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La Redazione

 

Il grande evento

Quando le settimane sembrano decenni
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A cura di Markus
Il 26 Dicembre 2024
13771 Views
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Big Serge
bigserge.substack.com

C’è un’osservazione spesso citata di Vladimir Lenin, che, più o meno, recita così: “Ci sono decenni in cui non accade nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni”.

È uno di quegli aforismi usati fino alla nausea, ma ci sono rare occasioni in cui si adatta perfettamente al ritmo caotico degli eventi mondiali, e pochi casi vi si adattano meglio della caduta della Repubblica araba siriana e del suo traballante (ex) presidente, Bashir Al-Assad. Nel 2012 la Siria era precipitata per la prima volta nella guerra civile, provocata da un’escalation di insurrezioni e, dopo oltre un decennio di estenuanti combattimenti posizionali, tra cui un folle assedio di quattro anni alla città di Aleppo, i vari fronti del Paese si erano stabilizzati in un’inquieta quasi-stasi.

La resistenza del regime di Assad (con l’assistenza tempestiva e cruciale di Russia e Iran), che, a partire dal 2015, aveva permesso alle forze governative di riprendersi dall’orlo del baratro, era diventata una sorta di barzelletta, generando la famigerata “Maledizione di Assad“, in riferimento alla propensione di Assad a sopravvivere politicamente ai leader occidentali che chiedevano la sua rimozione. Dopo essere sopravvissuto a più di un decennio di guerra civile e aver riconquistato con successo l’importantissimo corridoio urbano della Siria, da Damasco ad Aleppo, pochi avevano previsto cosa sarebbe successo dopo.

In questo caso, il commento di Lenin sulle “settimane in cui accadono decenni” si è dimostrato vero praticamente alla lettera. Il 27 novembre, le forze insurrezionali guidate dal gruppo paramilitare Tahrir al-Sham avevano lanciato un’offensiva shock verso Aleppo, conquistando la città in pochi giorni. Le forze del regime si erano praticamente sciolte, mentre [gli insorti] percorrevano il corridoio urbano, conquistando Hama e poi Homs. L’8 dicembre, la Repubblica Araba Siriana aveva cessato di esistere e Assad era stato evacuato in Russia, tra le voci che il suo aereo fosse stato abbattuto. Dal 27 novembre all’8 dicembre: 12 giorni dalla stasi inquieta al crollo totale del governo e dell’esercito di Assad. In questo caso, sono bastate due settimane per raggiungere un risultato che era stato contestato in modo sanguinoso e controverso per più di un decennio.

Come breve inciso editoriale, avevo intenzione di produrre sia alcune riflessioni sull’importante collasso della Siria, sia un rapporto sulla situazione della guerra russo-ucraina, dove si sono verificati importanti sviluppi sia in prima linea sia nella sfera metastrategica. Avevo pensato di riunirli in un unico articolo, ma ho scelto di non farlo perché non voglio creare una struttura narrativa unificante. So che è popolare dipingere la Siria e l’Ucraina come fronti diversi di una coerente “terza guerra mondiale”, ma credo che questo sia piuttosto esagerato e induca inutilmente il panico. Gli eventi a Damasco e nel Donbass non sono collegati in modo così netto come si vorrebbe far credere – se c’è un collegamento, in quanto tale, è semplicemente che si tratta di zone di frontiera del potere russo. Tuttavia, l’Ucraina sarà sempre molto più importante per Mosca di quanto non lo è la Siria, e per i russi è la loro frontiera occidentale a costituire la preoccupazione strategica più pressante. Pertanto, questo articolo si concentrerà sull’implosione della Siria, mentre un aggiornamento sul fronte ucraino arriverà a breve in un’offerta separata.

La caduta di Assad: attesa da tempo, inaspettata

Visto che sono passate solo poche settimane dagli eventi in Siria, sono giustificate una certa riserva e una certa moderazione. Abbiamo un’idea generale dell’offensiva dei ribelli, che nelle prime 48 ore erano usciti da Idlib e si erano spinti fino ad Aleppo, prima di iniziare ad avanzare verso sud lungo il corridoio urbano della Siria, lungo l’autostrada M5, ma la situazione politica generale a Damasco è attualmente ancora in evoluzione ed estremamente oscura.

Ciò che merita di essere sottolineato, tuttavia, è la totalità e la rapidità del crollo dell’Esercito Arabo Siriano e del governo di Assad. C’era stata forse una finestra di 24 ore, intorno al 30 novembre, in cui sembrava che l’Esercito Arabo Siriano avrebbe combattuto – c’erano state notizie di riserve inviate ad Hama e di contrattacchi locali, e l’aviazione russa aveva iniziato a bombardare pesantemente la roccaforte di Tahrir al-Sham intorno a Idlib. La perdita quasi istantanea di Aleppo era chiaramente stata il nucleo di una possibile catastrofe militare, ma pochi avevano previsto che la resistenza del regime sarebbe semplicemente evaporata.

Le prestazioni dell’Esercito Arabo Siriano nel corso della guerra civile meritano tutta una serie di asterischi. È un dato di fatto che Assad avrebbe probabilmente perso il potere molti anni fa senza l’assistenza russa e iraniana, ma la premessa di base non era mai stata messa in discussione: il regime e l’esercito erano disposti a combattere – almeno fino ad ora. Le capacità difensive dell’Esercito Arabo Siriano, già praticamente evaporate il primo dicembre, non erano mai state ricostituite e questa, come si suol dire, era la situazione.

Quello a cui abbiamo assistito in Siria è stato, in fondo, l’emergere a livello statale di un marciume sistemico che era stato nascosto da un tenue cessate il fuoco nel nord, ed è chiaro che, durante questo cessate il fuoco, il governo di Assad non aveva voluto, e non aveva potuto, affrontare i problemi che avevano afflitto l’Esercito Arabo Siriano durante le prime fasi dei combattimenti. Possiamo elencare il problema di base come segue.

La crisi dell’Esercito Arabo Siriano era innanzitutto una crisi di entrate, dal momento che il Paese era ridotto a una mera sussistenza economica. La Siria è sempre stata, anche nei momenti migliori, un’entità economica tenue. La possiamo immaginare come un mosaico di quattro diverse regioni geospaziali: la roccaforte alawita nella catena montuosa costiera (con centri urbani come Tartus e Latakia), il corridoio delle antiche città-oasi (Aleppo, Hama, Homs e Damasco), la valle dell’Eufrate a est e l’entroterra turco lungo il confine settentrionale della Siria.

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Il problema, non solo per il regime di Assad ma per chiunque aspiri a governare la Siria, è che unire queste regioni geografiche è un compito politico-militare molto difficile ma essenziale per la coerenza economica e fiscale del Paese. In Siria le principali regioni di coltivazione del grano si trovano a est, soprattutto nel bacino dell’Eufrate. Il nord-est, in particolare, è la fonte principale dei cereali di base, come il grano, e di colture da esportazione, come il cotone. Queste regioni agricole erano state perse da Damasco da oltre un decennio, quando erano passate sotto il controllo pseudo-autonomo dei curdi.

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Inoltre, la perdita del nord-est a favore dei curdi (insieme a un’occupazione americana de-facto intorno ad Al-Tanf) aveva tagliato fuori il regime siriano dai suoi giacimenti di petrolio e gas più produttivi – anche se la Siria non è mai stata un grande esportatore di petrolio secondo gli standard globali, questo aveva prosciugato un altro flusso di entrate per il regime. Se si tiene conto dei danni fisici causati da un decennio di guerra e dal continuo strangolamento da parte delle sanzioni occidentali, il totale svuotamento economico del regime siriano era in gran parte predestinato.

Con un PIL siriano di appena 18 miliardi di dollari nel 2022 (un misero ~800 dollari pro capite), non sorprende che l’Esercito Arabo Siriano sia diventato una forza svuotata, corrotta e demotivata. Gli stipendi dei soldati erano disastrosi e gli ufficiali si erano abituati a integrare le loro entrate accettando tangenti e taglieggiando i viaggiatori ai posti di blocco. È la classica corruzione degli eserciti negli Stati in bancarotta e conduce l’esercito verso un’esistenza puramente “cartacea”, con un ordine di battaglia che sembra adeguato sulla carta ma che, in realtà, consiste in gran parte di unità virtuali o scheletriche guidate da ufficiali che sono più interessati a integrare i loro stipendi con le tangenti che a mantenere una minima efficacia di combattimento.

Così, in quasi tutti i resoconti dell’offensiva ribelle, dal punto di vista dell’Esercito Arabo Siriano emerge la stessa firma: i soldati di leva sottopagati e demotivati, non ricevendo alcuna direzione significativa dai loro superiori, avevano semplicemente deciso di togliersi l’uniforme e fuggire. Non si può certo biasimarli: si trattava in fin dei conti di un regime esausto, in cui a combattere erano rimasti in pochi e, nel caos centrifugo del crollo di un regime gli uomini tendono a pensare a se stessi e al proprio destino. Così, il comandante delle Guardie rivoluzionarie iraniane Hossein Salami aveva commentato: “Alcuni si aspettano che noi combattiamo al posto dell’esercito siriano. È logico… assumersi la piena responsabilità mentre l’esercito siriano si limita a osservare?”.

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La grande storia del regime di Assad sarà quella di un’eccessiva dipendenza da finanziatori stranieri e di una mancata volontà (o incapacità) ad affrontare il marciume burocratico e la corruzione sistemica del proprio esercito. Assad si era dimostrato fin troppo disposto a sollecitare le potenze straniere a combattere le sue battaglie al posto suo e, con un regime senza più entrate, aveva permesso che l’Esercito Arabo Siriano languisse come una forza combattente scheletrica e di terza classe nel suo stesso Paese, una forza che, alla fine, è crollata in un mucchio di ossa, come gli scheletri sono soliti fare.

Visto che ci sono ancora sostenitori di Assad, questi punteranno il dito in tutte le direzioni: dando la colpa dello strangolamento economico del regime alle sanzioni e alla perdita dell’est siriano, gridando al tradimento tra gli ufficiali dell’esercito per non aver combattuto, lamentando il fallimento dell’Iran e dell'”asse della resistenza” nel venire in aiuto di Assad. La realtà è che il regime siriano aveva chiaramente raggiunto il punto di esaurimento: incapace di pagare adeguatamente i suoi soldati, di sradicare la corruzione nell’esercito o di motivare gli uomini a combattere. Si trattava di un regime ormai in scacco con un esercito fittizio e non sorprende che l’Iran e la Russia abbiano deciso di lavarsene le mani prima che diventasse un insopportabile albatros geostrategico attorno al loro collo.

La Siria: a pezzi e malconcia

È molto popolare al giorno d’oggi accusare i propri avversari di essere un Paese “falso” o “illegittimo”. Lo si sente dire molto spesso in riferimento a Israele: l’idea è che Israele non sia un vero Paese, ma un’occupazione illegittima della terra palestinese. Molti patrioti russi sostengono allo stesso modo che l’Ucraina è un Paese “falso”, un artefatto della politica interna sovietica e del revanscismo galiziano. La Cina denuncia l’illegittimità di Taiwan e afferma l’unità dello Stato cinese, così come lo vede.

Confesso che trovo questa linea di argomentazione piuttosto strana, in gran parte perché ho sempre visto gli Stati come costrutti che hanno una realtà oggettiva basata sulla loro capacità di mobilitare risorse allo scopo di esercitare il potere politico – vale a dire, mantenere un monopolio politico nel loro territorio (contro rivali esterni e interni) e proiettare un potere commisurato verso l’esterno. Israele è, ovviamente, uno Stato reale. Dispone di un territorio discretamente esteso, controlla i rivali all’interno di quel territorio e proietta forza e influenza verso l’esterno. Può non piacere, ma è, di fatto, reale.

Lamentarsi che uno Stato è illegittimo o falso è un po’ come sostenere che un animale non è reale, quando, in realtà, la vita di un animale è una proprietà oggettiva che deriva dalla sua capacità di estrarre calorie dal proprio ambiente e di difendersi dalla predazione. Gli Stati e gli animali possono morire, possono deperire a causa del fallimento della mobilitazione (affamati di entrate o di calorie, a seconda dei casi), possono essere devastati dal parassitismo interno, dalla ribellione e dalle malattie, o possono essere divorati da forme predatorie più grandi e potenti. Parassitismo, mobilitazione di risorse, predazione e morte: tutte pressioni incessanti sia per un animale che per un organismo politico. Gli Stati non possiedono una qualità astratta di legittimità, ma vivono o muoiono alle loro condizioni.

La Siria non è propriamente un Paese “falso”, ma è certamente un Paese malato. In particolare, si pone ora la questione del rapporto tra lo Stato e l’estensione di territorio precedentemente nota come Repubblica Araba Siriana. Il regime di Assad non c’è più, ma le immense pressioni che distorcono e si fanno sentire attraverso l’ampiezza dei suoi ex territori rimangono, e la questione di fondo diventa se un qualsiasi accordo politico stabile possa prevalere sul territorio della Siria.

Dobbiamo ricordare che la Siria, in quanto tale, è un’unione ingombrante di regioni geoeconomiche distinte: la fascia costiera, il corridoio delle antiche città-oasi (Aleppo, Hama, Homs, Damasco) e il bacino dell’Eufrate. Nei decenni che avevano preceduto la guerra civile, un breve boom delle esportazioni di petrolio, combinato con le grandi opere di irrigazione lungo l’Eufrate, aveva permesso l’esplosione demografica della Siria, con una popolazione totale che si era quasi triplicata, da circa 7 milioni nei primi anni ’70 a più di 22 milioni nel 2010. Dopo un breve declino nei primi anni della guerra civile, la popolazione aveva iniziato a riprendersi e aveva nuovamente raggiunto i 22 milioni nel 2022.

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Sovrappopolazione e mancanza di irrigazione: la sintesi del collasso siriano

Non è una coincidenza, quindi, che il collasso del sistema di irrigazione dell’Eufrate causato dalla siccità nel 2011 (condizioni di siccità che persistono tuttora) fosse stato uno dei principali fattori che avevano portato alla guerra civile, né meraviglia che questo fosse diventato il problema economico-fiscale chiave che il regime di Assad non è mai riuscito a risolvere. Non si tratta semplicemente del fatto che ad Assad mancasse una soluzione – è dubbio che una soluzione esista.

Il nocciolo del problema è semplice (e mi scuso per averci messo così tanto ad arrivare al punto): la Siria non può esistere come entità stabile senza l’unificazione di quasi tutto il territorio della vecchia Repubblica Araba Siriana, ma mantenere il controllo su quel territorio richiede la saldatura di un’amalgama esplosivo di blocchi etnici e settari.

La vasta e ipertrofica popolazione del corridoio delle città-oasi non può sopravvivere senza l’accesso alle terre agricole più produttive dell’est (in questo caso, sarebbero essenziali il risanamento del sistema di irrigazione e precipitazioni più favorevoli) e senza la possibilità di esportare le risorse di gas e petrolio della Siria. Se il corridoio urbano interno è tagliato fuori dalle risorse economiche dell’est della Siria, rimarrà un terreno di coltura sovrappopolato e impoverito, sempre pronto al dissenso e alla violenza. Allo stesso modo, [questo corridoio urbano] ha bisogno di accedere alla fascia costiera per avere un accesso economico al Mediterraneo. Il sorprendente incremento demografico della Siria nella seconda metà del XX secolo era stato possibile solo perché la Repubblica Araba Siriana aveva collegato il corridoio delle città-oasi con la fascia costiera [a ovest] e il bacino dell’Eufrate a est. In altre parole, perché la popolazione siriana abbia un futuro economico sostenibile, il Paese deve avere essenzialmente lo stesso territorio che aveva prima della guerra e, anche in questo caso, il deterioramento del sistema di irrigazione a est rende dubbia una ripresa stabile.

Tuttavia, per ricomporre questo territorio è necessario mediare una serie di impasse settarie, etniche e geostrategiche. Alcune delle proposte più fantasiose per la Siria prevedono una spartizione del Paese, con uno Stato alawita nella fascia costiera, uno o più Stati sunniti all’interno e un Kurdistan indipendente a est: queste proposte hanno forse senso per motivi etnici e settari, ma garantirebbero l’impraticabilità economica dell’intero progetto e avrebbero l’effetto di creare Stati sunniti sovrappopolati e senza sbocco sul mare, tagliati fuori dall’accesso al mare e alle risorse naturali e destinati all’impoverimento. Questa non è una ricetta per una pace duratura.

Per non parlare, ovviamente, degli interessi delle potenze esterne. I russi sembrano essersi in gran parte lavati le mani della Siria e puntano soprattutto a raggiungere un accordo con qualunque potenza prevalga per mantenere le loro basi sulla costa mediterranea – questo è probabilmente un altro caso in cui Mosca si fida troppo dell’ultimo “accordo” stipulato, ma tant’è. La posizione dell’Iran in Siria è essenzialmente andata in pezzi (ne parleremo tra poco) e l’iniziativa regionale è passata saldamente alla Turchia e a Israele. Tuttavia, l’Iran ha, in contropiede, ancora la possibilità di provocare incendi geopolitici.

In breve, è difficile essere ottimisti sul futuro della Siria. La realtà strutturale del Paese è sempre la stessa: un interno sunnita sovrappopolato e impoverito che ha bisogno di connettersi alla fascia costiera e al siccitoso Eufrate per nutrirsi e riprendersi economicamente. La frantumazione della coerenza economica della Siria è proprio ciò che aveva mandato in bancarotta e svuotato il regime di Assad, fino al punto in cui non aveva potuto pagare i suoi soldati, nutrire il suo popolo o difendersi da un ultimo attacco a sorpresa. Era stato l’impoverimento dell’ipertrofica popolazione siriana e il fallimento dell’irrigazione a est a scatenare la guerra civile e i flussi di rifugiati verso la Turchia e l’Europa. Nulla di tutto ciò è scomparso e, per rimettere insieme un’unità economica coerente di fronte alle forti divisioni settarie ed etniche della Siria, sarà necessario un tocco politico inimmaginabilmente abile o violento e deciso.

La Siria può essere o meno un “Paese finto”, nel senso che la sua coerenza economica è in contrasto con i modelli della sua popolazione. Tuttavia, è un Paese che si è costantemente disintegrato – soggetto sia al parassitismo interno che alla predazione esterna – e il regime di Assad non aveva chiaramente i poteri di mobilitazione per tenerlo insieme, tagliato fuori come era dall’Eufrate. I nuovi governanti sunniti di Damasco potrebbero cavarsela meglio, nel senso che (a differenza di Assad) si trovano a cavallo di una maggioranza demografica e godono dell’appoggio di una Turchia potente e in ascesa, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che ci aspettano altre violenze prima che da queste componenti disparate e impoverite possa nuovamente nascere uno Stato coerente.

Vincitori e vinti

Chiuso il capitolo del regime di Assad, possiamo considerare la Siria come un giocattolo delle potenze esterne. La Siria è stata un luogo di intenso interesse per almeno quattro potenti Stati esterni, ai quali assegno lo status di vincitori e perdenti come segue:

Grande vincitore: Israele
Piccolo vincitore: Turchia
Piccolo perdente: Russia
Grande perdente: Iran

Li considereremo in ordine sparso, iniziando da Israele e Iran, poiché le loro situazioni sono quasi perfettamente invertite.

È difficile sottolineare quanto sia crollata la posizione geopolitica dell’Iran nel Levante e nel Mediterraneo orientale. L’Iran aveva investito ingenti risorse per sostenere il regime di Assad, fornendo aiuti militari e supporto logistico per decine di miliardi di dollari. Soprattutto, però, l’Iran aveva avuto un ruolo centrale nel fornire truppe a sostegno del vacillante esercito arabo siriano nel corso degli anni, con la Forza Quds d’élite del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane che aveva avuto il compito di addestrare le milizie a sostegno dell’esercito di Assad e che aveva guidato la mobilitazione e il coordinamento dei combattenti stranieri, anche da Libano, Iraq e Afghanistan.

Per l’Iran, la Siria e il Libano costituivano un insieme di proiezioni di forza che si rafforzavano a vicenda. La Siria forniva un corridoio terrestre cruciale che permetteve all’Iran di convogliare personale e rifornimenti in Libano, creando un collegamento essenziale nella connettività geografica della proiezione di forza dell’Iran. Hezbollah svolgeva un ruolo prezioso nel coordinamento delle milizie iraniane in Siria e la Siria assicurava il collegamento terrestre tra Iran e Hezbollah. Per l’Iran, quindi, il 2024 è stato un disastro, con Hezbollah duramente colpito dall’IDF e la Siria ora in uno stato di collasso.

Israele ha, in effetti, creato un ciclo di feedback cinetico che sta consumando la posizione dell’Iran nella regione. Hezbollah è indebolito da 14 mesi di guerra con l’IDF e la sua leadership e le sue infrastrutture sono in disordine dopo una serie di devastanti attacchi israeliani, tra cui la famigerata operazione dei cercapersone-bomba e un attacco aereo che ha ucciso Hassan Nasrallah. Lo stato di debolezza di Hezbollah lo ha reso del tutto incapace di intervenire per impedire il crollo del regime di Assad, e ora questo stesso crollo significa che l’Iran deve escogitare un modo per ricostruire le capacità operative di Hezbollah senza il vitale collegamento logistico terrestre che aveva utilizzato per lungo tempo.

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Truppe dell’IDF sulle pendici del Monte Hermon

Per Israele, quindi, il 2024 ha portato almeno una temporanea neutralizzazione di gran parte della struttura di comando di Hezbollah, la rottura del collegamento terrestre dell’Iran con il Libano e un ampliamento della zona di sicurezza controllata dall’IDF intorno alle alture del Golan. C’è la crescente sensazione che Israele possa agire quasi impunemente, dopo aver condotto un’impressionante serie di attacchi di decapitazione contro il personale nemico di alto valore, aver combattuto un’estenuante e devastante campagna di terra a Gaza e aver effettuato attacchi aerei di rappresaglia contro lo stesso Iran.

L’idea che Israele sia uscito molto bene da tutto questo tende a far arrabbiare la gente e a lanciare le solite accuse di Sionismo, ma la realtà è abbastanza chiara. Israele ha eliminato un gran numero di esponenti di alto rango del nemico, compresi i più alti leader di Hamas e Hezbollah. L’IDF ha mantenuto una presenza di terra nella Striscia di Gaza per mesi e ha ridotto in macerie gran parte del suo insediamento urbano. Israele ha ucciso il presidente dell’Ufficio politico di Hamas proprio a Teheran. Ha conquistato una zona cuscinetto allargata nel Golan e ha visto crollare il collegamento terrestre dell’Iran con il Libano. Queste sono manifestazioni oggettive di forza cinetica – i cercapersone che esplodono, i carri armati dell’IDF e gli attacchi aerei, senza dubbio, lo sono. Qualsiasi suggerimento che Israele non stia vincendo alla grande sarebbe un atto di ignoranza intenzionale e di inutile intransigenza cognitiva.

L’Iran, ovviamente, dispone di una certa profondità strategica e di opzioni per ricostruire la propria posizione. Mantiene ancora milizie in Iraq, ha la possibilità di impegnarsi con l’SDF (le milizie a guida curda nella Siria orientale), mantiene proxy produttivi nello Yemen e ha dimostrato capacità di attacco contro Israele. Tuttavia, è chiaro che si trova in una posizione di svantaggio e che deve faticosamente ricostruirsi una posizione in Libano e in Siria, dopo aver investito molto nella regione nel corso dei decenni.

Nel frattempo, la Turchia ha chiaramente soppiantato l’Iran e la Russia come potenze esterne dominanti in Siria. Qui sono in gioco numerosi interessi turchi, tra cui il reinsediamento dei rifugiati siriani (quasi quattro milioni dei quali si trovano attualmente in Turchia e la cui presenza rimane sgradita a molti), la riduzione del controllo curdo (SDF) nella Siria orientale e l’espansione dell’influenza turca nel Caucaso meridionale, dove la Turchia e il suo alleato azero continuano a premere.

L’inquietante facilità con la quale la Turchia, in quanto principale sostenitore straniero di Tahrir al-Sham, è riuscita a sconfiggere il governo di Assad ha messo Ankara in una posizione dominante, da cui giocherà un ruolo centrale nel plasmare il futuro politico della Siria. Il problema per la Turchia, tuttavia, è che i suoi interessi vanno controcorrente. Ankara vorrebbe il ritorno dei rifugiati siriani, la stabilizzazione del confine meridionale della Turchia, un’influenza turca duratura nella politica siriana e, soprattutto, impedire l’emergere di una polarità curda stabile e duratura nell’est della Siria. Tutti gli interessi della Turchia, in altre parole, implicano il ritorno della vecchia integrità territoriale della Siria sotto una guida sunnita.

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La Turchia ha soppiantato la Russia come attore esterno più potente in Siria

In breve, la Turchia ha vinto questa fase della guerra, ma ora deve “vincere la pace”, come si suol dire. Se la Siria ricadrà in un’altra sanguinosa guerra civile, la Turchia tornerà al punto di partenza per quanto riguarda i suoi obiettivi strategici. Ankara è un po’ come Sisifo con il suo masso insanguinato: l’ha fatto rotolare fin quasi in cima alla collina, e ora deve cercare di mantenerlo lì.

Per la Russia, le questioni principali in gioco sono i diritti della sua base navale sulla costa mediterranea della Siria, che prima erano garantiti dal regime di Assad, e la perdita di influenza su Ankara.

La Russia mantiene alcune basi aeree e navali nella fascia costiera siriana, vicino a Tartus e Latakia. Queste basi sono un collegamento prezioso per la proiezione di potenza russa nel Mediterraneo e, per il momento, sembra chiaro che Mosca ha deciso di lavarsi le mani di Assad e di cercare di salvare le basi attraverso accordi con qualsiasi governo emerga in Siria.

Il problema più grande per Mosca è la perdita di influenza nei confronti della Turchia. Con il regime di Assad al potere, la Russia era funzionalmente l’arbitro delle relazioni tra Turchia e Damasco. La Siria era un punto di pressione per la Turchia che Mosca era in grado di utilizzare per influenzare le decisioni di Ankara su altre questioni, come l’Ucraina e il Mar Nero. Con la caduta di Assad, tuttavia, il rapporto di forza è ora invertito. Ora è un proxi turco, non uno russo, che controlla Damasco e Mosca dovrà avere il benestare di Ankara se vuole mantenere le sue basi sulla costa.

Riepilogo: la Siria al bivio e nel mirino

In definitiva, la caduta del regime di Assad è dovuta alle instabilità intrinseche nella costruzione della Siria, soprattutto in assenza di un controllo consolidato sull’intero ex territorio dello stato. Senza esportazioni di petrolio e senza le regioni agricole attorno all’Eufrate, la Siria non può sostenersi e la cintura delle città-oasi è destinata ad una vita di stenti. Il problema più grande di Assad è anche il problema di Ankara: i milioni di rifugiati che languono in Turchia sono strettamente collegati ai soldati sottopagati e demotivati ​​di Assad, in quanto entrambi sono la manifestazione di un Paese affamato ed esausto.

Il problema della Siria, in quanto tale, è che la sostenibilità fiscale ed economica dello Stato è, a dir tanto, precaria e si basa sul controllo consolidato dell’ex territorio dello Stato, ma questo, a sua volta, richiede la saldatura, assai volatile nelle migliori circostanze, di un’amalgama di gruppi etnici e settari, proprio nel momento in cui le potenze straniere stanno cercando di attizzare il fuoco. La logica etnica e la logica economica della Siria rasentano la totale incompatibilità e sono state storicamente tenute insieme solo dalla repressione e dalla violenza.

Inoltre, la Siria si trova quasi letteralmente a un bivio geostrategico, sull’estuario di grandi potenze esterne. In particolare, la Siria forma una zona di collisione tra il potere iraniano e quello turco. Chiunque di queste potenze si trovi in ​​svantaggio nella regione ricorrerà all’incendio doloso strategico, l’infiammazione intenzionale di un trashcanistan [uno Stato bidone della spazzatura] per creare un pericolo che vada a danno del rivale. Mentre il regime di Assad deteneva il potere, grazie al generoso sostegno di Mosca e Teheran, era stata Ankara a fornire la spinta potente e, alla fine, vincente. Per consolidare la vittoria, la Turchia deve ora stabilire con successo una governance stabile in Siria, mitigare l’autonomia curda e invertire il flusso di rifugiati. Ma, con l’Iran in ritirata, chi la fa l’aspetti e la Siria, con la sua base economica traballante e tutte le sue divisioni settarie, è una terra piena di legna da ardere a disposizione di un piromane geostrategico.

Big Serge

Fonte: bigserge.substack.com
Link: https://bigserge.substack.com/p/the-big-happening
23.12.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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