IL FURTO DELL’ANIMA

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DI CARLO BERTANI

Ma sappiate che questo è argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi sa più grammatica e logica d’Aristotile o di questo o quello autore;
al che ci vol sol memoria servile, onde l’uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li libri, e s’avvilisce l’anima in quelle cose morte…

Tommaso Campanella, (Appendice della politica detta) La Città del Sole

L’estate, le vacanze, ci concedono spesso la possibilità dell’introspezione, della riflessione sul passato: riapriamo vecchi libri, sostiamo sui vecchi album delle foto, torniamo ad immergerci in cosa siamo stati, lontano da quel che siamo oggi.
Ogni tanto è utile sganciarci dai soliti dibattiti, dalle comuni riflessioni, dal mondo che anche la controinformazione – in definitiva – tende a parificare in un comune plafond.

Mi capita fra le mani un vecchio libro degli anni ’70, La tecnologia alternativa – quando essere “alternativi” era forse un concetto più confuso rispetto all’oggi, ma le determinazioni di fondo dell’epoca erano più marcate e tracciavano un confine più chiaro fra chi lavorava per il “sistema” e chi era contro, lo rifiutava e desiderava costruire un mondo alternativo – e lo riapro.
Non mi sfugge, mentre avverto un impercettibile odore di muffa che si leva dalle pagine, che tanti “alternativi” dell’epoca – oggi – sono comodamente acquartierati negli accampamenti del potere: da Lotta Continua alla corte di Berlusconi, da Potere Operaio alla Sorbona. Non mi permetto giudizi di sorta – ho imparato la lezione della solitudine, che concede almeno il privilegio dell’indipendenza, culturale e morale – e, se hanno dei conflitti con le loro coscienze, me ne rammarico. Hanno scelto per loro stessi.
Eppure, abbiamo un gran bisogno – oggi – di tornare a riflettere sui paradigmi di quell’epoca perché – non dimentichiamo – fu il decennio di Reagan e dell’“edonismo reaganiano” che cancellò scientemente quello che era un enorme pericolo per l’establishment: il timore che la gente iniziasse non a discutere, ma a progettare un altro mondo.
Tutto ciò che è avvenuto dopo – da New American Century a Bush, da Gorbaciov a Blair – è soltanto la conseguenza d’azioni espressamente iniziate in quegli anni. L’obiettivo? Uno solo: rendere la gente incapace d’esser protagonista del proprio destino, togliere loro l’anima, privarli della gioia di vivere al punto d’accettare il piatto di lenticchie della schiavitù invece di correre – magari meno irreggimentati, ma forti nell’animo – nelle praterie dell’ingegno e della fantasia. Perché, privato della fantasia, l’uomo è la peggior macchina che si conosca: un congegno incerto nel suo incedere, perché continuamente dubbioso sul cammino da scegliere. Quel procedere dubbioso, unito alla fantasia, è invece la sua vera forza.

I meccanismi e le azioni intraprese, oramai, le conosciamo: ciascuno di noi potrà aggiungere una pagina o demolire un dubbio – da Echelon alle massonerie internazionali, dal tristo agire di politici da basso impero ai loro datori di lavoro, i banchieri, che ci rubano l’anima per inginocchiarsi nelle sacrestie del PIL – ma la sostanza non cambia. Noi tutti, cristiani e islamici, liberisti e statalisti, destri e sinistri, juventini ed interisti, siamo stati relegati nello slum della Danza degli Spettri.
Già Alce Nero – non semplice “uomo di medicina”, ma grande uomo di cultura, solo che il suo sapere è stato dai colonialisti definito “sottocultura” – ci aveva avvisati.
Le strade del Nord, del Sud, dell’Est e dell’Ovest non s’incontrano più, e la Nazione non ha più centro: questa fu l’amara sentenza del grande pensatore Lakota. Quelle strade non sono – come si potrebbe frettolosamente pensare – esterne ma interne a ciascun essere umano, proprio come le energie interne al corpo dell’Ayurveda o gli elementi dell’alchimista. Senza quei flussi vitali, l’uomo perde la bussola e diventa uno schiavo.
Con Alce Nero abbiamo gettato nel cesso Rudolf Steiner, Whileilm Reich e tanti altri in cambio di Keynes e della Monsanto, di “pensatori” come Wolfowitz o D’Alema. Se fossimo dei vecchi scambisti di figurine, sarebbe stato come scambiare Gigi Riva con Del Piero. Il primo – racconta – trascorreva insieme ai compagni le notti insonni, nelle camerate, a fumare ed a sognare insieme ad un allenatore-filosofo, Scopigno. Il secondo, mangia due briciole, beve acqua minerale e parla con l’uccellino.

E’ bastato scorrere le pagine dell’introduzione per rammentare, per ritornare per un attimo a quegli anni: due pagine, mille pensieri.
Ma cosa raccontavano, in quelle pagine, di tanto interessante?
Davano per scontata una rivoluzione: no, niente effigi di Marx e di Lenin, nessuna Piazza Rossa né missili “buoni”. Buoni perché con la stella rossa.
La rivoluzione era tecnologica, ma soprattutto sociale: ecco, ciò che oggi tendiamo a sottovalutare.
Ci perdiamo nei mille calcoli dei Watt e della Calorie, conteggiamo sino all’ultimo centesimo sui costi di un sistema energetico, ci lambicchiamo per un Joule perduto e dimentichiamo che – qualsiasi nostro parto dell’ingegno – non sarà applicato ad una gabbia di topi, ma ad esseri in carne ed ossa come noi, con i loro dubbi e le loro certezze, le loro perplessità e le vigorose affermazioni.
Siamo a tal punto cascati nell’inganno, che assumiamo come valide le basi di pensiero del nemico! Nessuno dei colonizzatori americani – da “Capelli Gialli” Custer a “Cappotto d’Orso” Miles, dal più tetragono al meno convinto di ciò che stava facendo – si pose il problema della salvezza, dell’armonizzazione della cultura Lakota con il nuovo stato. Impariamo.

Il primo assioma dei “rivoluzionari” tecnologi dell’epoca non partiva dalle scelte migliori, ma dalle migliori scelte. Non un compromesso al ribasso, ma al rialzo.
Affermavano che nel 2000 – e, a quel tempo, il 2000 era come parlare oggi di Marte – Rio de Janeiro e San Paolo si sarebbero congiunte, formando un solo agglomerato urbano di 50 milioni di persone. Allucinante, non governabile, affermavano.
Non so se le due città si siano “toccate”, ma i costi sociali delle megalopoli sono evidenti, chiari a tutti: degrado ambientale ed umano, rapporti interpersonali dettati più dall’ansia che dalla solidarietà. Oramai, la solidarietà è un bene così inflazionato che sarebbe meglio non usare più quel termine e sostituirlo con empatia, che non è quantificabile ne svendibile un tanto al chilo perché – l’empatia verso gli altri esseri – è intimamente legata allo stato mentale di noi tutti. O ce l’hai, oppure nessuna associazione di regime potrà rivendertela.

Immaginiamo, a fronte di salari che per i giovani s’arrestano a soglie fra i 500 ed i 1.000 euro, di quanto sale la “credibilità” del crimine. Non stiamo parlando del grande crimine – per quello ci sono specifiche istituzioni, come i servizi segreti “deviati” o le mille mafie che fanno “lingua in bocca” con la politica – ma del piccolo crimine borderline, che non significa essere criminali a tempo pieno. Vuol dire semplicemente “arrotondare”, oggi spacciando qualche pasticca, domani rivendendo della refurtiva: la soglia della cosiddetta “legalità” – a fronte di salari da fame – scende. E poi ci vengono a parlare di prevenzione: l’unica prevenzione sarebbe non creare ingovernabili alveari di milioni di persone.
Il futuro, affermavano i tecnologi anni ‘70, passerà obbligatoriamente per una diffusione della popolazione sul territorio; l’esigenza dei grandi agglomerati urbani fu necessaria alla prima industrializzazione: oggi (negli anni ’70!) non ha più senso. Meno male che allora non aveva senso.

Come giustificavano quelle affermazioni?
Semplice: l’automazione industriale renderà possibile la frammentazione di singole unità produttive su vasti spazi, con ampio uso del telelavoro. Le reti telematiche del futuro consentiranno la trasmissione dei dati in tempo reale e non sarà più necessario spostarsi.

Osserviamo come le nostre classi dirigenti hanno interpretato il fenomeno.
L’automazione industriale è un dato di fatto: sono più di vent’anni che le grandi aziende non fanno altro che inserire robot al posto degli uomini per le lavorazioni ripetitive. Fra l’altro – proprio per l’intrinseca peculiarità dell’uomo a ragionare in termini analogici – la “macchina umana” è poco adatta (e meno precisa) per svolgere mansioni ripetitive.
Laddove l’automazione industriale è più accentuata, Francia e Germania – per rimanere in Europa – le ore annue lavorate sono inferiori rispetto ai paesi a minore automazione, Italia e Spagna, ad esempio.
Sull’altro fronte, l’automazione industriale esige molto lavoro d’ingegno ed informatico: tutte attività che non richiedono assidua presenza.

Le scelte operate da tutti i governi italiani, invece, sono orientate verso l’accentramento: le linee ad alta velocità sono materia di feroce concorrenza per le compagnie telefoniche – spot milionari e spesso mendaci – mentre la diffusione del segnale asimmetrico (ADSL) langue. Enormi aree del paese ne sono prive mentre, si badi bene, non si è perso tempo per consentire loro la copertura del segnale radio-telefonico, la rete dei cellulari.
Solo convenienza economica? Forse, ma riflettiamo che privare – oggi – ampie aree del paese della possibilità di trasferire dati ad alta velocità, significa condannare quelle zone all’analfabetismo informatico.
Problemi tecnici? No, questo proprio no.
Come si è espansa la rete dei cellulari, basterebbe installare una rete di trasmettitori collegati alle reti ad alta velocità, ciascuno dei quali servirebbe una sezione di rete telefonica. Non sarebbe e non è una chimera.
Se non si operano simili scelte, significa soltanto che si tratta di un ben preciso intento politico: se si trattasse di TV o cellulari, l’avrebbero già fatto.
Sintomatico fu il caso delle antenne della Radio Vaticana, che diffondevano il segnale – nelle vicinanze di Roma – frodando apertamente la legge, ossia emettendo con picchi di potenza ben superiori al consentito e mettendo a repentaglio la salute degli abitanti.
Inoltre – mentre Sgarbi e Ripa di Meana battono lo Stivale per la loro crociata anti-aerogeneratori – nessuno si lamenta per le migliaia d’antenne per le telecomunicazioni, che hanno oramai invaso anche gli angoli più pittoreschi del paesaggio.
La risposta della classe politica è dunque stata: parlate pure con il cellulare ovunque, rincoglionitevi con la TV spazzatura ma…per il segnale ad alta velocità…andiamoci piano, in fondo non è proprio necessario, anzi…

Se le aree meno abitate del paese sono state gettate nel cesso – almeno per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico – osserviamo cosa succede su un altro fronte, ossia quello dell’espansione delle aree protette.
Presto, ai classici parchi nazionali, s’aggiungeranno nuove aree con forti restrizioni alle attività umane: delle specie di “sotto parchi”, nei quali non si potrà fare quasi niente. Pare che questa sarà la “strada” scelta dal Ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio, uno dei più facoltosi parlamentari italiani.
Apparentemente – e probabilmente così spacceranno questa scelta – sembrerebbe l’ovvia contromisura per aree che si stanno “naturalmente” spopolando.

Io vivo proprio in un’area – la Langa piemontese e dintorni – che sta diventando un deserto. I ragazzi che terminano gli studi liceali, li saluto prima della maturità e non li rivedo più: partono per compiere gli studi universitari e non tornano. Dopo anni, qualcuno mi racconta che Tizio ha trovato lavoro a Milano o a Udine, a Torino o Roma. Addio: d’altro canto, perché dovrebbero tornare in un deserto economico?
Ampie aree interne delle province che vanno da Imperia a Piacenza sono oramai così poco popolate che paiono una selva: si può camminare per decine di chilometri senza incontrare anima viva e senza imbattersi in una casa.
Un amico – per la sua tesi di laurea – fece un censimento delle antiche cascine nella valle del Letimbro (Savona): ne censì 84, tutte disabitate, che agli inizi del ‘900 formavano il tessuto economico agricolo della valle.
I piccoli paesi sono diventati dormitori per chi lavora nelle città – ed è disposto a sobbarcarsi, per scelta o per necessità, una vita da pendolare – mentre la gran maggioranza sono pensionati, moltissimi in età avanzata.

Il declino di questi paesi può addirittura essere “marcato” mediante degli indicatori: la prima attività a cessare, normalmente, è il distributore di carburante. Seguono poi, con percorsi diversi, la scuola (media e poi elementare), la farmacia, la Posta, il giornalaio, i tabacchi, ecc. Nel volgere di un quarto di secolo – più o meno i tempi sono questi – si passa da un tessuto sociale vivo ad un simulacro, un carapace vuoto.
Il valore delle aree fabbricabili, ovviamente, decresce ed è qui che s’innesta la speculazione immobiliare: prima si concede al deserto lo status di “deserto protetto”, quindi – utilizzando finanziamenti nazionale ed europei – si restaurano le poche vestigia storiche (chiese, castelli, ecc) senza, peraltro, trovare anzitempo delle finalità d’utilizzo, salvo fantomatici “centri culturali” o roba del genere. Normalmente, sono centri culturali sempre sprangati: strano modo di far cultura.
A quel punto, tutto è pronto per l’atto finale: intervengono le società immobiliari, che “piazzano” a prezzi di svendita aree agricole, fabbricabili od edifici da ristrutturare. Chi compra?

Da sempre, compra chi ha i soldi per comprare: in questo caso, chi acquista non lo fa per necessità ma per semplice capitalizzazione. Le tipologie saranno varie – dal ricco pensionato svizzero al palazzinaro nostrano – ma le finalità saranno grosso modo le stesse.
C’è chi utilizzerà quelle proprietà come semplici beni-rifugio, conscio che il buon broker acquista quando tutti vendono, ma ci sarà anche chi lo farà per mire più utilitaristiche.

Non è forse vero che il grande business è oggi quello legato alla salute – ovviamente nel senso più ampio del termine – e, allora: cosa ci può essere di più allettante che acquistare, per pochi soldi, terreni ed antiche case da adibire a centri per il benessere fisico e spirituale?
Nelle aree “svuotate” dagli indigeni, acquistabili per pochi spiccioli e protette con bolla statale dalle intrusioni esterne, potranno nascere come funghi centri sportivi, di ricreazione – per il corpo e per lo spirito – che saranno però gestiti dalle grandi catene alberghiere, da anonime società, da banche. Insomma, dai soliti noti.

Qualcuno potrà obiettare che tutto ciò è perfettamente legale, ma a costoro sfugge che – a monte – ci sono state operazioni che non sono proprio fulgidamente corrette. Se, per decenni, si va avanti a tagliare i “rami secchi” delle Ferrovie e vengono sostituiti da vecchie (e care) corriere che sembrano diligenze, si chiudono quindi gli ospedali secondari – cosicché, se ti fai male, scarpina per settanta chilometri oppure aspetta, speranzoso, l’elicottero – e non s’investe in nulla (l’ADSL è solo l’ultima trovata, perché fino a pochissimi anni fa c’erano ancora centraline elettromeccaniche, che non potevano accedere alla rete!) il risultato è scontato.

Eppure, con queste belle trovate, lor signori ereditano – in cambio di poche perline colorate – un patrimonio che le popolazioni locali hanno curato per secoli!
Quale destino attende il popolo che viveva nelle Riserve? L’inurbamento: chiaro.
Sostanzialmente, lo Stato si pone nei confronti della metà (forse ancor più) dei comuni italiani come si comportarono le Giacche Blu quando scoprirono che sui Black Hills c’era l’oro.
L’inurbamento genera problemi? Niente paura: basta garantirsi la fedeltà della guardia pretoria – tutti gli uomini in divisa – con buoni stipendi ed ampi privilegi ed il gioco riesce. Lo schiavo che si ribella, in definitiva, cosa merita se non la morte?
I poveri estensori della tecnologia alternativa, scoprono quindi che tutto il loro lambiccarsi viene deriso e vanificato dalla solita ghenga di centro/sinistra/destra, che “amorevolmente” si prende cura di noi.

Un altro assioma della “tecnologia alternativa” dell’epoca era la produzione energetica: suvvia – parevano affermare – non tediateci con queste fregnacce sull’energia! Tutti sanno che le energie naturali sono abbondanti e praticamente inesauribili: basta raccoglierle!
Anche i nostri amorevoli padroni lo sanno, e ci prendono anche in giro quando lo ammettono. Sanno perfettamente che se fosse captata la centesima parte dell’energia solare che scende sui deserti il problema sarebbe risolto. Addirittura, l’ENEL (Enelgreenpower) comunica ufficialmente che la sola risorsa eolica è in grado di soddisfare 4 volte l’intero fabbisogno mondiale: lo raccontano loro, mica noi, piccoli indiani.
Il problema di una fonte inesauribile è proprio la sua, intrinseca, difficoltà nel monetizzarla. Il suo valore d’uso non muta – il sole che mi riscalda oggi, scalderà fra sei ore gli americani – ma è terribilmente difficile imbastire, su fonti così vaste ed inesauribili, la classica speculazione della domanda e dell’offerta. In ogni modo, ci stanno provando con l’acqua.
Meglio le fonti fossili: saranno pure care, ma almeno sono finite e potremo ragionevolmente lucrarci per almeno i prossimi 40 anni. Dopo, tireremo fuori dal cappello qualche nuova diavoleria sul nucleare e tireremo avanti. Problemi di scorie? Di radiazioni? Va beh…costituiremo un fondo per le emergenze…tutto fa brodo: anzi, tutto fa PIL, anche i sacchetti di plastica per i cadaveri.

Poco credibile? Fantasie? Fate la prova del nove.
Cosa sta facendo il cosiddetto “mondo industrializzato” per incentivare le rinnovabili? “Incentiva”, appunto.
Vi regalano ben 45 centesimi di euro per ogni KW prodotto con il fotovoltaico, ben sapendo che senza quel contributo sareste fuori mercato: in altre parole, ti lego al carro con gli incentivi e senza il mio contributo non vai da nessuna parte.
Il tutto, può anche diventare un buon mezzo di ricatto elettorale: voti me? 45 centesimi; voti Tizio? Beh, allora…
Sulle altre fonti, cercano di mantenere l’assoluto controllo statale. Il termodinamico? L’ENEA afferma che già oggi è competitivo?
E che lo affermino pure! Noi, intanto, diamo mandato all’ENI (!) di terminare per il 2009 la centrale di Priolo Gargallo, un impianto poco più che sperimentale. Scaroni – immaginiamo – ci sta spendendo le notti.
Laddove le due strade non bastano – incentivazione (come sul solare termico, che costa, in Italia, il doppio che in Austria!) oppure controllo del Sovrano – ci pensa la burocrazia.

Guardiamo per un attimo al passato.
L’espansione idroelettrica che avvenne fra le due guerre mondiali non fu soltanto appannaggio dei grandi sistemi, anzi.
Moltissime società private installavano piccole turbine su fiumi, torrenti e canali per vendere l’energia elettrica nel circondario. Gli ultimi mugnai della ruota ad acqua, associavano una dinamo all’albero che azionava le macine e si procuravano l’energia elettrica per loro e per qualche vicino.
Le esigenze dell’epoca erano senz’altro minori, ma sapete quanta energia produce una misera ruota o turbina Kaplan installata su un ruscello? Parecchi KWh. L’ENEL ne concede, ai privati, soltanto 3.

E un modesto aerogeneratore in una località ventosa?
Un mulino a vento con pale di 2-3 metri può produrre, in una località ventosa, circa un KWh con venti modesti: si potrà discutere all’infinito su questi valori (che dipendono dal tipo di pala, dal flusso del vento, ecc) ma i valori sono pressappoco questi.
Riflettiamo che un simile aerogeneratore è poco più di un giocattolo: richiede un palo di pochi metri e tantissime persone sarebbero in grado d’acquistare in scatola di montaggio le parti più complesse (pale, mozzo, alternatore, inverter, ecc), per poi installarlo da soli. I più ingegnosi, potrebbero costruirlo da sé.
Perché non esiste un “conto energia” – anche senza incentivi – per le piccole realizzazioni eoliche ed idroelettriche?

Non è necessario imbastire una polemica su questi pochi dati, perché tanto ci pensa la burocrazia a fermarvi: e il certificato d’impatto ambientale? E il responso dell’apposita commissione? E le normative di sicurezza? E le distanze dai confini della proprietà? E il progetto, debitamente depositato e firmato dal solito “esperto” (che probabilmente ne sa meno di voi)? E il certificato di collaudo? Vi fanno impazzire.
Pressappoco la stessa cosa succederebbe se vi sognaste di canalizzare mezzo metro di ruscello per farci girare una ruota: lì, vi salterebbero addosso anche quelli della Pesca Sportiva.
A meno che…a meno che non conosciate qualche “mammasantissima” che s’interessi per “velocizzare” la pratica. In cambio, ovviamente, del vostro voto, di quello dei vostri figli, nipoti e bisnipoti per lui, il figlio e tutta la sua progenie. Insomma, il solito. Perché, il “solito”?

Poiché, rendendovi indipendenti nella produzione d’energia, fareste saltare un assioma importantissimo: per i bisogni essenziali, tu devi dipendere. Se dipendi, potrò ricattarti all’infinito.
Inoltre, creando energia dal nulla, entrereste in concorrenza con i banchieri, che creano ricchezza dal nulla: l’energia, non dimentichiamo, è ricchezza.
Per la stessa ragione, cancellando nelle campagne i produttori familiari ed ammettendo solo le grandi aziende agricole, priveranno ciascuno di noi della forza e della sicurezza che genera saper produrre con poca fatica il cibo che ci serve. Chi coltiva un orto, non si reca ad acquistare verdure ai banchi del supermercato, non contribuisce ad aumentare i profitti delle multinazionali degli OGM e delle sementi “certificate”.
Chi ancora vive nel vero mondo, quello dove s’incontrano ancora profumi e s’ascoltano i richiami degli animali, sa che un pezzo di legno brucia, che quel fuoco riscalda e può cucinare alimenti. Sa che poche galline, lasciate libere di razzolare e con poco cibo, producono molte uova: proteine nobili quasi a costo zero.

Tutto ciò rende le persone più libere e sane, più sicure dei loro mezzi, meno dipendenti dai grandi sistemi esterni che tendono invece a schiavizzarle: non è oramai lontano il tempo nel quale – per inderogabili esigenze di “sicurezza” – c’infileranno un chip sotto la pelle.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe storcere il naso e pensare “sono tutte fandonie e sogni: le inderogabili esigenze delle società avanzate…la globalizzazione, i trasporti, le necessità energetiche…”. Non si renderà nemmeno conto di recitare, a memoria, il suo atto di fede nei confronti dell’establishment. Bacerà la mano del padrone.
Peccato, perché la sola salvezza sarebbe proprio sganciarci da queste false credenze: il pianeta non ci sopporta più, e ce ne sta fornendo ampi segni sconvolgendo il clima. Non è una chimera un mondo dove la gente occupa il territorio, interagisce con esso e se lo gode – invece d’andare a scaricarci, a caro prezzo, le tensioni accumulate in mesi di stressante vita da schiavo – e, naturalmente, si rende conto di non avere chissà quali esigenze artatamente imposte. Sarebbe veramente la rovina: per i nostri padroni.

Carlo Bertani
[email protected]
www.carlobertani.it
16.08.07

http://www.macrolibrarsi.it/libri/__mutamenti_climatici.php?id_wish=10678

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