IL COLLASSO PROSSIMO VENTURO

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DI DIMITRY ORLOV
CarolynBaker.org

Sono passati alcuni anni da quando ho cominciato a descrivere il collasso economico dell’Unione Sovietica, che probabilmente si riprodurrà anche qui negli Stati Uniti. Fino ad oggi sono ragionevolmente soddisfatto delle mie previsioni: tutto si sta avverando, lentamente ma inesorabilmente.

Sul piano militare, gli Stati Uniti, seguiti a ruota da Israele, dopo aver sperperato un sacco di soldi in inutili armi di alta tecnologia e aver perso le battaglie di terra contro una resistenza motivata, sembrano essersi infilati in un vicolo cieco da loro stessi creato, che potrebbe precludere l’accesso ai campi petroliferi mediorientali. Sul piano economico, il picco petrolifero sembra essere stato sorpassato in un qualche momento dell’estate 2005 e possiamo cominciare oramai a vederlo alle nostre spalle, proprio com’è logico. Sul piano politico, il paese ha pencolato verso la sinistra, solo per scoprire che l’altro partito capitalista è anche l’altro partito militarista. Sul piano internazionale, issare la bandiera statunitense viene ora considerato un gesto osceno, e per un certo tempo probabilmente le cose non cambieranno dato che onore e reputazione sono tra le cose più difficili da reclamare. Sul piano finanziario, l’economia americana si è trasformata in una specie di “culto del cargo”, in cui la gente pensa di poter continuare ad attirare petrodollari riciclati col solo danzare attorno a pile di server internet brandendo i telefoni cellulari e i laptop.In breve, visto come vanno le cose, non vedo motivi per cominciare a preoccuparmi di poter essere smentito dalla storia. Ma qui finisce la soddisfazione e cominciano i problemi.

Un approccio spassionato e ironico è buono e positivo, ma quando affermo che il popolo russo era molto meglio preparato al collasso economico di quanto lo siano attualmente gli Stati Uniti mia madre stessa mi accusa di minimizzare con odioso sangue freddo le tremende sofferenze sopportate da quel popolo. Per la cronaca, sia ben chiaro che sto parlando di una sequenza di morti, di vite distrutte, di una generazione di fanciulli persa, e di molte cose preziose e insostituibili bruciate o sepolte da un’ondata di violenza e nequizia. Mi rendo anche conto che ripetere senza fine storie di orrore e miseria è la maniera più sicura per perdere l’attenzione della gente, come mia madre sarebbe sicuramente contenta di dimostrare. Altri mi hanno accusato di Schadenfreude (*): di non essere sufficientemente imparziale e di accogliere con piacere disordini e segni dell’imminente collasso. Si tratta di un argomento ad hominem, che si riduce a “dici queste cose perché sei il tipo d’individuo che gode nel dire queste cose”. Nuovamente per la cronaca, non ne provo alcun piacere (e rileggendo quel che ho detto prima capirete perché). A dire il vero, non sono un grande ammiratore dello stile di vita americano: preferisco starmene fuori dalle periferie residenziali, guido raramente, e faccio del mio meglio per non volare. E non penso che se perdessimo tutto questo sarebbe un gran danno. Io guardo piuttosto a tutta l’aria pura che ho dinanzi, anche se con il progredire dell’oscuramento prodotto dall’inquinamento il riscaldamento globale avanzerà a tasso raddoppiato, e tra non molto tempo saremo obbligati a cercare terreni più in alto e più a nord, una prospettiva che non mi rallegra per niente.

Suppongo che se fossi il tipo di persona che prova una profonda soddisfazione per lo stile di vita delle aree residenziali, la totale dipendenza dall’auto, lo shopping nei centri commerciali, i voli qua e là per il mondo, l’illusione quotidiana di un dominio totale, non me ne starei qui a parlare di collasso, qualcosa della cui esistenza non avrei la minima idea. Questo modo di vivere mi sembra assolutamente miserabile, ma ammetto che si possa percepire la realtà in modo diverso. E dev’essere una vera benedizione ignorare il depauperamento delle risorse, il riscaldamento globale, il collasso; o comunque non preoccuparsi di sapere. “Mangia, bevi e sii felice, che domani saremo tutti morti” c’insegna l’Ecclesiaste, e chi sono io per contraddirlo? Quando scopre queste cose, la gente talvolta sprofonda in un acuto malessere psicologico che supera infine con un compromesso interno. Mi sento quasi colpevole quando faccio uscire qualcuno dal suo stato di beatitudine, perché mi sembra scorretto diffondere lo scontento tra gente altrimenti pacifica e ben controllata: sono come bambini che per la prima volta hanno sentito parlare della morte, prima di venir consolati con storie di angeli e paradiso (o, in questo caso, di pile a idrogeno, etanolo, biodiesel, centrali eoliche, veicoli ibridi, o qualsiasi altro ecopropulsore a portata di mano). E spesso finiscono con l’assillante rimprovero di non aver fatto abbastanza.

Questo modo di consolarsi non è tanto convincente quanto vorremmo, e l’assillante rimprovero porta alcuni di noi a rimettere in questione tutto: il nostro modo di vivere, il lavoro, la vita. Alcuni arrivano al punto d’interrogarsi sul valore della civiltà tecnologica e a chiedersi se non siamo sulla strada di una autodistruzione planetaria. Possono così diventare una compagnia molto noiosa e stancante, e diffondere lo scontento tra tutti coloro con cui vengono in contatto continuando a parlare di calotte polari che fondono, orsi polari che annegano, estensioni di plastica grandi quanto il Texas che fluttuano sull’Oceano Pacifico, uccelli marini che muoiono, specie ittiche che si estinguono, barriere coralline che spariscono, e via di questo passo. “E basta!” potreste dir loro, “Se la sfida consiste nell’evitare l’autodistruzione del pianeta, allora impegniamoci tutti per lo stesso obiettivo: elaborare un progetto, definire le prossime mosse, e cominciare a metterle in pratica”. Poi vi rendete conto che le persone con cui state parlando sono serie, e la situazione diventa imbarazzante.

Perché, vedete, in realtà non c’è molto da fare su scala globale, e le persone più serie lo intuiscono. Il più grande “se” del mondo è quello all’inizio della frase “Se noi tutti…”: se noi tutti limitassimo il nostro impatto ecologico a un livello sostenibile allora nessuno potrebbe più aumentare il proprio a nostre spese. Un’ulteriore complicazione nasce dal fatto che non possiamo ottenere una così grande riduzione, perché l’attuale popolazione della Terra eccede di molto le sue capacità: un sacco di gente dovrebbe morire. Se il nostro piccolo progetto deve includere soluzioni di questo tipo, allora non fare assolutamente niente diventa l’opzione più accettabile sul piano etico, anche se tragicamente inutile.

In una cultura che è fiera di essere sempre indaffarata, non far nulla è molto più difficile che fare qualcosa. Recentemente sono stato invitato a volare in Alaska per una presentazione, ma ho rifiutato perché mi è sembrato ridicolo bruciare altri barili di cherosene e uccidere qualche altro orso polare solo per il gusto di far sapere a un gruppo di abitanti del paese che era tempo di cominciare a pensare di spostarsi più a sud. Per tranquillizzarli, avrei potuto raccontare la storia degl’insediamenti nell’artico russo finiti nella morsa del ghiaccio quando le consegne invernali di carburante non erano arrivate (e come sempre accade non tutti avevano potuto essere evacuati a tempo), o spiegare che gli uomini non hanno bisogno di combustibile per sopravvivere all’inverno artico: è sufficiente una buona giacca a vento a doppia faccia imbottita, completata da pantaloni, stivaloni e guantoni (e per favore, come rifinitura del cappuccio una pelle di ghiottone, che non congela), un igloo, una lampada alimentata con grasso (perché vari mesi consecutivi di buio totale non sono salutari, e perché nel buio completo è difficile cucire pelli e cuoio e trasformare le ossa in strumenti), e una montagna di carcasse animali da masticare (basta separare i pezzi di carne congelata e metterli nel giaccone per scongelarli. E per lavarli è sufficiente riempire una sacca di neve e metterla nel palco fino a quando si scioglie). Si è fatto così per migliaia di anni, ma se stiamo veramente andando verso un pianeta completamente diverso, uno senza ghiaccio e neve, allora le puntate sono chiuse.

In un certo qual modo mi è sembrato che far morire qualche orso polare in più per la soddisfazione di andare a spiegare agli abitanti dell’Alaska quello che dovrebbero sapere meglio di me sarebbe stata, comunque, una scelta sbagliata: gli ipotetici benefici del mio viaggio non giustificavano il quantificabile danno all’ambiente. Ma tutti quelli con i quali ho discusso si sono trovati in disaccordo con la mia decisione: io voglio solo essere coerente, il resto non m’interessa. Un sacco di altre persone non ha di questi scrupoli, e pensa che il fine giustifica i mezzi.

Per loro, la stessa ingegnosità con cui stiamo distruggendo la Terra può essere usata per salvarla: volano e guidano per partecipare a conferenze, sostengono battaglie ambientaliste e sociali e organizzano campagne – dispendiose sul piano energetico e dannose su quello ambientale – per risparmiare energia e salvare l’ambiente. Secondo le ultime notizie, non sembra che tutta questa attività stia risolvendo i grandi problemi, o anche solo contribuendo a impedire che continuino a peggiorare.

L’unico problema importante che può essere risolto, non per caso scelto da Al Gore come esempio di vittoria ambientalista, è quello del protocollo di Montreal per limitare il rilascio di gas a effetto serra nell’atmosfera. In massima parte gli altri sono troppo complessi per poter fare qualcosa, e il movimento ambientalista non è riuscito a controllare una massa di difficoltà insormontabili, come l’estinzione massiccia e la distruzione degli habitat, la deforestazione, il degrado del suolo e dell’acqua, la sovrappopolazione, le emissioni di carbonio. La sovrappopolazione, madre di tutti gli altri problemi, viene raramente discussa: ogni donna ha il diritto di mettere al mondo un figlio (almeno uno, ed è già troppo), anche perché i bambini sono, penso, una vera delizia. Nonostante la nostra superficiale ingegnosità, esiste un livello minimo di irrazionalità per poter essere umani: quello che siamo in grado di fare a livello collettivo per controllare il nostro numero. Possiamo affermare di saper controllare, almeno per un certo tempo, la natura, ma non possiamo affermare di saper controllare i nostri istinti e appetiti. La natura dovrà farlo al nostro posto, come ha sempre fatto e come sempre farà.

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Possiamo star certi che le nascite non continueranno sempre, come oggi, a superare i decessi, e che dopo aver raggiunto un picco la marea umana comincerà a declinare. In base a tutto quello che ho visto e sperimentato, posso supporre che, una volta cominciato, il declino non sarà una transizione indolore ma un cambiamento brutale e doloroso, con una logica e un andamento particolari. Se prendiamo come esempio specifico il petrolio, sul quale si concentra l’attenzione di molti, non posso credere che qualche anno dopo l’inversione di tendenza avremo dei tagli di produzione annua di soli pochi punti percentuali. Penso piuttosto a una cifra prossima al 100%: non un calo, non una contrazione, ma un collasso. Sono anche sicuro che a livello globale pochi percepiranno l’incalzare degli eventi. Quando le luci si spegneranno definitivamente nel vostro quartiere, solo qualcuno molto vicino a voi capirà quello che sta accadendo, e voi saprete cosa sta succedendo nel resto del mondo più o meno come oggi sapete quello che sta succedendo in zone in cui la luce si è già definitivamente spenta, ad esempio lo Zimbabwe o la Corea del nord. Il nostro mondo è qualcosa di fragile, e le sue varie parti hanno un’esistenza concreta solo se dispongono di elettricità, voli di linea, bottiglie di acqua per dissetare i giornalisti stranieri.

Se la vostra ultima speranza è che il collasso economico fermi il nostro agitarsi e calpestare quel che resta dell’ecosistema proprio prima del punto di non ritorno, restereste delusi, anche se le cose andassero proprio così. Il collasso non verrà trasmesso in diretta televisiva, e voi non sapreste che è arrivato; sapreste solo che ha colpito voi. Quindi è giusto che vi metta in guardia: caveat emptor! Per voi, consumatori soddisfatti dei sistemi d’informazione, il collasso è un prodotto difettoso che non vi piacerà. Se però rientrate nel novero di coloro che già non si sentono più consumatori soddisfatti, allora per voi il collasso è già bene avviato, e avete cose molto più urgenti da fare che seguire la corrente di coloro che si preoccupano del cambiamento climatico o ossessionarvi per altri temi d’importanza globale. Il collasso è un prodotto monouso. Correttamente applicato, produce un sentimento profondo e duraturo d’insoddisfazione. In questo senso, e solo in questo senso, è veramente eccellente.

Nota: (*) “esprimere gioia per le disgrazie altrui”

Dimitry Orlov ha vissuto il collasso dell’Unione Sovietica e che ora, facendo tesoro di questa sua esperienza, ci suggerisce le alternative per sopravvivere al crollo della civiltà occidentale come la conosciamo.

Dimitry Orlov
Fonte: http://carolynbaker.org
Link
01.02.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO

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