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La Redazione

 

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IL “COMPAGNO TREMONTI” E LA “SINISTRA FINANZIARIA”

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A cura di Davide
Il 11 Settembre 2009
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DI CLAUDIO MOFFA
claudiomoffa.it

La sinistra che non c’è . Vent’anni di politica di destra del centrosinistra,
a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi
anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e
la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo
alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della
produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti
chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa
ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.

Iniziamo con la seconda questione, non solo perché probabilmente è la
radice ultima della prima, ma anche per essere stata riportata alla luce dagli
ultimi due interventi di Tremonti. Il primo è quello alla festa di Comunione e
Liberazione di Rimini di fine agosto.

Un discorso eccezionale e coraggioso,
quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della
“destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori
agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della
possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure
con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto
sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha
detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi
imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le
principali responsabili della crisi planetaria odierna. Una verità, ha aggiunto
il ministro, che ”non ve la raccontano i banchieri, quelli che frequentano il
sinedrio” .

Solo belle parole? Non si direbbe: non solo perché altre parole di Tremonti,
quelle al G8 de L’Aquila sul “colpo di manovella”, hanno avuto un seguito
concreto, cioè a dire la violazione di una parte almeno dei “segreti bancari”
dei paradisi fiscali Svizzera compresa, ma anche perché anche nelle sue
ultime esternazioni al G20 del 6 settembre – dunque non in un incontro
culturale, ma in una sede intergovernativa dotata di potenziale decisionalità
politica – il ministro dell’economia del centrodestra è tornato ad attaccare le
banche, accusate sia di fare poco per la fuoriuscita dalla crisi nonostante i
grandi benefici di cui hanno goduto, sia di pretendere di comandare sui
Governi e sulla Politica. Parole forti, tanto da suscitare critiche nel’area
governativa, almeno a giudicare dagli articoli di Forte e Pomicino su il
Giornale del 7 e 8 settembre: perché il centrosinistra le ignora, perché non
rilancia la sfida invocandone il passaggio ai fatti e incalzando così il governo?
Parlate dell’esempio Roosevelt? E allora perché non operate di conseguenza?
Perché l’opposizione non incalza costruttivamente il governo su questo
terreno cruciale per la giustizia sociale e il benessere dei cittadini a reddito
fisso?

La risposta à per me abbastanza semplice: non solo perché in questi tempi
di scontro frontale eterodiretto la leadership del centro sinistra non vuole
dare spazio ad critiche costruttive, ma anche perché il capitale finanziario
e tutto quel che ruota attorno ad esso è tradizionalmente al di fuori
delle competenze intellettive e dei programmi della sinistra: resta
una zona d’ombra, un tema “di destra”, un argomento tabù,
tale o
per convenienza “tattica” – in Italia ad esempio i legami col carro mediatico di
De Benedetti, la tessera numero 1 del PD – o, e questo vale soprattutto per i
“rivoluzionari”, per una radicata tradizione marxista che si pretende
ortodossa e per la quale il capitale finanziario sarebbe (udite udite!) un
capitale assolutamente marginale e subalterno rispetto a quello “vero”, che è
quello industriale, perché solo nel “processo produttivo” l “astratto” e
“inesistente” 2 capitale-gruzzolo si “invera” e diventa tale sfruttando il
pluslavoro operaio. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come
capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto
nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non
sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non
“principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica
controparte del “proletariato” – cioè a dire delle forze produttive che,
entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla
“rivoluzione” – sono i capitalisti industriali.

Il Marx astratto de Il Capitale

E’ così? Oso dire, facendo sponda difensiva su Franz Mehring per il quale
“il Capitale non è una Bibbia contenente verità immutabili”, che da una
parte questa tesi pecca di astrattezza, e dall’altra che in Marx si ritrovano altre
sensibilità e altri approcci alla “sfera della circolazione”, fondate non su quel
“metodo logico-deduttivo” che secondo Bohm-Bawerk lo avrebbe guidato
nella stesura de Il Capitale – opera forse non a caso non conclusa da Marx ma
da Fredrich Engels, e solo nel 1894 – ma su una lettura “empirica”, tipica di un
approccio sociologico-giornalistico. Meno coerente dal punto filosofico-
astratto ma più aderente alla realtà. Cioè più scientifica.

Cominciamo dal primo punto. La breve citazione di Marx prima
riportata ha delle conseguenze paradossali
per quel che riguarda la
capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili,
bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo
quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera
della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante –
è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3)
incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo
produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.

Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il
commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”,
completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal
punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta
sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il
commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale”
che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per
tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è
cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di
produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione,
ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di
agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di
capitalisti”. Nessuna autonomia vera, dunque, nell’imposizione
dei tassi bancari e usurari,
perché essi sono “incapaci” di profitto
autodeterminato e solo partecipano in modo subalterno a quello estorto dai
capitalisti industriali ai lavoratori. Il capitale finanziario non è un possibile
concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte
appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche),
ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti
ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale
mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato
“costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso
meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul
denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del
capitalista industriale questi è talvolta se non spesso in conflitto con essi,
quando chiede prestiti per salvare o migliorare la sua azienda?

Il Marx giovane e sociologo-giornalista de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Si dirà: ma forse l’epoca di Marx era diversa, la rivoluzione industriale
avviata già alla fine del XVIII secolo aveva mutato radicalmente i rapporti fra
il vecchio capitale mercantile e appunto quello, in crescita esponenziale,
dell’industria. E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e
finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla
morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?

Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx
dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e
là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso,
giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della
storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina
di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana
(1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:

“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte,
accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all’Hôtel de
Ville, lasciava cadere queste parole: “D’ora innanzi regneranno i banchieri”.
Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una
frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di
foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi;
insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul
trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal
ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industrial
formava una oparte dell’opposizione ufficiale …

….Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava
l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri
organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, andava
ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al Café-Borgne, l’identica
prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire
non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già
creata …

La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola
borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si
rivoltava. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs,
rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva,
con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato”
5

Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di
articoli per la Neue Rheinische Zeitung:

Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a
quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe
operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding –
diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson –
teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura
anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione
del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di
produzione capitalistico … una contraddizione che si distrugge da se stessa,
che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso
una nuova forma di produzione” 6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria”
poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come
oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della
rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e
arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici
residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.

Al contrario, nelle Lotte di classe … emerge un Marx giovane,
che non gioca ancora in Borsa come più tardi a Londra: un
intellettuale ribelle alla sua tribus di appartenenza (si ricordi la
Questione ebraica del 1843), e che – sia pure nella fugace brevità
di una cronaca della rivoluzione – vede un’alleanza di fatto fra
classi produttrici, operai e industriali, contro la rapace e
sanguisuga aristocrazia della finanza franco-cosmopolita con il
suo regime autoritario e la sua stampa falsamente “libera” e
ingannevole. Questa era la lettura della rivoluzione del 1848 di
Marx. Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista
della Politica e della Storia della Francia di Filippo II,
e che per
questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson
Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice
culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di
pensiero marxista:

“Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del
capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre
nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione,
situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel
che riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare,
uomini che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria … Ogni
grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o una grande
fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti deve ricevere il benestare e
l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza … Creare nuovi
debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli
fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la
loro profittevole attività.
Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte
dell’imperialismo … Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o
qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica, che non sia utile
per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova
spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico” 7

Di queste riflessioni però, nell’area “marxista” postbipolare rimane
pressoché nulla. I “marxisti” di oggi pensano solo ad aiutare Repubblica a
rovesciare con un colpo di stato mediatico-giudiziario Berlusconi, una sorta di
Tengentopoli bis in soccorso dei “compagni” banchieri e finanzieri. Non è
fenomeno di oggi: quando fu fondata Liberazione caporedattore fu nominato
Francesco Fargione il quale sul neo-quotidiano del PRC, un giorno sì e l’altro
pure, sparava a zero contro Andreotti e inneggiava a Di Pietro, a sua volta
lanciato da Repubblica come il salvatore della patria. Riflettere e far riflettere
perciò su Tangentopoli – su Craxi in Tunisia e Andreotti sotto processo per
motivi essenzialmente politici: Sigonella – era impossibile: ci sarebbero voluti
dirigenti capaci di sganciarsi dal ricatto dei rubli dell’URSS al PCI, per cercare
di fare delle pur solo accennate riflessioni di Libertini su Tangentopoli,
appunto, la linea del Partito: un fatto, i rubli al principale partito comunista
dell’Occidente, di una banalità e normalità sconvolgente, come i dollari della
CIA alla DC ammessi da Cossiga.

Ma torniamo alla questione del capitale finanziario: nel 1996
scrissi un intervento su L’Ernesto uno dei cui paragrafi, dedicato
appunto a questo problema (avevo un paio di anni prima
partecipato a un convegno all’Università di Teramo, in occasione
del centenario del III Libro: 1994, con una relazione su “Il III Libro
alla verifica empirica della storia” 8) proponeva la questione oggi
cruciale degli statarelli e dei paradisi fiscali: “Chi mai oserà
violare le “indipendenze” delle Bahamas e del Liechtenstein, per
difendere il potere d’acquisto dei redditi fissi di operai e
impiegati?” 9. Ora la risposta ce l’ho:
non certo i rifondaroli e la loro
variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi
fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si
trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il
problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del
necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul
capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della
democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.

E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di
imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi
economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad
esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni
autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media,
i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione
“progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del
capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la
colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari
compresi. Dove è finito il malloppo?
Chi utilizzerà quella enorme
montagna di denaro, e per quali scopi, per quali fini politici? James Petras ha
ipotizzato una interpretazione iperbuonista per la megatruffa, uno
retroscenario “antifalchi” israeliani, se non direttamente filo palestinese 10.
Ipotesi contro ipotesi, in attesa di eventuali ma probabilmente impossibili
risultati dell’inchiesta, possiamo avanzarne un’ altra: un evento di tale portata
non potrebbe comunque allarmare tutto il ceto politico planetaria, tutti gli
Stati sovrani, al potere dei quali già agli inizi degli anni Novanta veniva
equiparato, dal sottosegretario americano Strobe Talbott, il finanziere George
Soros 11? Un ceto
La risposta a questo interrogativo ci porta dritti alla seconda questione che
suscita il testo marxistically uncorrect su Le lotte di classe in Francia.

Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase
postbipolare in Italia e nel mondo …

Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte
di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche
prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III
Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il
capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e
fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista
dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione
geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni
del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore
Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario
come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto
del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con
l’intervento del Banco di Roma.

Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx
del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La
prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del
pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la
Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista
delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che
capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum
inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure
indiretto) del capitale finanziario e bancario:
e se i fatti (il conflitto in
Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche
piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti)
dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di
bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco
borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano
alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo
vedé le case”.

Però i fatti restano i fatti. La constatazione è duplice: primo, è proprio il
capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della
speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio
perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera
della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III
Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del
mondo. Un esempio fra i tanti: Gore Vidal ha raccontato quel che gli aveva
detto una volta Kennedy, e cioè che il suo predecessore Truman, si convinse a
riconoscere il neonato Stato di Israele quando, “candidato alle elezioni
presidenziali” e “praticamente abbandonato da tutti”, un “sionista americano”
si era presentato da lui con una valigetta contenente due milioni di dollari in
contanti. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e
principi in età moderna 13- non abbia determinato un’evento chiave per la
storia non solo del popolo ebraico, ma dell’intera regione mediterranea e
mediorientale 14. Quanti capitalisti industriali disponevano all’epoca, in modo
totalmente libero da gravami produttivi, un capitale così ingente?

Secondo, è questo specifico capitale che oggi – in un’epoca storica in cui si è
enormemente accresciuto – sta costruendo una rete di dominio mondiale
dagli effetti preoccupanti: esso può fomentare e finanziare guerre e
destabilizzazioni degli Stati sovrani sotto forma di sostegno alle rivoluzioni
verdi e arancioni (Soros), o alle guerriglie di manovalanza islamica ma di
progetto altro in Kosovo (Soros), Cecenia (Berezowsky), Bosnia (ancora
Soros). E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel
caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di
contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George
Soros. Può anche lanciarsi in imprese rischiose e spesso in perdita dal punto
di vista puramente economico, ma che hanno un ritorno utile in termini di
dominio ideologico e geopolitico: vedi le grandi catene multimediali che
all’occorrenza possono scatenare campagne contro la Russia di Putin, l’Iran di
Ahmedimnejad, la Libia di Gheddafi e persino – nonostante la radicale,
plateale, differenza del quarto esempio – contro l’Italia di Berlusconi. Giornali
e reti televisive che inventano genocidi in Jugoslavia, Iraq e Sudan e “crimini
contro l’umanità” a Lampedusa. Mass media che diffondono il “pensiero
unico” sulle guerre che insanguinano il pianeta, con i movimenti di
liberazione nazionali territorializzati e nati per contrastare una occupazione
straniera, ridotti a “terrorismo”; e con il terrorismo transnazionale del
finanziere Bin Laden equiparato alle guerriglie irachena, libanese, palestinese.
Produzioni cinematografiche con film-patacca ma di effetto sicuro, assai più
di cento libri dotti e mille editoriali: come quelli anticristiani con le Madonne
escort, o col Codice da Vinci che fa della chiesa e non della classica sinagoga il
luogo principe del “complotto”; quelli antislamici e antiarabi tipo Indiana
Jones, quelli anti italiani, con i nostri connazionali tutti mafiosi scemi e
delinquenti. O quel prodotto mirato contro l’Argentina – un paese annientato
anni fa da una crisi finanziaria “manovrata” – che è Evita: dove la donna
ammirata e amata dai descamisados di Baires è stata ridotta dal diffamatore
di turno a una prostituta, tanto per affossare nella vergogna un grande leader
nazionalista e populista come Peron.

C’è poi, forse, il fenomeno emergente del’interesse per il calcio: potrà il
finanziere cattolico romano Perez, che ha acquistato per il Real Madrid i
supergrandi del calcio mondiale pagandoli con cifre iperboliche, mentre
molte altre società vivono gli effetti della crisi economica mondiale, utilizzare
la squadra spagnola per eccellenza a fini non solo di incassi ma anche
“politici”? Un passato politico lo ha, e le centinaia di milioni di euro che
utilizza sembrano non essere di provenienza solo personale. Dunque quale
progetto?

E passando ad altra squadra, quale significato attribuire agli assalti
periodici di Soros alla Roma? E’ solo uno “sfizio” personale dello straricco
magnate, di guidare una ottima squadra di calcio, o anche il desiderio di
acquistare quella squadra, nel cuore della Roma cristiana? L’interrogativo
probabilmente è eccessivo: è certo comunque che il filantropo Soros fa
sempre investimenti “politico-ideologici”, così come è certo che oggi il calcio è
diventato, nel bene e nel male, il vettore ideologico di alcune grandi e cruciali
tematiche dei nostri tempi: razzismo e antirazzismo ad esempio, con i loro
impropri e continui scivolamenti in campi altri, in cui l’antirazzismo è alibi
per parlare di tutt’altro e per diffamare religioni, ideologie e politiche diverse
dalla propria.

Le attività “ludiche” “culturali” non sono secondarie rispetto al discorso
sull’imperialismo e sulla capacità di “determinare” la storia: per spianare la
strada alle guerre neocoloniali – come nell’Ottocento col jingoismo –
occorrono “opinioni pubbliche” ben educate: è stata la campagna della grande
stampa americana (la stessa che oggi “complotta” contro Ahmedinejad e
Berlusconi) contro la debolezza dell’ “imbelle” Bush jr, a trascinare
quest’ultimo – inizialmente, dopo l’11 settembre, molto titubante – nelle
guerre in Afghanistan e in Iraq con la scusa di combattere “Bin Laden”. Già
Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre
della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di
Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités:
oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di
liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al
“pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.

Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?

La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non
vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo,
l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di
reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché
Giulio Tremonti, L’ imposta progressiva? un mito ” reazionario”. Ora i tributi ” indiretti ” sono diventati
di sinistra e i ” diretti ” di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994 subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. Fu il centrosinistra a
privatizzare definitivamente il 17 maggio 1999 la Banca d’Italia, il cui capitale
è – udite udite! – all’84 per cento in mano a privati.

Quanto ai “marxisti” essi non ne parlano in parte per lo stesso motivo, in
parte anche per presunta ortodossia (vedi quanto detto in precedenza), e per
paura di confondersi con la destra. Non è la destra, o una parte della destra,
che protesta – dalle posizioni moderate a quelle radicali del mio ex collega a
Teramo Giacinto Auriti – contro l’assurdità di una moneta nazionale che
viene emessa da una Banca “nazionale” in mano ai privati e che costituirebbe
di per sé un “signoraggio”, vale a dire un prelievo abusivo di ricchezza dai
cittadini attraverso l’emissione di cartamoneta?

Tanto non vedono i marxisti la sfera autonoma della finanza nella dialettica
intracapitalistica, che quando parlano dell’alleanza Putin-Berlusconi o
diventano emuli di Bernard Henry Levy – uno del solito giro che odia oltre a
Berlusconi anche Putin, Ahmedinejad, Hamas, Hezbollah: fra un po’ anche
Obama … – oppure la spiegano in modo ridicolo, l’alleanza, in termini di
pacche sulle spalle fra due amiconi che si stanno simpatici. Veramente
disastrosi questi presunti “materialisti dialettici”: prima cancellano con la
bacchetta magica della loro superficialità la realtà del conflitto in Russia fra
Putin e la famiglia finanziaria di Eltsin – quella che infiammava i cuori dei
Bernard Henry Levi di tutto il mondo e che si è infranta contro la dignitosa e
legittima reazione di Putin (tutti arrestati o esuli, i ricchi finanzieri, e i loro
imperi rubati al popolo ricondotti sotto il sostanziale controllo dello Stato) –
poi nascondono anche quella del vero conflitto in Italia fra Berlusconi e i suoi
nemici falsi progressisti; poi ancora evitano di analizzare la convergenza
geopolitica (vedi il viaggio improvviso di Berlusconi ad Ankara, a parlare
dell’oleodotto South Stream) dei due leaders: infine concludono con la pietosa
barzelletta della pacche sulle spalle. A quale miseria si è ridotto certo
marxleninismo del Terzo millennio! 16

Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare
tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero
escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire
proprio che questo è completamente rimbambito, diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici
anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo
antiimperialista).

Ma di questo si à già abbondantemente detto. Resta la seconda
considerazione iniziale per cercare di capire dove sta la destra e la sinistra
oggi in Italia, e cioè le riforme economiche e sociali dagli anni Novanta ad
oggi. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può
dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno
del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato,
della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non
porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e post-
Comunista
. Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana
e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai
vari don Rodrigo del centrosinistra. Il centrodestra è venuto dopo, o solo per
razionalizzare svarioni e dimenticanze dell’avversario (vedi la trasformazione
dell’ANAS in Spa, o la legge Biagi del 2003), o per capitalizzarne i “vantaggi”,
oppure, invece, per fare una politica paradossalmente più avanzata di quella
dell’odierna opposizione: come da articolo di Tremonti citato poco fa in nota.

Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola,
quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare
l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a
codificare il “lavoro interinale”. Rende perplessi l’ “indignazione” “eroica” di
certi tromboni a senso unico della cultura “progressista” contro Berlusconi,
quando si pensa che non hanno fatto nulla quando nel 1997-1998 il governo
Prodi prima e quello D’Alema poi privatizzarono a raffica non solo la Biennale
di Venezia e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma decine e decine di
istituti storici, culturali, linguistici. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura
chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello
redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?

La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi
mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a
distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte
parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il
caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente
conservate alcune misure e istituti di epoca fascista:
2 giugno 1992, è
nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra
finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per
delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio
(ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del
Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può
intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle
privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro
i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono
anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. 8 agosto, è la volta delle
Ferrovie, anch’esse trasformate in società per azioni.

Febbraio 1993, tocca ai Monopoli di Stato. Sempre nel 1993, il nuovo
governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la
dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle
banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate
privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro
interinale con la legge 196 del 24 giugno.

1999, prima l’accordo sull’euro ad un tasso di cambio che si rivelerà
disastroso per i redditi fissi, a causa del dimezzamento di fatto di stipendi e
salari. Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo
D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della
Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto
privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che
una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più
dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La
filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata
strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime
da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di
Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge
destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI – è la solita solfa
dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer
dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno
portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei
è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale
dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione
pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla
sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il
tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del
corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale – rischia di
venire cancellata progressivamente.

Dimentico probabilmente qualche capitolo, ma credo che questi siano già
sufficienti. Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del
centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o
hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di
prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il
disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre
qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e
dei cittadini. Si sarebbe potuto, e si potrebbe distinguere di volta in volta fra
problema o problema, opponendosi o sostenendo questa o quella proposta:
ma asservita alla potente catena mediatica “progressista”, la “sinistra
finanziaria” è incapace di tutto questo. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul
nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava
mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del
paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.

Anche le frange più radicali della sinistra finanziaria hanno imboccato
questa strada: anzi soprattutto le frange più radicali, che sublimano nel mito
assurdo di un nuovo luglio 60 la riscossa mancata di chissà quale
“proletariato”.

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Tranquilli, compagni: posto che fosse prossimo qualcosa che possa
assomigliare al luglio 60 (cosa assai improbabile) esso non avrebbe alle spalle
il PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, né avrebbe come sbocco le
nazionalizzazioni del centrosinistra DC-PSI di mezzo secolo fa. Alle spalle
della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue
profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati
licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME
emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. Alle
spalle questo, e in prospettiva nessuna, nessunissima rivoluzione ma l’esatto
opposto: il secondo colpo di stato nella storia della Repubblica dopo quello di
Tangentopoli, e dopo quelli falliti, dello stesso sostanziale segno quanto a
politica sociale e economica, degli anni Sessanta e Settanta. La prima
Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali,
inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la
macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla
“rivoluzione” dipietrista. Adesso si ricomincia, tutti appresso alle dieci
domande. Perché non fermarsi un attimo, riflettere, cambiare rotta?

Claudio Moffa
Fonte: www.claudiomoffa.it
Link: http://www.claudiomoffa.it/pdf/sinistrachenonc%27è_banche_finanza%20-%2011sett.pdf
12.09.2009

NOTE:

1 – Crisi: Tremonti, diverso se debito cresce per salvare gente o banche (ASCA) – Rimini, 28 agosto 2009

2 – Articolo de il manifesto

3 – Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p.
329)
4 – “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza
della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava
già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

5 – Su internet si trova il testo completo de Le lotte di classe… sul sito http://www.marxists.org/italiano/marx-
engels/1850/lottecf
6 – Carlo Marx, Il Capitale, III, 2, 27, p. 125, Editori Riuniti, Roma.

7 – J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma.
8 – Leggi il testo della relazione nel link sul sito
9 – Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

10 – James Petras
11 – La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con
Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe
Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo
di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E
con George Soros”

12
Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato
simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio
imprenditoriali”. Nella battuta Berlusconi criticava il far profitti passando i soldi “da una cassaforte a
un’altra”.

13 – Non solo Werner Sombart ma anche Fernand Braudel ha ricordato il ruolo cruciale delle comunità
mercantili e bancarie in epoca preindustriale
14 – Israel Shaak, Storia Ebraica e Giudaismo: il peso di tre millenni, Prefazione di Gore Vidal, Sodalitium,
Torino (prefazione)

15 – Giulio Tremonti, L’ imposta progressiva? un mito ” reazionario”. Ora i tributi ” indiretti ” sono diventati
di sinistra e i ” diretti ” di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994
16 – Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare
tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero
escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire
proprio che questo è completamente rimbambito, diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici
anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo
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