DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Elsa Fornero ha perfettamente ragione: non esiste alcun
diritto al lavoro. Questo tipo di diritti, come quello alla
salute o alla felicità, appartengono alle astrazioni della
Modernità che nulla hanno a che fare con la vita reale. Sono
diritti impossibili perché nessuno, foss’anche Domineddio, può
garantirli. Esiste, quando c’è, la salute, non un suo diritto.
Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo,
un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo
felicità, non il suo diritto. Così è inutile sancire il diritto al
lavoro se in una società il lavoro non c’è.
Ciò che in una società
moderna possiamo pretendere è un’altra cosa: l’assicurazione,
da parte della collettività, di una vita dignitosa anche per chi il
lavoro non ce l’ha e non lo può trovare.
L’articolo I della Costituzione afferma solennemente:
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Questo articolo è espressione delle culture liberiste e
marxiste che, assieme a quella cattolica (che peraltro del
lavoro ha una concezione molto diversa) hanno contribuito
a redigere la nostra Costituzione. Il lavoro diventa infatti un
valore solo con la Rivoluzione industriale di cui queste
culture, prettamente economiciste, sono figlie. Per Marx il
lavoro è “l’essenza del valore”, per i liberisti è esattamente
quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso
“plusvalore ”. In epoca preindustriale il lavoro non è un
valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e
contadini lavorano per quanto gli basta. Il resto è vita. Non
che artigiani e contadini non amassero il proprio mestiere
(che è qualcosa di diverso dal “lavoro ”tanto che c’è chi
dubita che in epoca preindustriale esistesse il concetto
stesso di lavoro come noi modernamente lo intendiamo –R.
Kurz, “La fine della politica e l’apoteosi del denaro”),
certamente lo amavano di più di un ragazzo dei call-center,
di un impiegato, di un operaio che, a differenza del
contadino e dell’artigiano, fanno un lavoro spersonalizzato
e parcellizzato, ma non erano disposti a sacrificargli più di
quanto è necessario al fabbisogno essenziale.
Perché il vero valore, per quel mondo, era il Tempo. Il Tempo presente, da vivere “qui e ora”e non con l’ansia della “partita doppia”
del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro.
Questa disposizione psicologica verso il lavoro era
determinata dal fatto che in epoca preindustriale, come ho
già avuto modo di scrivere, non esisteva la disoccupazione.
Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino
che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a
pietire un’occupazione qualsiasi da quella bestia moderna
chiamata imprenditore. “L’Italia è una Repubblica
democratica fondata sul lavoro”.
In realtà, come ogni Paese
industrializzato, è fondata sulla schiavitù. Perché siamo
tutti, o quasi, come scriveva Nietzsche, degli “schiavi
salariati”. A differenza dell’artigiano e del contadino la
nostra vita, la nostra stessa sopravvivenza, non dipende più
da noi, ma dalla volontà e dagli interessi altrui. Il Primo
Maggio noi celebriamo, senza rendercene nemmeno più
conto, la Festa della nostra schiavitù. C’è da aggiungere che
noi moderni abbiamo utilizzato nel peggiore dei modi le
straordinarie tecnologie che pur proprio noi abbiamo
creato. Oggi le macchine potrebbero lavorare per noi. Ma
invece di utilizzarle per liberarci da questa schiavitù,
costringiamo gli uomini, sostituiti dalle macchine, a cercare
altri lavori, più infimi e disumani e sempre che li trovino.
Ecco perché nasce il “diritto al lavoro”. Paradossale perché
in realtà è un ‘diritto alla schiavitù’.
Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
30.06.2012