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DI MIGUEL MARTINEZ
Kelebek

Fatima Omar Mahmoud al-Najjar, Fatima, la figlia di Omar, figlio di Mahmoud il Falegname, quel viso solcato da un amore faticoso e saggio che è di tutto il nostro sud, da Oaxaca all’Afghanistan.

Lei è del Campo di Jabaliya.

Sessantaquattro anni, vuol dire che è nata nel 1942 o giù di lì.

Non dicono dove sia nata, ma si può immaginare in uno dei quattrocento villaggi palestinesi livellati dopo l’invasione.

Certamente veniva dal sud.

Forse da Zayta, dove oggi rimane solo un pozzo; o Barqusya, dove restano alcune tombe tra l’erba secca; o Dayr Nakhkhas, il Monastero del Ramaio, con quattro sassi ai venti; o al-Sawafir al-Sharqiyya, dove dicono che in quello che era l’orto della famiglia al-Buhaysi, sia rimasto ancora in piedi un vecchio sicomoro.Non lo so.

So solo che Fatima deve essere scappata che aveva più o meno sei anni, con qualche straccio di giocattolo in mano, forse un asino e una grossa chiave di quelle che facevano a mano.

A Jabaliya, sono in centomila, su un paio di chilometri quadrati di cemento, tra i rifiuti e le bombe. Nell’ottobre del 2004, in un giorno, morirono in cento lì dentro, e venti erano bambini. L’operazione portava il nome di “Giorni di Penitenza”, e c’è poco da aggiungere.

Repubblica oggi ci porta il racconto di Fatheya, la figlia di Fatima.

“Cercavamo vendetta.
Loro, gli israeliani, ci hanno distrutto la casa, hanno ucciso suo nipote, mio figlio. Hanno ferito un secondo nipote che ora gira su una sedia a rotella senza più una gamba. Volevamo fare qualcosa, reagire, placare tutto il dolore che ci portiamo dentro.”

Madre e figlia ci riflettono. Ne discutono per ore, forse giorni. I ricordi delle cannonate su Beit Hanun dove stava dormendo un’intera famiglia di 18 persone, tra cui molte donne e bambini, sono ancora vivi. Fatheya ha perso un figlio. Fatima un nipote. L’altro nipote si è salvato per un soffio. Aveva una gamba maciullata dalle schegge dei colpi di mortaio. Rischiava la cancrena, i medici hanno dovuto amputare. E ora si trascina su una sedia a rotelle. Dentro la nuova casa, da altri parenti.

“Mia nonna”, racconta ancora Fatheya, “alla fine prende una decisione. Io l’assecondo. Decidiamo di farci esplodere. Vogliamo morire come martiri, vendicare la morte del nostro piccolo. Andiamo alla moschea, spieghiamo quello che vogliamo fare. Molti fanno resistenza. Ma noi ci imponiamo.

Pretendiamo giustizia e pretendiamo di ottenerla nel modo che consideriamo più giusto. Alla fine, la nostra richiesta è accettata. Ma lei, mia madre, decide di fare da sola.”

Le missioni suicide prevedono un rito particolare. Ci si prepara spiritualmente, ci si lava, si indossano i migliori vestiti, si lascia una sorta di testamento, si regista un video che resterà a futura memoria. C’è il proclama, il saluto ai parenti e agli amici, l’obiettivo da compiere e i motivi per cui si va a morire suicidi.

Fatima Omar Mahmoud al-Najar [sic] segue tutta la trafila con impegno e scrupolo. Indossa i vestiti che qualcuno le ha preparato, si stringe la fascia verde e bianca di Hamas [in realtà dei Kata’ib al-Qassam, come si vede dalla foto, ndr] sulla fronte, imbraccia il fucile mitragliatore, guarda la videocamera e spiega il senso della sua missione.”

Ieri, centinaia di carri armati degli invasori circondano Jabaliya, che viene bombardata per ore.

Prosegue il cronista:

“Nonna Fatima è già in viaggio verso la morte. Avanza a piedi, lungo uno sterrato che si apre su un campo pieno di buche provocato dalle bombe e dai mortai. I soldati sono a poche centinaia di metri. Le ordinano di fermarsi. Capiscono che indossa un corpetto esplosivo. Lei continua a camminare. Adesso è a poche decine di metri. Le lanciano contro una granata, poi sparano altri colpi. Fatima salta in aria. Tre soldati vengono feriti dalle schegge. Ferite lievi. Della nonna-kamikaze restano solo pochi brandelli.”

Miguel Martinez
Fonte: http://kelebek.splinder.com/
Link: http://kelebek.splinder.com/1164366082#10011759
24.11.2006

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