DI ADRIANO SEGATORI*
Il processo degenerativo
L ‘uomo moderno vive – o sta morendo per disfunzioni che superano le normali difficoltà e le naturali avversità che caratterizzano la vita del singolo e della comunità d’appartenenza, e che configurano, invece, una deriva ed una degenerazione dello stesso stile di vita e della stessa visione del mondo. Uno di questi deterioramenti è quello legato ai rapporti ed alle relazioni nell’organizzazione del lavoro, intendendo con il termine organizzazione non solo l’apparato burocratico-amministrativo e tecnologico-produttivo, ma lo stesso dispositivo etico, antropologico e comunicativo che dovrebbe caratterizzare i legami e le funzioni all’interno di un gruppo omogeneo ed organicamente strutturato. Affinché questa mutazione sistemica potesse funzionare e consolidarsi, è stato necessario che tutti gli attori e tutte le dinamiche fossero ridefiniti sulla base di una visione trasformativa predefinita.Innanzitutto c’è stata una progressiva alterazione del significato e della prassi aziendale. Dal lontano ‘800, in cui il capitalismo familiare esigeva un conduttore significativo ed individualizzato, e con esso un’assunzione personale di responsabilità ed una difesa del buon nome della ditta rappresentata, si è passati con i primi anni del ‘900 alla costituzione del consiglio di amministrazione, atto essenziale di distanziamento tra il proprietario ed i lavoratori, con l’effetto di diluizione della responsabilità del vertice e del senso di appartenenza della base, e di conseguenza la nascita di una nuova figura intermediaria, il sindacato.
La svolta radicale è avvenuta con gli ultimi anni settanta fino al criterio economico teorico e pratico definito da Edward Luttwak come turbocapitalismo. E’ questo il limite temporale dal quale si delinea e si accorda con totale uniformazione quella “demonìa dell’economia” denunciata da Evola. Il capitale smarrisce definitivamente la concretezza derivante dal valore reale del denaro per perdersi nell’entità virtuale della finanza, una condizione d’irrealtà che gioca un ruolo determinante nel condizionamento della politica internazionale e che mina in maniera inesorabile la libertà e l’autonomia dei singoli governi. Simultaneamente alla deformazione del criterio dell’economia ancella della politica – degenerato a politica strangolata e ricattata dal potere economico – si è manifestata la caduta di valore del soggetto agente all’interno del mondo del lavoro. L’artefice, l’homo faber che determinava la sua azione attraverso la qualità del prodotto finito, che assumeva su di sé la memoria dell’opera d’arte con il cosiddetto apprendistato di bottega, che ampliava l’esperienza ricevuta con la propria creatività artigianale, si è progressivamente trasformato in homo œconomicus, quell’operaio che strumentalmente applicava criteri e prassi di progetti forniti da altri, che si confondeva nell’anonimato di un gruppo organizzato e finalizzato alla quantità produttiva, che s’impegnava a considerare come essenziali i parametri di tempo e d’efficacia in nome e per conto delle esigenze di mercato – richieste quantitative e capacità di soddisfarle –, il tutto secondo le esigenze inderogabili del guadagno. Il primo s’impegnava per soddisfare necessità esistenziali personali e di scambio, il secondo veniva sfruttato per esigenze di mercato e di vendita.
La figura dell’homo œconomicus può essere considerata la prima battaglia sindacale perduta: con la velleità di controllare una finanza sempre più anonima e aggressiva, si pensò di usufruire del cambiamento in atto rivendicando semplicemente delle condizioni migliori di lavoro non mettendo in discussione l’etica stessa della manovra capitalista. Per l’ennesima volta Evola inquadrò la mentalità corrente e definì il “proletario un borghese mancato”: invidioso del benessere materiale di pochi pensò di poter aggregarsi ai benefici vegetativi di una minoranza senza rendersi conto di partecipare ad una deriva ben più pesante. Il passaggio decisivo si ebbe con lo sviluppo della tecnica. Capitale e tecnica: i due componenti incontrollabili di una miscela esplosiva. Con l’idea che la meccanizzazione del lavoro potesse sollevare l’uomo dalle fatiche quotidiane e potesse, a ragione, renderlo anche più libero dal tempo stesso dell’impegno, si esaltò la diffusione della macchina e si beatificò la tecnologia. Nacque il tecnico, lo specialista che presentava i due paradigmi più difficili delle figure precedenti: l’isolamento dell’artista senza la sua creatività, il criterio del progetto comune senza il legame del gruppo comunitario. Solo, psicologicamente, nel suo contesto tecnico, insieme con altri per obbligo di progettazione, il tecnico perse tutta la soggettività della persona per divenire parte funzionalistica di un apparato. Illuminanti, a proposito, le parole di Galimberti: “l’uomo, che come tecnico opera in un sistema parziale, è calcolato dall’apparato e dal calcolo reificato in un sistema estraneo che il suo fare non può modificare, ma solo riflettere”.
Il lavoro, a questo punto, non è più solo la condanna alla quale l’uomo è stato costretto per la decadenza dalla tradizione, e neppure il valore di esistenza e di rapporto comunitario, ma è diventato una semplice condizione di spazio e di tempo da dedicare all’esigenza inderogabile del profitto e del consumo, in nome della collusione tra tecnocrazia e capitale. L’avvento dell’homo consumans ha decretato la riduzione dell’uomo a strumento della produzione e ad oggetto del marketing, nella perversa circolarità di produrre per consumare e consumare per produrre. Sono passati esattamente quarant’anni da quando uscì L’uomo a una dimensione di Marcuse, ed in questo periodo tre fenomeni hanno determinato altrettante deleterie conseguenze: la rimozione della politica, l’esaltazione della tecnica e la conquista globale del capitalismo sono stati gli agenti patogeni della desanimazione dell’uomo, dell’affarismo planetario e della disintegrazione comunitaria.
L’alienazione ha pienamente trionfato superando i pronostici dello stesso profeta: l’uomo è ormai un essere privo di dimensioni, senza alcun valore identitario, defraudato di ogni soggettività e senso di appartenenza, espropriato da qualunque intenzionalità e finalità progettuale; quest’uomo è solo uno strumento del lavoro a cui risponde secondo le regole della stessa produzione, cioè della sostituibilità e dell’obsolescenza – elasticità del cambiamento secondo i bisogni dell’apparato ed invecchiamento secondo le regole dell’efficienza progressiva. In questa desertificazione di soggettività e di regole antropologiche, nasce il fenomeno del mobbing, e la sua forma organizzata, il bossing.
Violenza del singolo e dell’apparato.
Prima di inquadrare il fenomeno spontaneo e organizzato della violenza sul lavoro, è indispensabile prendere le distanze dal suo abuso linguistico ed interpretativo. Ormai, mobbing è un termine inflazionato come quello di depressione: un contenitore informale nel quale comprimere qualunque disagio personale e qualunque malessere esistenziale. Per evitare pericolose contaminazioni e fuorvianti illusioni, è bene chiarire che mobbing non può essere inteso come una percezione generica d’abuso legata, ad esempio, a normali e corrette riorganizzazioni aziendali o a passaggi di selezione per determinare nuove capacità o competenze emergenti. L’evento vessatorio deve presentare delle caratteristiche definite da precisi parametri comportamentali e psicologici e, soprattutto, dimostrare alcune peculiarità nella figura del mobber, in quella del mobbbizzato e nel contesto d’azione. Se un certo cambiamento era scontato all’interno dei nuovi scenari tecnologici ed economici planetari, bisogna ammettere che una deviazione patologica di questa trasformazione è stata determinata anche da decenni di proterva negazione e da ostinato rifiuto di ogni forma di selezione e di meritocrazia, con la conseguenza che il regista del mobbing, all’interno di una organizzazione aziendale, risulta essere alla fine una persona scarsamente dotata sotto tutti i punti di vista. Nel lavoro, come nella politica, riecheggia la considerazione di Jünger, il quale notava come sempre più persone scialbe e prive di valore detengano posizioni di grande potere: “Uno dei caratteri peculiari del nostro tempo è che le scene più significative sono legate ad attori insignificanti. (…) L’aspetto irritante di questo spettacolo è il legame tra una statura così modesta e un potere funzionale così enorme”.
E’ ovvio che, in una condizione di eccesso organizzativo e di darwinismo sociale, siano privilegiati gli individui con scadente affettività, con elasticità morale, con spregiudicatezza relazionale: sono queste alcune delle indispensabili caratteristiche del leader, che è poi il candidato ideale del regista mobbizzante. Del resto, lo afferma a chiare lettere il prof. Quaglino nella prefazione del libro di de Vries Leader, giullari e impostori: “(…) solo chi è privo di scrupoli morali, chi è pronto a mentire e a farsi strada fino alla vetta con l’imbroglio, chi fa promesse che non potrà mantenere (…) ha un grande vantaggio su quanti sono frenati dal concetto di onestà”. Queste prerogative morali e psicologiche, associate alle scadenti qualità culturali ed intellettuali descritte dalla “Legge di Parkinson” e sottolineate da Serge Latouche – “(…) ciascuno tende a salire nella scala dei gradini fino al momento in cui dimostra la propria incompetenza al livello raggiunto. Allora è troppo tardi per tornare indietro, annullare la promozione e retrocedere l’agente interessato. Egli stagnerà per molti anni in quel posto dove moltiplicherà i guasti senza che si possa sempre porre rimedio –“ sono i criteri indispensabili per inquadrare la figura del persecutore aziendale. Il mobber, per altro, può assumere due aspetti esteriori diversi, a seconda delle sue caratteristiche personologiche e caratteriali: egli può essere l’individuo aggressivo ed arrogante che pratica in maniera esplicita e quasi rivendicativa un abuso costante e reiterato del potere che gli è stato dato in delega, oppure può esercitare una manipolazione subdola, camuffata, insidiosa propria dello “psicopatico predatore” ampiamente ed approfonditamente descritto dalla Hirigoyen.
Quest’ultimo è la figura più pericolosa: mentre il primo, con la sua rozzezza e la sua brutalità è facile da individuare e da isolare, lo psicopatico, invece, si presenta con una “educata” aggressività ed una “sadica” seduzione, quindi facilmente dissimulato e difficilmente identificabile. Il suo vissuto interiore ed il suo comportamento esteriore seguono la regola della scissione: “maggiordomo” ossequioso e servile nei confronti dei detentori deleganti del potere, “mercenario” schiavizzante nell’eseguire gli ordini passando sopra la dignità, le capacità, i sentimenti dei sottoposti. Il mobbing, però, non potrebbe attuarsi, o almeno perpetuarsi, se nel contesto di azione non ci fossero delle comparse di supporto al regista. Il persecutore, in altre parole, ha bisogno delle spalle per rappresentare il dramma persecutorio. Queste comparse si suddividono in due categorie: quella degli sciacalli, corrotti quanto il regista ma per certi versi più vili, che si aggregano al più forte cercando di beneficiare dell’atmosfera predatoria per piccoli benefici e privilegi personali, e quella dei servi, nell’intimo con la meschinità e l’invidia di ogni malriuscito e scarsamente capace, ma senza lo scatto di orgoglio fosse anche quello patologico dell’aggressività.
L’attore principale, il mobbizzato, presenta, a sua volta, delle caratteristiche ben definite, e queste stesse sono la causa scatenante dell’attacco nei suoi confronti. Nella maggior parte dei casi è una persona diligente, efficiente, di grande competenza sia per qualità lavorativa che per creatività intellettuale, con notevole capacità relazionale e di alto livello formativo-culturale; sicura di sé, del proprio ruolo e della propria professionalità, essa manifesta anche doti di empatia e di trascinamento con distinta autorità carismatica. Il mobbizzato rientra in quella categoria dei “primi della classe” che scatenano una doppia reazione: la paura inconscia di confronto da parte del leader e l’invidia mascherata da parte dei colleghi. Viene spontaneo chiedersi come mai un’azienda, invece di accentuare e premiare le risorse dei singoli, tende a soffocarle ed a frustrarle, permettendo l’emergere delle mediocrità o delle figure gruppali, e contemporaneamente accetta la violenza e la sopraffazione di cui è perfettamente a conoscenza. La risposta, articolata e diversificata, risulta piuttosto evidente: da un lato, il moderno mondo del lavoro nega ogni tipo di memoria, di personificazione, di identità, di competenza individuale, e in nome della condivisione, della concertazione, della pianificazione, ogni azione deve essere diluita all’interno di un’adesione diffusa ed orizzontale; dall’altro, le continue riorganizzazioni aziendali hanno bisogno di persone disposte a tutto, che non pensino autonomamente e che conducano a buon fine il lavoro sporco per il quale vengono lautamente pagate. È evidente, poi, che in un contesto più generale di disumanizzazione del lavoro e della vita stessa delle persone, ci siano delle aziende che non solo facciano finta di non vedere le azioni di mobbing al loro interno, ma addirittura lo incoraggino e lo definiscano nel carattere dell’organizzazione stessa.
In questo caso si parla di bossing, una politica aziendale in cui la pratica persecutoria è lo stile dello stesso apparato; tecnicamente, si parla di organising violence, una pressione persecutoria metodica sulle persone per costringerle alla massima efficienza e produttività. Questa peculiarità vessatoria, per altro, è resa attualmente sempre più possibile da certe procedure lavorative – omologazione delle qualifiche, flessibilità oraria, appalti esterni di servizi, flessibilità, lavori di squadra ecc. – che azzerano ogni potere contrattuale, accentano i bisogni di occupazione, precarizzano ogni progetto esistenziale. Il bossing diventerà, fra non molto, il sintomo di un malessere ormai reso endemico da una liquidazione del welfare e da un inselvatichimento sociale. Quest’ultimo, determinato e favorito dai meccanismi perversi del mercato – razionamento delle risorse umane e non, sfruttamento esasperato delle stesse, virulenza del profitto e della produttività, azzeramento di ogni regola economica –, è al tempo stesso causa ed effetto di uno sfruttamento razionale e senza scrupoli, dove ognuno deve sopravvivere sulla pelle e sull’anima del suo prossimo.
Il rischio della manutenzione e la necessità della consapevolezza.
Una delle capacità perverse espresse dalle due pratiche organizzative persecutorie – mobbing e bossing – è quella di colpevolizzare la vittima e di farla sentire causa del disagio provocato: “Sono proprio i soggetti in difficoltà (mobbizzati) ad essere considerati ‘difficili’, ossia all’origine del conflitto” – osserva Marie-France Hirigoyen; per tale motivo, il rischio è quello di accettare la cura psicologica della persona in questione, al fine di rinforzarla sul versante psichico, ma con lo scopo di renderla più malleabile e più compiacente rispetto alla condizione accusata. È scontato che una vittima di mobbing deve essere presa in carico per una valutazione complessiva delle condizioni fisiche – il danno biologico documentato è l’unico presupposto medico-legale per intentare una causa per mobbing – e per un supporto specificamente psicoterapeutico. Una terapia mirata è un presupposto inderogabile per intervenire sul versante dell’ansia e della depressione variamente espresse, e per un’azione di sostegno a quella stima e a quella sicurezza grandemente inficiate da mesi, se non anni, di quotidiane prevaricazioni; perché solo in questo modo si può rendere una persona libera nel suo pensiero, autonoma nelle sue decisioni, determinata nella sua coscienza di sé. Il percorso di cura, sia anche coadiuvato dall’uso specifico di farmaci, non deve però sviare dall’azione politica – nel senso etimologico più elevato del termine – di definire con precisione i termini della vittima e del persecutore, della causa e dell’effetto, del bersaglio e del contesto. Ogni attenzione focalizzata soltanto sulla persona danneggiata dal processo lavorativo non fa che confermare l’idea meccanicista peculiare dell’organizzazione capitalista denunciata da Fromm, che “pensa che gli uomini non siano altro che macchine, le quali abbiano bisogno di un controllo del livello di tensione”.
E’ questo rischio della manutenzione, che scredita qualunque iniziativa aziendale – sportello mobbing, ufficio per la gestione delle risorse umane ecc. – che fornisce i mezzi normalizzatori delle tensioni e dei conflitti per mantenere ben oleato il marchingegno operativo. Ben diversa è l’impostazione terapeutica proposta da Hillman, dove per terapia s’intende l’azione politica sui luoghi del disagio, un processo di consapevolezza nel quale la vittima è il sintomo umano di una condizione alienante e avvilente. In questa prospettiva, il terapeuta non è il controllore del disagio, l’appianatore delle conflittualità, il risolutore delle contraddizioni, ma insieme al paziente-vittima è colui che svela le regole falsate del gioco, delinea la figura del baro e dei suoi complici, studia le modalità di intervento e di emersione delle incompatibilità. Condivisa la prospettiva di Hillman, per il quale “non è più possibile distinguere nettamente tra nevrosi dell’individuo e nevrosi del mondo. (…) situare la nevrosi e la psicopatologia esclusivamente nella realtà personale, si compie un’azione delirante (…)”, allora l’operazione antimobbing assume un significato più complesso e diversificato, passando da una manovra difensiva e accudente del singolo ad una strategia articolata – psicologica, sociologica, legale ecc. –, che attacchi lo stesso condizionamento patologico del sistema.
Consapevolezza condivisa e azione comunitaria sono le due linee-forze sulle quali procedere: consapevolezza condivisa, giacché le vittime denuncianti sono solo la punta emergente di una condizione di malsano adattamento e di ricattatoria rassegnazione, azione comunitaria poiché il malessere deve servire da fulcro per scalzare – o almeno pubblicamente denunciare – una condizione di planetaria servitù. A questo punto sorge sempre, dalla sfiducia, una domanda: “Prendere coscienza e condividere, a cosa serve?”. La risposta è implicita nel valore simbolico nascosto nella domanda. Chiedersi “a cosa serve” una certa azione dimostra la mentalità del servo, di colui che aspetta dal padrone sapere ciò che è giusto, buono, utile, opportuno, adeguato per lui. Coscienza di sé significa diventare padrone delle proprie scelte e, nel mobbing come in qualunque altra circostanza difficile della vita, vuol dire arrivare alla capacità di assumersi pienamente la responsabilità del proprio stare al mondo. Condividere permette, con la testimonianza e l’esempio, di rigenerare quei vincoli comunitari e quelle alleanze di intenti che in ogni dove – dal lavoro alla politica, dalla famiglia alle relazioni amicali – l’omologazione modernista tenta quotidianamente di cancellare.
Adriano Segatori
Fonte:www.centroitalicum.it/giornale_2005/2005_12_segatori.php
dal numero di gennaio-febbraio 2005 di Italicum
*Nato a Monfalcone nel 1951, Adriano Segatori è psichiatra -psicoterapeuta presso il dipartimento di salute mentale di Gorizia. Si occupa con scritti e interventi dei problemi legati al pensiero unico e alle istituzioni totalizzanti. Ha pubblicato:
Il Manifesto della Pshiche. Per una psichiatria e una società senza psicofarmaci (in collaborazione con Marco Bertali e Fabrizio Bertini), Sensibili alle Foglie, Roma 1999; Il suicidio. Eventi e comportamenti, Sensibili alle Foglie. Roma, 2000; La Comunità vivente, Edizioni di Ar, Padova 2002