DI DOUGLAS RUSHKOFF
thedailybeast.com
Negli ultimi dieci anni la tecnologia ci ha cambiato il cervello, in gran parte in peggio. I risultati fanno abbastanza paura. Non solo i computer hanno cambiato il modo in cui pensiamo, ma hanno anche scoperto cosa fa pensare gli esseri umani, o cosa ci fa pensare di stare pensando. Almeno abbastanza da poter prevedere e perfino influenzare quello che pensiamo. Ecco quattro cose che una persona con un po’ di discernimento dovrebbe sapere del decennio in cui i computer hanno preso il controllo del nostro processo cognitivo.
Google ci ha reso stupidi
La maggior parte delle notizie su come il nostro cervello è stato condizionato dall’uso della rete viene raccontato nei toni ottimistici di Google. Come ha scoperto il dottor Gary Small, neurobiologo del Comportamento Neurologico presso l’Istituto Semel dell’Università di Los Angeles, una scansione del cervello di una persona che fa ricerche sul web si illumina in più zone rispetto a quelle coinvolte nel cervello di chi sta leggendo un libro. L’interpretazione che è uscita nei titoli dei giornali? Che Google ci rende più intelligenti. Ma quando poco tempo fa ho interrogato il dottor Small sulla questione, lui si è subito dissociato da questa conclusione: “Be’, sa – mi ha detto – in una scansione del cervello, grosso non significa necessariamente migliore”. Emerge che è piuttosto il contrario. Il cervello che legge potrebbe essere meno illuminato perché sta lavorando in modo più efficiente. “Voglio dire, non è che perché il cervello si sta comportando in modo più efficiente significa che stia lavorando in modo più povero”. In qualità di scienziato fra quelli che più hanno studiato gli effetti dell’uso della rete sul nostro cervello, il dottor Small non è nemmeno tanto convinto che ci siamo potenziati, men che meno dal punto di vista neurologico. Sì, la nostra interazione con la tecnologia provoca un cambiamento nella neuroplasticità del nostro cervello, un cambiamento fisico, ma non necessariamente in meglio. “C’è un certo fondamento nell’idea che Google ci renda stupidi, che stiamo diventando meno riflessivi. Si è creata una sorta di ritmo staccato nel nostro modo di pensare – non rallentiamo e non andiamo in profondità nelle questioni. Invece, ci spostiamo da un quesito all’altro sull’onda del momento”. E naturalmente, per quel che concerne il marketing, ciò che ci rende stupidi fa bene agli affari.
Multitasking e distrazione
Come molti altri entusiasti della prima ora, ho sempre pensato che il fatto che Internet incoraggiasse il multitasking rendesse noi utenti meno vulnerabili alla manipolazione, e contemporaneamente sfruttasse di più le potenzialità del nostro cervello. Invece pare di no. Cliff Nass, direttore del CHIMe Lab, il laboratorio sulla Comunicazione fra Umani e Media Interattivi dell’Università di Stanford, ha studiato i migliori multitasker sulla faccia della Terra: gli studenti di college. “Come fanno? Il loro cervello lavora in modo diverso?”. Anche lui è rimasto scioccato dai risultati della sua ricerca. “Ne emerge che i multitasker sono tremendi in ogni aspetto del multitasking. Non riescono a ignorare le informazioni irrilevanti, non riescono a tenere a mente le informazioni in modo ben organizzato, e fanno fatica a passare da un’attività all’altra. E questo ci ha scioccato.” Nass ha suddiviso i suoi soggetti in due gruppi, quelli che fanno regolarmente molto multitasking sui media, e quelli che non lo fanno spesso. Quando hanno fatto dei semplici test per paragonare degli assortimenti di forme, i multitaskers erano molto più distratti dalle forme casuali e non erano in grado di determinare quali dati fossero rilevanti per il compito che dovevano svolgere in quel momento. E il fatto che non riuscissero a ignorare i dati irrilevanti non significa che fossero più bravi a immagazzinare e organizzare informazioni. I risultati dei loro test erano peggiori sia nella scelta che nella memorizzazione dei dati. Allora cosa significa, visto che noi multitasker ci inganniamo pensando di essere competenti quando invece non lo siamo? “Se il multitasking danneggia la loro capacità di assolvere a queste semplici funzioni”, spiega piatto piatto il dottor Nass, “la vita diventa difficile. Alcuni dei nostri studi mostrano che la loro capacità di ragionare in modo analitico è peggiore. Ne siamo scioccati. Loro sono convinti di essere bravissimi.” Così, non solo siamo stupidi e vulnerabili online, ma contemporaneamente pensiamo di essere invincibili. E quell’atteggiamento, dicono le nuove ricerche sul cervello, ha conseguenze massicce sulla vita reale.
Impiantare falsi ricordi, portare via quelli veri
Al laboratorio sull’interazione fra umano e virtuale della Stanford sono andato a trovare uno psichiatra che si chiama Jeremy Bailenson, che ha studiato il modo in cui le esperienze virtuali vengono immagazzinate nel cervello. Lavora con persone coinvolte in simulazioni virtuali come Second Life, e osserva come queste si riflettono poi nella vita reale. Ha scoperto che le aree del cervello responsabili della memoria non riescono bene a distinguere se un particolare avvenimento è accaduto nel mondo reale o in uno virtuale. In altre parole, proprio come può capitarci di svegliarci da un incubo restando arrabbiati tutto il giorno con la persona che ci ha fatto torto in sogno, tendiamo a ricordare e ad agire sulla base delle nostre sperienze virtuali come se queste fossero realmente accadute. Da un lato, questo costituisce una straordinaria modificazione del comportamento. Ho assistito mentre Bailenson faceva sedere una donna su una sedia facendole simulare un pasto nella realtà virtuale. Mentre lei mangiava, il suo avatar lentamente ingrassava, riprogrammando la comprensione che il suo cervello aveva dell’effetto delle sue abitudini. Naturalmente, in teoria qualunque di queste tecniche potrebbero essere usata a favore o contro i nostri migliori interessi. In un altro studio, Bailenson ha scoperto che “avere dieci centimetri in più di altezza triplica le probabilità di picchiare qualcuno in un confronto nella realtà virtuale”. Ma non è questa la parte più strana. Tornando al mondo reale, “a prescindere dall’altezza vera, mi picchierai lo stesso se dovessimo avere un confronto. Questo ci ha lasciato di stucco. Una piccola esposizione nella vita reale si trasporta anche nel nostro comportamento faccia a faccia”. La cosa più strana di tutte è che Bailenson ha fornito ad alcuni bambini un’esperienza di realtà virtuale come se avessero nuotato con delle balene, e due settimane dopo ha fatto loro delle domande in proposito. Metà di loro era convinta di essere veramente stata a Sea World a nuotare con le balene. Qua si sta parlando di ricordi impiantati nella memoria. Bailenson ha scoperto il Sacro Graal per coloro che cercano una tecnologia affidabile per controllare la mente. Gli ho chiesto se la cosa lo spaventi. Lui ha detto, “la vedo solo come la direzione in cui stiamo andando”. Non sorprende che l’esercito americano sia in prima linea in queste scoperte e abbia propri laboratori in cui studia come applicare queste tecniche sia sul campo di battaglia che sui reduci traumatizzati. Le simulazioni virtuali permettono a chi soffre di stress post-traumatico di ri-sperimentare gli eventi che li hanno sconvolti per poi lentamente desensibilizzarsi al loro impatto atrarverso ripetute reinvenzioni che coinvolgono non soltanto la vista e l’udito, ma anche l’odorato. Ho provato io stesso una di queste sessioni in un laboratorio finanziato dall’esercito a Marina Del Rey, in California, sostituendo il ricordo di un incidente letale di quando avevo 20 anni e combattevo in Iraq, e la vividezza di quelle emozioni mi ha raggelato. L’esercito sta anche cercando un modo per applicare questa tecnologia prima che avvengano i fatti, essenzialmente inoculando nel cervello dei soldati il trauma della guerra in anticipo.
Neuromarketing
Mentre lo sforzo per sfruttare la tecnologia per addestrare il cervello umano risale a molto prima del 2000, è stato solo in questo decennio che gli scienziati, e i professionisti per cui essi hanno lavorato – hanno avuto dati affidabili su come il nostro cervello risponde ai propri sforzi. E’ successo quando il BrightHouse Institute ha cominciato ad applicare a soggetti-cavia i macchinari per la risonanza magnetica che si usavano all’Emory University Hospital per le vittime di infarto. Su richiesta di clienti come la Coca-Cola, Kmart e Home Depot, il BrightHouse ha messo delle persone nei macchinari mentre le esponeva a pubblicità, packaging e perfino candidati politici, misurando poi la reazione delle varie parti del cervello per valutare le loro reazioni. Sebbene la scienza resti relativamente grossolana, il monitoraggio tramite risonanza permette agli studiosi e ai ricercatori di marketing di osservare quali parti del nostro cervello si attivano quando veniamo esposti ai loro prodotti e suggerimenti. Se si tratta della stessa parte che si illumina quando pensiamo a del sesso ben fatto, viene considerato un successo. Più dati accumulano questi signori, e più automatico appare loro il nostro procedimento cognitivo di tipo alto.
Anni fa sono emersi innumerevoli libri sulla nuova scienza della mente che sostengono che il processo di decisione degli esseri umani accade in un battere di ciglia nell’inconscio, come quello dell’occhio di un rettile. Non solo ci stavano studiando per capire come funziona il nostro cervello, ma questo non aveva importanza a livello etico perché tanto, come stava saltando fuori, i nostri cervelli in realtà comunque non pensano. Nel frattempo, i ricercatori discendenti dell’industria del marketing diretto hanno trovato nella tecnologia un nuovo modo per conservare traccia di milioni di consumatori nei loro database. Invece di analizzare le nostre preferenze individualmente, le aziende come Acxiom e Claritas hanno usato il loro nuovo potere di analisi per individuare delle correlazioni fra tutti i dati. Se i bevitori di Coca-Cola mancini, proprietari di gatti, che facevano più di otto miglia per recarsi al lavoro in un’auto a due porte, rispondevano meglio agli spot sulla birra rispetto a quelli che guidavano auto a quattro porte, gli analisti del mercato avevano un’informazione che si poteva usare. I computer li hanno poi aiutati a creare tutte queste correlazioni, e il nostro utilizzo di tutto ciò che va da Gmail a facebook fornisce loro altri innumerevoli terabyte di dati rispetto a quanti ne abbiano mai avuti a disposizione prima. Ognuno di noi non è più una persona, ma uno dei tanti possibili modelli sovrapponibili. Una volta che essi conoscono il tuo modello, non hanno che da infilare qualcuno del modello simile al tuo in una macchina per la risonanza magnetica, capire come reagisce, e poi applicare anche a te quello che ha funzionato con lui. Se tutti questi sviluppi, sia psicologici che commerciali, possono far sembrare il Manchurian Candidate un gioco da ragazzini, non sono tanto sicuro che il decennio in cui la tecnologia ha conquistato il cervello sarà necessariamente seguito da un decennio in cui sfrutteremo tutte queste scoperte con successo. Il cervello è un organo complesso e adattabile. Pur con tutta la “neuroplasticità” che gli permette di riconfigurarsi secondo i condizionamenti dei nostri computer, siamo altrettanto neuroplastici nella nostra capacità di riprenderci e di adattarci. Agli albori del cinema, la gente saltava sulla sedia per paura che il treno sullo schermo arrivasse in sala e li investisse. Pochi anni dopo, quella che era sembrata una vera minaccia è stata riconosciuta come un’illusione bidimensionale. La nostra biologia potrebbe dimostrarsi più agile dei nostri software. E se non succederà, se non altro probabilmente non ce ne accorgeremo.”
Versione originale:
Douglas Rushkoff
Fonte: www.thedailybeast.com
Link: http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-12-13/the-decade-google-made-you-stupid/full/
13.01.2010
Versione italiana:
Fonte: http://mir.it/servizi/
Link: http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/alaska/?p=1149
Dicembre 2009