DI MIKE WHITNEY
Information clearing house
“Venite a vedere i nostri obitori straripanti e cercate per noi i nostri bambini…
Potreste trovarli in un angolo o nell’altro, una piccola mano che fuoriesce, con il dito puntato verso di voi…
Venite a cercarli fra le macerie dei vostri bombardamenti “chirurgici”, potreste trovare una piccola gamba o una piccola testa… che implora la vostra attenzione.
Venite a vederli ammassati nelle discariche, mentre dissotterrano brandelli di cibo…
Venite, venite a vedere…”
(Layla Anwar, Aquiloni in volo)
Gli Stati Uniti hanno vinto ogni battaglia combattuta in Iraq, ma hanno perso la guerra. Le guerre si vincono sul piano politico, non su quello militare. Bush non lo capisce. Si aggrappa ancora alla convinzione che sia possibile imporre la stabilità politica attraverso la forza. Ma si sbaglia. L’uso della forza schiacciante non ha fatto altro che estendere la violenza e incrementare l’instabilità politica. Oggi l’Iraq è ingovernabile. Era questo l’obiettivo? Miglia e miglia di muri di cemento si snodano attraverso Baghdad per separare le parti in conflitto; il paese è frammentato in centinaia di pezzi più piccoli, ciascuno controllato dai comandanti della milizia locale. Questi sono i segni di un fallimento, non di un successo. Ecco perché i cittadini americani non approvano più l’occupazione. Sono solo pragmatici; sanno che il piano di Bush non funzionerà. Come dice Nir Rosen: “L’Iraq è diventato la Somalia”.
L’amministrazione americana sostiene ancora il primo ministro irakeno Nouri-al Maliki, ma Maliki non è che un insignificante fantoccio che non avrà alcun ruolo nel futuro del paese. Non ha una base di sostegno popolare e non controlla nulla, a parte i muri della Green Zone. Il governo di al Maliki è una mera facciata araba progettata per convincere il popolo americano che siano in corso dei progressi politici, ma in realtà non c’è nessun progresso. E’ un disastro. Il futuro è nelle mani degli uomini che imbracciano le armi; sono loro che hanno diviso l’Iraq in feudi controllati localmente e sono loro che, alla fine, decideranno chi dovrà governare lo Stato. In questo momento, la battaglia tra le varie fazioni viene descritta come “guerra settaria”, ma questo termine è volutamente fuorviante. La battaglia in corso è di natura politica: le varie milizie competono l’una con l’altra per stabilire chi dovrà riempire il vuoto aperto dalla caduta di Saddam. E’ una lotta per il potere. I media amano dipingere questo conflitto come uno scontro fra arabi mezzi matti, “rinnegati e terroristi”, che si eccitano all’idea di assassinare i propri concittadini, ma questo è solo un modo di demonizzare il nemico. La violenza, in realtà, è del tutto razionale: è la reazione inevitabile alla dissoluzione dello Stato e all’occupazione da parte di truppe straniere. Molti esperti militari avevano previsto che ci sarebbero state esplosioni di lotte interne in seguito all’invasione, ma i politici incompetenti e i media acclamanti hanno scrollato le spalle di fronte ai loro avvertimenti. Ora la violenza è nuovamente esplosa a Bassora e a Baghdad, e non c’è in vista una conclusione. Solo una cosa sembra sicura: il futuro dell’Iraq non sarà deciso dalle urne elettorali. Bush ha voluto assicurarsene.
L’esercito USA non ha alcun controllo sull’Iraq né possiede la forza per gestire ciò che accade sul territorio. E’ solo una delle tante milizie in lizza per il potere in uno Stato dominato dai signori della guerra. Dopo ogni operazione, l’esercito è costretto a ritirarsi verso il proprio campo o la propria base. Questo punto va sottolineato, per comprendere che l’occupazione non ha alcun futuro. Semplicemente, gli USA non possiedono forze militari sufficienti per occupare un territorio o per ripristinare la sicurezza. Al contrario, la presenza delle truppe americane incita alla violenza, perché sono visti come forze di occupazione, non come liberatori. Un sondaggio rivela che la stragrande maggioranza degli irakeni vuole che le truppe americane lascino il paese. I militari hanno portato troppa distruzione e ucciso troppe persone per potersi aspettare che questo atteggiamento cambi in tempi brevi. La poetessa e blogger irakena Layla Anwar riassume i sentimenti di molte vittime della guerra in un post pubblicato recentemente sul suo sito An Arab Woman Blues:
“Alle porte di Babilonia la Grande, state ancora lottando, combattendo, inseguendo ora questo ora quello, incarcerando, bombardando dal cielo, riempiendo obitori, ospedali, cimiteri di cadaveri e ambasciate e confini di code per il visto d’uscita.
Non c’è un solo irakeno che desideri la vostra presenza. Non c’è un solo irakeno che tolleri la vostra occupazione.
Ho notizie per voi, figli di puttana: non controllerete mai l’Iraq, né in sei anni, né in dieci, né in venti… avete attirato su di voi l’odio e la maledizione degli irakeni, degli arabi e del resto del mondo… ora affrontate la vostra agonia” (Layla Anwar; “An Arab Women’s Blues: Reflections in a sealed bottle”)
Bush spera forse di far cambiare opinione a Layla e ai milioni di altri irakeni che hanno perduto i loro cari o sono stati costretti all’esilio o hanno visto il proprio paese e la propria cultura schiacciata sotto il tacco dell’occupazione straniera? La battaglia per i cuori e le menti è perduta. Gli USA non saranno mai i benvenuti in Iraq.
Secondo un’indagine della rivista medica britannica “Lancet” più di un milione di irakeni sono stati uccisi nel corso della guerra. Altri quattro milioni sono stati trasferiti da una zona all’altra del paese o hanno dovuto fuggire all’estero. Ma le cifre non ci dicono nulla sulla magnitudine del disastro che Bush ha provocato attaccando l’Iraq. L’invasione è la più grande catastrofe umanitaria in Medio Oriente dalla Nakba del 1948. Gli standard di vita hanno subito un declino precipitoso in ogni settore: mortalità infantile, acqua potabile, approvvigionamenti alimentari, forniture mediche, educazione, energia elettrica, occupazione, ecc. Perfino la produzione petrolifera è ancora al di sotto degli standard di prima della guerra. L’invasione è stata il più totale fallimento politico dall’epoca del Vietnam; è andato tutto storto. Il cuore del mondo arabo è sprofondato nel caos. La sofferenza è incalcolabile.
Il problema principale è l’occupazione; essa è il catalizzatore primario della violenza ed è un ostacolo ad un accordo politico. Finché l’occupazione prosegue, le battaglie continueranno. I proclami secondo i quali il cosiddetto “incremento di truppe” avrebbe modificato il panorama politico sono largamente esagerati. A questo proposito l’ex Ten. Gen. William Odom ha affermato in un’intervista rilasciata a Jim Lerher News Hour:
“L’incremento di truppe ha accresciuto l’instabilità militare e non ha ottenuto nulla sul piano del consolidamento politico… le cose oggi sono di gran lunga peggiorate. E non vedo come possano migliorare. Tutto questo poteva già essere previsto un anno e mezzo fa. E continuare a coprirlo con il comodo velo di confortevoli mezze verità serve solo a ingannare il pubblico americano e a non fargli capire quanto sia complessa la situazione… Quando si dice che si sta verificando una libanizzazione dell’Iraq si dice il vero, ma non per colpa dell’Iran, ma proprio perché sono stati gli USA a consentire questo tipo di frammentazione. E questo è avvenuto nel corso degli ultimi cinque anni… Il governo al Maliki oggi è allo sbando… Pensare che vi sia stato un progresso è assurdo. Il governo di al Maliki usa il suo Ministero dell’Interno come uno squadrone della morte. Dire che al Sadr è un estremista e che Maliki sta dalla parte dei buoni significa sorvolare sulla realtà che qui non ci sono i buoni”. (Jim Lerher News Hour)
La guerra in Iraq era già perduta prima che venisse sparato il primo colpo. Il conflitto non ha mai goduto dell’appoggio del popolo americano e l’Iraq non ha mai rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale degli USA. Tutto il pretesto della guerra era fondato su menzogne; si è trattato di un colpo di Stato organizzato dalle elite e dai media per realizzare un progetto di estrema destra. Ora la missione è fallita, ma nessuno vuole ammettere i propri errori ritirandosi; così la strage prosegue senza interruzione.
Come finirà?
L’amministrazione Bush ha deciso di perseguire una strategia che non ha precedenti nella storia americana. Ha deciso di continuare a combattere una guerra che ha già perso sul piano morale, strategico e militare. Ma combattere una guerra perduta ha i suoi costi. L’America è oggi molto più debole di quando Bush assunse la presidenza nel 2000; lo è sul piano politico, economico e militare. Il potere e il prestigio degli USA nel mondo continueranno a deteriorarsi finché le truppe non verranno ritirate dall’Iraq. Ma è improbabile che ciò accada prima che siano state tentate altre opzioni. Le declinanti condizioni economiche dei mercati finanziari stanno esercitando sul dollaro un’enorme spinta verso il basso. Il mercato delle equities e dei bond corporativi è allo stremo; il sistema bancario sta collassando, la spesa dei consumatori è in calo, gli introiti fiscali decrescono e il paese è diretto verso una recessione dolorosa e duratura. Gli USA lasceranno l’Iraq prima di quanto credano molti analisti, ma non sarà in un momento di nostra scelta. Al contrario, il conflitto terminerà quando gli Stati Uniti non saranno più in grado di condurre la guerra. Quel momento non è lontano.
La guerra in Iraq segna la fine dell’interventismo USA per almeno una generazione, forse anche più a lungo. Il fondamento ideologico della guerra (attacco preventivo-cambio di regime) si è rivelato una giustificazione senza fondamento per un’aggressione proditoria. Qualcuno dovrà esserne ritenuto responsabile. Dovranno essere istituiti tribunali internazionali per stabilire a chi debba essere addebitata la responsabilità della morte di oltre un milione di irakeni.
Vesione originale:
Mike Whitney
Fonte: www.informationclearinghouse.info
Link: http://www.informationclearinghouse.info/article19742.htm
14.04.08
Versione italiana:
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net/
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2008-04-15
15.04.08
Traduzione di GIANLUCA FREDA