Il dolore e l’ultimo uomo

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Brevissima premessa: son già due anni che l’umanità tutta è coinvolta direttamente, e non, in una dimensione totalizzante di paura e di dolore. Se la paura è la situazione emotiva originaria che scaturisce da un senso indeterminato di minaccia, il dolore è la minaccia che si realizza: i due elementi sono perciò indissolubilmente connessi.

Nonostante la letalità di quella che viene chiamata pandemia da Covid (la minaccia realizzata) sia particolarmente bassa (neanche sei milioni di morti, quasi tutti oltre 80 anni, su 8 miliardi di individui dopo 2 anni!), il contagio psicologico della paura della morte si è propagato in modo esponenziale a livello globale, tant’è che quasi tutti i governi dei paesi del mondo hanno preso misure draconiane (per lo più inutili) per contenere il contagio del virus, espandendo però nel contempo il contagio del terrore. Sono stati scritti ormai innumerevoli saggi che hanno cercato di spiegare tale impazzimento collettivo. I più dotti hanno fatto riferimento a Le Bon, Freud, Jung, Riesmann, Packard ecc… Si è poi passati alle ricerche di tanti psichiatri: sicuramente i più avveduti fra questi si sono accorti che almeno il 70% delle masse umane si trovano in una dimensione ipnotica creata dai mass-media approfittando della loro dimensione esistenziale dovuta all’inutilità delle loro esistenze vuote, alienate e solitarie. Essi hanno scoperto che tali masse recepiscono una ragion d’essere del proprio “vivere” nell’obbedire senza discussioni (la scienza lo vuole!) alle regole e a provvedimenti amministrativi promulgati da un potere considerato salvifico che ridà loro l’illusione del senso della comunità. Obbedienza che si è trasformata in cecità, in assoluta mancanza di critica, in fanatismo quasi di tipo religioso: il tutto per la salvezza degli altri e di se stessi. Una pura ipnosi di massa ben descritta nei suoi saggi da Mattias Desmet, uno dei principali esperti sulla tirannia del totalitarismo.

Eppure, per quanto considerevoli e profonde siano state queste analisi, esse non sono, a parer nostro, del tutto esaustive, poiché non colgono la radice essenziale di tali comportamenti umani che oggi rasentano per davvero la follia. Come sempre avviene in questi casi bisogna ricorrere ai pensatori inclini a ricercare le essenze concettuali, che sono quelle che cercano di rivelare il perché profondo degli avvenimenti storici e filosofici, soprattutto se si tratta della propria epoca. Uno di questi è sicuramente E. Jünger, il quale in suo famoso saggio, intitolato “Sul dolore” (Über den Schmerz), scritto nel 1934, espresse nel brano iniziale, assai pregnante, qual è il significato profondo del dolore: “Esistono alcuni grandi ed immutabili parametri in base ai quali il valore dell’uomo dà misura di sé. Uno di questi è il dolore; esso è la prova più dura in quella catena di prove che è, come si suol dire, la vita. Una riflessione che voglia occuparsi del dolore sarà perciò probabilmente impopolare; essa però non solo è istruttiva in se stessa, ma getta luce, insieme, su una serie di questioni delle quali ci stiamo occupando in questi tempi: il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore ad esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere. Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei! Il dolore come unità di misura è immutabile, ciò che muta, invece, è il modo in cui l’uomo si pone di fronte a tale unità di misura. Con ogni cambiamento di rilievo nel clima generale muta anche il rapporto che l’uomo intrattiene col dolore”(1).

Come si sa, il dolore è tutto ciò che causa sofferenza: in generale esso può essere sia fisico che spirituale, sebbene talvolta questa distinzione sia solo schematica, in quanto spesse volte la dimensione fisico-corporale si accompagna con quella psichica (Spinoza fu il primo a capirne il parallelismo). Le attribuzioni che qualificano il dolore sono numerosissime. Esistono dolori acuti, ma brevi, cronici ma lievi, insopportabili e di lunga durata, e così via. Quasi tutto il pensare filosofico nel corso della storia si è occupato molto di questo tema: si pensi ad Epicuro e alla sua scuola, agli Stoici, a quasi tutta la filosofia cristiana, a Schopenhauer ed altri, per non parlare delle religioni metafisiche come quella induista e buddhista. Il buddhismo, poi, ha come pilastro fondamentale l’assunto che la vita è dolore e che il dolore è conseguenza della facoltà del desiderare. Tuttavia il pensiero di Jünger coglie un aspetto che va oltre le proposte e i rimedi indicati dai filosofi o da uomini di religione. Egli scrive che “il dolore è una delle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo, ma il mondo stesso”. Il dolore quindi rivela la dimensione intima dell’esserci umano e del suo rapporto con l’Essere stesso; “dimmi il tuo rapporto col dolore e ti dirò chi sei!”. L’essenza del dolore è quindi fondamentalmente ontologica.

Nietzsche affermava che la vittoria su di esso ci può rendere forti, e darci la giusta dimensione della nostra resistenza e della nostra autodisciplina nel sopportarlo: come si dice, i grandi uomini si rivelano nelle grandi avversità. Poi se si dà uno sguardo al passato si nota che tutti i popoli hanno attraversato terribili difficoltà: pestilenze, guerre, fame, sacrifici senza fine. In certe epoche la morte portava con sé l’80% dei bambini prima che questi superassero i 10 anni d’età. Solo i più sani sopravvivevano. Tuttavia da circa due secoli l’atteggiamento verso il dolore è radicalmente cambiato, poiché è mutato “…il rapporto che l’uomo intrattiene col dolore”. A tal proposito Jünger scriverà pensieri molto condivisibili e ormai accettati da tutti, ossia che la moderna sensibilità verso il dolore è dovuta al fatto che essa conviene ad un mondo in cui il valore del corpo è considerato il bene supremo: il dolore va quindi assolutamente evitato “…poiché non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa”(2). Nel mondo presente dominato dalla forma produttiva capitalistica in cui tutto è merce, quantità e profitto, il corpo diventa il bene supremo per ogni singolo: il Singolo di Kierkegaard viene trasformato in un mero accumulo di sangue ed ossa, privo di qualsiasi spiritualità. E’ ormai frequente osservare individui, spesse volte esteticamente brutti e deformati dalle immonde cibarie di cui sono ghiotti, camminare soli in mezzo ai campi o in luoghi isolati bardati da più pezze che coprono il loro volto. Il terrore della morte ne ha pervaso totalmente l’esistenza, sicchè essa è ridotta a pura meccanica fisica. Certamente le migliori condizioni igieniche introdotte già nel ‘700, la rivoluzione sanitaria con la somministrazione di vaccini efficaci, l’anestesia, gli antibiotici, per arrivare fino alla creazione di uno stato sociale sempre più efficiente, almeno fino a pochi decenni fa, ci aiutano a comprendere il motivo che ha spinto i più verso la fede nel progresso e nella scienza. Eppure questi miglioramenti effettivi non si sono legati a corrispettivi vantaggi spirituali. Anzi. Si può notare una asimmetria profonda: tanto più cresce la sicurezza della salute del proprio corpo, tanto più si impoverisce la spiritualità degli uomini. Eh sì che dovrebbe essere il contrario, poiché un maggior benessere fisico dovrebbe favorire una maggior cura della mente, in quanto la cultura dovrebbe essere di più facile accesso. Ciò nonostante da più di un secolo e mezzo circa la regressione spirituale è inarrestabile. Il sacro, il bello, l’etica, il senso della giustizia e della verità, il pensiero profondo stanno scomparendo. Gli uomini hanno ucciso Dio e il senso della trascendenza, e con ciò qualsiasi anelito verso una superiore spiritualità. Lo si constata chiaramente nei nostri giorni.

Comunque fu l’ateo Marx che per primo, nei suoi “Manoscritti del ‘44”, individuò che il sistema di produzione capitalistico generava una alienazione profonda nell’uomo, ossia una auto-estraniazione da sé, che riguardava il proprio lavoro (che gli veniva sottratto), la propria attività (destinata ad altri), la propria essenza, poiché l’uomo nasce per fare un lavoro libero e creativo, e il rapporto col prossimo che diventa sempre più conflittuale perché anticomunitario. L’analisi di Marx era fondamentale, però si trattava per lo più di una analisi socio-economica, pur con aspetti anche idealistici, come sottolineava Costanzo Preve, poiché l’essenza dell’uomo è in effetti sia prassi che teoria. In particolare Marx riteneva che l’alienazione trasmutasse negativamente l’essenza umana sia nella sua creatività, che nel suo senso comunitario: da qui l’origine del degrado. Al filosofo di Treviri, già agli inizi del ‘900, si aggiunsero, pur se provenendo da concezioni culturali spesse volte opposte, le grandi opere di Guènon (Il regno della quantità e il segno dei tempi), Evola (Rivolta contro il mondo moderno), Heidegger (Essere e tempo), Jünger (Il lavoratore), Anders (L’uomo è antiquato), i quali approfondirono quella che è la condizione umana nei nostri tempi. Essi osservarono, in pensieri certamente distinti, ma collegati, che l’alienazione umana è non solo socio-economica ma anche di tipo ontologico spirituale, nel senso che riguardava il rapporto fra il pensiero-Essere e l’ente umano in quanto tale. Soprattutto Heidegger si accorse che stava svanendo sempre più rapidamente la coappartenenza fra essere-pensiero e l’ente umano: l’autocoscienza propria dell’uomo si stava sempre più collassando su se stessa. Nel loro insieme le opere di questi grandi pensatori rivelano i motivi per cui l’uomo moderno occidentale, tutto sommato benestante, si sia staccato dalla sua essenza, che oltre a riguardare la sua capacità creativa, riguarda il suo rapporto con l’Essere, ossia col pensiero e con i sentimenti (l’Essere si manifesta appunto come pensiero, sentimento, tempo, volontà, ecc.) stravolgendo quel legame di coappartenenza di cui si diceva, che lo aveva sempre accompagnato lungo il suo cammino storico.

In “Essere e tempo” Heidegger notò come la paura della morte e del dolore costituissero la situazione emotiva permanente dell’uomo occidentale contemporaneo. Un uomo che cerca in ogni modo di dimenticare il suo insormontabile destino che è quello di morire. Tutto il suo esistere è organizzato per allontanare questo ineluttabile destino: perfino durante i funerali si applaude il defunto per esorcizzarlo. Ciò spinge gli odierni individui umani a vivere in una dimensione temporale imperniata su un presente ripetitivo, inteso come routine, in cui il futuro e perciò anche il passato vengono obliati (la cosiddetta Cancel culture nasce da qui). Una paura che comporta una esistenza totalmente inautentica, basata sulla chiacchiera (il saper tutto senza sapere nulla), sulla curiosità (il vedere tutto senza vedere nulla) e sull’equivoco (la sintesi fra chiacchiera e curiosità, ossia quando vi è il completo smarrimento del proprio io e del rapporto col sé, inteso come Essere). In altre parole l’uomo presente, che vive una esistenza inautentica segnata appunto dalla paura della morte e del dolore, corrisponde a colui che Nietzsche definì l’Ultimo Uomo, che è “il più disprezzabile degli uomini”, una “mosca velenosa” proprio per la sua superficialità e la conseguente miseria spirituale.

Jünger tuttavia riteneva che la profezia nicciana dell’Ultimo Uomo avesse avuto un breve percorso, poiché egli scriveva, sempre nel suo saggio “Sul dolore”, “…che la sua èra è già alle nostre spalle”(3). Due anni prima, quando scrisse “Il lavoratore”(che poi è il tecnico moderno), affermava che fosse questa la nuova figura dominante nella nostra società. La prosperità economica, la libertà di movimento, lo sviluppo favoloso dei mezzi tecnici con la creazione di nuovi confort come l’illuminazione, l’auto, il telefono, il riscaldamento, e così via, convinsero Jünger della ritirata in sordina dell’Ultimo Uomo. Il Tecnico era l’uomo futuro, l’espressione della volontà di potenza della modernità: il dolore di certo non poteva scomparire, ma veniva allontanato e respinto ai margini dell’esistenza per fare spazio ad un benessere sia pur mediocre. “Il segreto della moderna sensibilità” verso il dolore consiste in questo, secondo il filosofo.

Jünger certamente comprese per primo che la tecnica moderna era intrinsecamente nichilista. Tuttavia la realtà di una tecnica livellatrice ed omologante generava di conseguenza anche l’Ultimo Uomo di massa, e perciò tale realtà smentiva Jünger. Un uomo che era di natura trasversale, non appartenente ad una specifica classe sociale, sottolineava ancora Heidegger nelle sue “Conferenze di Brema e Friburgo”; esso era capace di costruire capannoni, industrie, ponti e gallerie, tarantolato da una sorta di delirio anelante al gigantismo, ma che era incapace di costruire un tempio, un palazzo artistico come si faceva nel Rinascimento, una chiesa, o dei portici come si costruivano nel Medioevo. Un uomo che oggi non saprebbe scrivere nemmeno tre righe dei “Dialoghi” di Platone o una terzina di Dante. Se la tecnica moderna lenisce il dolore e prolunga la vita, dall’altro lato ha impoverito la realtà umana nella sua componente spirituale, portando degrado e decadenza. Il macchinismo distrugge di fatto le capacità creative che erano proprie della ragione connessa profondamente al sentimento umano. Nel mondo presente non ci sono più grandi fisici, artisti, filosofi, scienziati: ci sono solo al massimo efficienti tecnici che girano il mondo con la loro valigetta per partecipare a conferenze ed aggiornamenti. Del pensiero profondo si è perso ogni traccia. Perché è accaduto questo (4)? Un perché che è stato svelato dallo stesso Heidegger nel suo ormai celeberrimo saggio “La questione della tecnica” e nei suoi “Contributi alla filosofia”: il trionfo della ragione calcolante, il gigantismo, il macchinismo, la massificazione presentata come democrazia, la pubblicità parossistica sono le principali manifestazioni del degrado. Tutti fenomeni ampliati grazie al Dispositivo o Impianto tecnico (Das Gestell). Il moderno Leviatano si estende su ogni attività umana (oggi in particolare in quella tecnico-sanitaria) sulla spinta di un capitalismo sempre più rapace e plutocratico (vedasi gli attuali profitti spropositati delle multinazionali). Il paradosso è che tutto ciò sta avvenendo con l’indifferenza di una maggioranza plebea che crede ancora bovinamente che i privilegi che le sono stati elargiti a prezzo di dure lotte nel passato, siano definitivamente consolidati.

La tecnica con queste caratteristiche del tutto materiali e meccaniche, proprie della modernità, ha prodotto inevitabilmente a livello sociale il nichilismo completo e passivo, anche perché l’uomo moderno nella quasi totalità è inadeguato ed antiquato rispetto ad essa, per dirla con Anders. Più la macchinazione razionalizzatrice diventa pervasiva al di dentro di ogni meandro sociale, più la mancanza di controllo politico si fa acuto e devastante. Il potere politico mondiale infatti non sa più come affrontare l’aumento della popolazione, l’inquinamento, la corsa alle armi, le disuguaglianze economiche incredibili.

Ma l’Ultimo Uomo, l’uomo che è l’espressione attuale del potere politico e che è il vero nichilista beota infarcito dal politicamente corretto, non si rende conto di niente. La sua semi-cultura, che sarebbe meglio chiamare sub-cultura, lo illude della bontà del suo status. Questo perché la paura della morte lo pervade interamente in ogni suo momento presente. Non credendo a nulla che non sia fuori od oltre di sé, egli fa del proprio io minimo una specie di idolo da conservare ad ogni costo: è un servo che si compiace di esserlo senza saperlo (la famosa figura hegeliana in cui il servo si emancipa viene del tutto respinta). Per cui diventa un essere sostanzialmente vile e tremolante di fronte ad ogni eventuale remota minaccia, e come tale assume connotati inferi che lo spingono verso l’animalesco più prossimo, ossia verso la scimmia di tipo infero, poiché ha abbandonato ogni possibilità di elevazione pur avendone le potenziali facoltà.

Questa è la situazione storica in cui tutti siamo condannati. La domanda, che nasce spontanea è, allora, che cosa fare? Il punto del massimo pericolo è stato raggiunto, ma nessuno, o quasi, a quanto pare, reagisce. Per cui forse è meglio domandarsi che cosa non fare. Non fare come l’Ultimo Uomo può essere già un inizio di un grande programma.

Note:
1) E. JÜNGER, Sul dolore, sta in “Foglie e pietre”, Adelphi ed., Milano 1997, pp. 139-140.
2) IDEM, p. 149.
3) IDEM, p. 149.
4) Vedasi il mio saggio, “Sull’abbandono dell’essere”, ivi pubblicato nell’aprile del 2018.

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