IL DARFUR, IL PETROLIO E NOI

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La questione dell’oro nero dietro al conflitto nel Sudan meridionale

DI SABINA MORANDI

Mentre il circo mediatico si predispone ad allestire la solita replica nella nuova esotica ambientazione del Darfur è forse di qualche interesse fare il punto della situazione. Due o tre cose che, insieme alle decine di migliaia di morti e al milione e passa di sfollati, sono l’unica cosa vera nella sarabanda di menzogne e di lacrime di coccodrillo che alimentano il colonialismo umanitario datato Terzo millennio.
Com’è noto, nel 2004, il fardello dell’uomo bianco si chiama petrolio. La produzione petrolifera sudanese è in costante crescita, cosa che rende appetibile questo remoto paese africano. Ecco perché la guerra ventennale fra i ribelli del Sudan people’s liberation movement/Army e il governo di Khartoum diventa improvvisamente interessante per la comunità internazionale. Dal febbraio 2003 nel Darfur altri due gruppi ribelli – l’Esercito/movimento di liberazione del Sudan (Sla/m) e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem) – combattono contro il governo centrale, accusato d’averli estromessi dalle trattative di pace e di sostenere le milizie arabe janjaweed, responsabili di violenze contro la popolazione nera in Darfur. Punto focale delle trattative la spartizione dei proventi petroliferi dei giacimenti del Sudan meridionale. Chi ci guadagna? Praticamente tutti. Come scrive Francesco Terreri, collaboratore di Nigrizia, in un’analisi pubblicata da Microfinanza: «Mentre nel Darfur infuriano le violenze, c’è chi con il regime al potere in Sudan fa buoni affari in campi come il petrolio, le armi, le tecnologie sensibili: dalla Cina alla Malaysia, dall’Iran alla Russia, dal Canada alla Gran Bretagna. E, non per ultima, all’Italia, che risulta il terzo cliente della produzione petrolifera sudanese».

L’Italia, con l’Eni, fu tra i primi paesi ad effettuare ricerche nel paese, negli anni ’50. Si trovarono i primi giacimenti, che però non riuscivano neanche a soddisfare il mercato interno. Bisogna aspettare il 1999 perché il Sudan diventi un paese esportatore, quando cioè prende il via lo sfruttamento del più importante bacino estrattivo, quello di El Muglad, 800 chilometri a sud-ovest di Khartoum. La prima coalizione d’interessi vede protagonista il consorzio cinese-malaysiano Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc), che detiene complessivamente il 70 per cento del capitale. La compagnia statunitense Chevron, così come l’italiana Eni, abbandonano, lasciando spazio a una società privata canadese, la Talisman Energy, che subentra con il 25 per cento, con il restante 5 per cento in mano alla governativa Sudapet. Gli Emirati Arabi, tra i primi investitori nel paese, costituiscono una sorta di “centro di servizi” che si occupa del collocamento dei prodotti petroliferi sul mercato. Di fatto circa un terzo delle importazioni negli Emirati vengono riesportate, in diretta concorrenza con le grandi imprese statunitensi. Da qui deriva l’interesse relativamente nuovo di Washington che ha fatto della dottrine del controllo globale del petrolio il caposaldo della sicurezza nazionale.

L’Italia, fra i primi paesi a effettuare prospezioni in Sudan, abbandonò la partita nel ’99, quando Agip Sudan venne messa in vendita. Da allora si è ritagliata un ruolo importante di acquirente – oggi l’Italia è il terzo acquirente di petrolio sudanese – e come fornitore di attrezzature militari. Dal petrolio Khartoum ricava più di un miliardo di dollari l’anno, buona parte dei quali vengono reinvestiti in spese militari. Ed è in quest’ambito che entrano in scena i compatrioti.

Secondo quanto scritto da Francesco Terreri su Microfinanza, «l’Alenia Marconi Systems, joint venture tra la britannica Bae Systems e l’italiana Finmeccanica, ha fornito all’autorità di aviazione civile sudanese attrezzatura radar nell’ambito di un programma di implementazione del sistema radar civile. Dopo la fornitura della strumentazione per l’aeroporto civile della capitale, la seconda fase prevede ora l’installazione di radar di sorveglianza e controllo del traffico aereo in aeroporti del nord, del centro e del sud come Port Sudan, El Obeid, Juba». Quest’ultima località ospita un aeroporto internazionale, ma è attualmente in piena zona di conflitto e registra quindi un traffico prevalentemente militare.

Nella vendita di questo tipo di tecnologie l’Italia si preoccupa ben poco del doppio uso – civile o militare – che ne può essere fatto, e questo malgrado una legge dello stato – la 222/92, ora inglobata in una direttiva Ue, approvata proprio per regolare l’esportazione di prodotti a elevata tecnologia e per evitare, attraverso controlli sull’effettiva destinazione d’uso, che vengano impiegati, tanto per fare un esempio, per migliorare la precisione degli elicotteri che vanno a bombardare i villaggi dei contadini. Il luoghi come il Darfur, tanto per dirne una. Ma il governo italiano, in particolare il ministero delle Attività Produttive titolare del commercio estero, non ha ritenuto opportuno effettuare contestazioni.

Sabina Morandi
Fonte:www.liberazione.it
10.12.04

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