DI SERGIO CESARATTO
ilmanifesto.it
Un influente economista europeo, Charles Wyplosz, è coautore di una proposta di una semplicità cristallina per cominciare a sdrammatizzare la crisi in corso (voxeu.org).
In breve Wyplosz propone che la Bce acquisti un quarto dei debiti pubblici dei paesi europei periferici (Francia inclusa) pari a 1.200 miliardi di euro, circa un quarto del loro Pil. In sostanza, man mano che titoli del debito di questi paesi vengono a scadenza, la restituzione viene finanziata dalla Bce che in cambio ottiene titoli perpetui con un tasso di interesse zero. Operazione quindi a costo zero per i contribuenti europei. Ma che fine fa la moneta messa così in circolazione? Wyplosz non ritiene che essa costituisca un pericolo inflazionistico nelle circostanze attuali. In effetti, liberatesi di una mole notevole di titoli pubblici problematici, le banche potrebbero utilizzare la liquidità per restituire precedenti prestiti dalla Bce. Oppure quest’ultima potrebbe drenarla emettendo titoli di deposito – poiché questi vanno remunerati a un tasso minimo questo ha un costo, ma non si tratterebbe di gran cosa rispetto ai vantaggi.
È un peccato che proposte di questo tipo non diventino oggetto di considerazione a sinistra e di battaglia politica perché la sua componente di e al governo se ne faccia portatrice. Naturalmente la proposta non costituirebbe che un tassello di una necessaria più ampia riforma delle istituzioni e politiche europee di cui tanto abbiamo scritto.
Queste soluzioni sarebbero ovvie se l’Europa assomigliasse a quella vagheggiata dagli europeisti «a prescindere». Purtroppo non è così perché l’Europa monetaria come la sperimentiamo non è che parte dello sconvolgente movimento epocale che stiamo vivendo, di cui i nein tedeschi sono strumento interessato. Partito dalla necessità di riportare ordine dopo che la piena occupazione dei famosi «anni gloriosi» aveva generato grande indisciplina sociale, rinvigorito dalla fine della sfida socialista e sostenuto dall’entrata nel mercato dell’immenso esercito industriale di riserva dei paesi emergenti, il caposcuola dei commentatori economici Samuel Brittan l’ha definito un ritorno all’epoca vittoriana. Una vivida descrizione dell’obiettivo lo dobbiamo a quel Padoa-Schioppa che la sinistra portò sugli scranni del proprio governo: «Lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione …attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’ individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità» (Corriere della Sera, 26 agosto 2003).
Questo quadro drammatico fa da sfondo alla crisi della sinistra, oggetto quest’ultima degli interventi di Goffredo Bettini su questo giornale. Questi appare spiegarla come un errore soggettivo di gruppi dirigenti facinorosi e insensibile al grido di dolore di un crescente popolo dei vinti, una descrizione eccessivamente soggettiva e dickensiana (appunto). Inadeguata ai rivolgimenti e alle sfide, ci sembra – sempre fatte salve le buone intenzioni su cui intessere il dialogo. V’è naturalmente un errore storico di gran parte della sinistra, non solo nostrale, nell’aver pensato di poter governare il «capitalismo scatenato» (la famosa «terza via»), come lo definì l’indimenticato Andrew Glyn. Ma questo sembra ormai quasi un nobile passato a confronto delle risse attuali che assomigliano vieppiù a quelle dei capponi di Renzo, fra gruppi di potere che non sanno che pesci prendere e che vedono scemare la trippa da spartire.
L’Europa è oggi questione di vita o di morte per la sinistra, il fronte su cui difendere decenni di progresso sociale del nostro paese, sanità e istruzione pubblica in testa, e con l’obiettivo della piena occupazione come valore primario (lasciando in seconda linea altre tematiche care alla tanto compassionevole sinistra nostrale). Sulla creazione di lavoro, sui diritti sociali e contro chi ce li vuole negare, da noi e in Europa, va costruita la rabbia del nostro popolo.
Sergio Cesaratto
Fonte: www.ilmanifesto.it
20.08.2013