelle città dove tali servizi sono stati dati in mano ai privati. Il tutto in nome dell’Europa, ovviamente. E dei soldi farlocchi che ci “regala”, nonostante siano soldi nostri ca va sans dire.
L’opposizione a Draghi, quindi, passa necessariamente dal rimarcare con forza una proposta politica totalmente antitetica a tutto ciò che egli rappresenta. Rafforzamento normativo della gestione pubblica dei servizi essenziali, disarticolazione del principio secondo cui gli stessi debbano operare secondo le leggi di mercato (quindi non in perdita) e non in funzione di un miglioramento della qualità dei servizi stessi, aumento dei finanziamenti statali e maggiore potere e controllo da parte degli enti locali. La via per rendere più efficienti e moderne le nostre città passa necessariamente da qui. E non continuando a regalare a loschi affaristi beni che appartengono alla collettività tutta. Anche perché far passare una roba del genere significa spalancare le porte al cavallo di Troia della privatizzazione della sanità.
Certo anche la gestione pubblica è foriera di innegabili storture (i carrozzoni e le assunzioni pre-elettorali ad esempio). Ma con ogni evidenza la stessa classe politica che usa certi mezzi di fatto illeciti (sarebbe voto di scambio) li sfrutta come alibi perfetto per giustificare le privatizzazioni in nome di malfunzionamenti che essa stessa ha causato per finanziare la sua auto replicazione parassitaria.
È urgentissimo quindi ampliare il terreno dello scontro, riportando al centro della proposta politica il ruolo essenziale dello Stato e la funzione progressista della spesa pubblica. Chiunque difenderà queste posizioni sarà un alleato, gli altri inevitabilmente nemici. Non avversari, ma reale e concreta minaccia alla Repubblica e ai suoi principi fondanti. O col mercato o col popolo. E magari sarà la volta buona che viene giù pure qualche maschera.
A buon intenditor…
Pubblicato il 08.11.2021