DI CARLO BERTANI
Nel volgere di pochi giorni, ci sembra d’aver scoperto che esistono bande di romeni che rubano e ammazzano. Facciamo appena in tempo a voltar pagina, che la trama del film “Un giorno d’ordinaria follia” si svolge sotto i nostri occhi. Un ex capitano dell’esercito – congedato per turbe psichiche – costruisce un bunker sul terrazzo condominiale, lo attrezza con trappole esplosive, “collauda” un lanciafiamme (era un capitano del Genio…) e dà inizio alla mattanza, sparando con armi di precisione a puntamento laser.
Il cadavere della povera Patrizia Reggiani è appena sceso nella terra che subito la segue quello di Pino di Sanfelice, che passava di lì per caso.
Due morti “imprevedibili” – qualcuno potrebbe affermare – e invece erano due morti evitabili, se solo si fossero comprese anzitempo le ragioni di quelle storie.
Pensando al film “Un giorno d’ordinaria follia”, un’altra pellicola mi torna alla mente, “Il tempo dei gitani”, di Emir Kusturica, e il filo dei pensieri mi riporta nello schermo della mente l’ex ambasciatore della Repubblica di Jugoslavia – un montenegrino – al tempo della guerra del Kosovo.
Sì, perché il diplomatico – pressato dalle domande che chiedevano lumi sull’apparente follia di quelle terre – rispose che, per comprendere i Balcani, e più precisamente la Jugoslavia, non si poteva far altro che “leggere i libri di Ivo Andric e guardare i film di Kusturica”.
Sembrerebbe – detta da un diplomatico – quasi una battuta per evitare domande e risposte imbarazzanti, eppure così è: senza afferrare il coagulo di vicende che si concentrano in quei luoghi, è quasi impossibile comprendere come mai una persona riduca in fin di vita una donna solo per approfittare del suo corpo. Così, è difficile capire perché un uomo malato di mente possa mantenere il privilegio dell’arma – tipico degli ex ufficiali – e che nessuno se ne renda conto. L’Esercito lo congeda perché non si fida più di lui, e lo consegna – armato – in un condominio della capitale.
Nella stessa città, per vie assai misteriose, il destino “recapita” un romeno, il quale s’imbatte in una donna che torna a casa una sera come tante altre, e finisce in tragedia.
In queste faccende, però, il Fato c’entra ben poco: sono gli uomini che creano il filo degli eventi.
Macrocosmo e microcosmo sembrano sovrapporsi in queste due vicende, quasi che le due follie – l’una definita quasi “antropologica” da frettolosi analisti, l’altra ritenuta oramai facente parte del nostro vivere quotidiano – siano fatali, ineluttabili, quasi “normali”. Eppure, di normalità – oramai – c’è ben poco.
Le statistiche ci dicono che i crimini sono diminuiti – non intendo commentare queste cifre, conscio che il noto “mezzo pollo” non ha mai sfamato chi il pollo non ce l’ha – ma credo che, una sola giornata “d’ordinaria follia” del nostro vivere odierno, stramazzerebbe in pochi minuti un abitante di mezzo secolo fa che dovesse giungere fra noi con la macchina del tempo.
Basta scorrere qualche giornale dell’epoca per rendersene conto: il delitto Fenaroli/Ghiani tenne banco per mesi, ma non avveniva lo stillicidio di violenza – spesso gratuita – come oggi accade. In questo senso, dobbiamo ammettere che siamo profondamente malati: i legami di solidarietà sono oramai labili, mentre quelli della competizione – stimolati dal sistema economico – prevalgono. Sui capitani in pensione e sui romeni girovaghi.
Su tutto, poi, regna oramai un senso di fatalismo che ci preclude di capire cosa sta succedendo.
A molti, oggi, risulterà incomprensibile perché la Romania sia entrata in Europa frettolosamente, senza che s’attendesse qualche anno di “decantazione” prima d’aprire le porte di quel paese all’UE.
Romania e Bulgaria sono entrate in Europa per precise ragioni geo-strategiche: dei rumeni e dei bulgari, a nessuno fregava un accidente.
La necessità, la fretta era dettata dal momento storico favorevole: prima che gli USA riescano a districarsi dal pantano iracheno, prima che la Russia torni ad essere così forte da gettare nuovamente la spada sui Balcani.
La furbesca Europa dei banchieri – conscia di non avere forza militare per un confronto – ha approfittato del momento favorevole per occupare uno spazio che altri, in quel momento, non erano in grado d’occupare.
Tanto per capirci, la debolezza economica di quei paesi, li consegna mani e piedi legati alle burocrazie europee, alle banche europee, al sistema economico europeo.
Cosa se ne fa l’Europa della Romania?
Del paese, in sé, poco o nulla ma del territorio sì, perché la Romania si apre sul Mar Nero, e sull’altra sponda del Mar Nero c’è tanto petrolio e tanto gas che vorrebbe giungere in Europa, ma non ci riesce. Fra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.
Su quel mare s’affacciano l’Ucraina – sempre in bilico fra Russia ed USA – e la Turchia in bilico fra USA e UE. Da quelle parti ci sono la Cecenia, La Georgia, il Kazachistan ed il Caspio…ho, mio Dio, quanto petrolio e gas c’è intorno al Caspio…
Si può farlo giungere in Europa con i “corridoi” adriatici: il meglio sarebbe un percorso nella pianura serba, poi Montenegro o Albania, quindi la Puglia, ma c’è di mezzo un rompicapo chiamato “Kosovo”, che nessuno sa come risolvere. Si può optare per un percorso più a sud, che coinvolga Grecia ed Albania, ma dall’altra parte sempre sulle coste rumene bisogna andare a parare.
Ecco la soluzione dell’enigma, ecco perché due paesi con economie traballanti, con un controllo del territorio evanescente, con popolazioni nomadi che li attraversano hanno trovato casa a Bruxelles.
Scopriamo oggi i Rom e gli tzigani?
Veramente, sono secoli che viaggiano per l’Europa: già rubavano galline quando ero bambino, però non capitava mai che una donna che tornava a casa dopo aver fatto la spesa venisse uccisa in quel modo.
Qualcosa è cambiato, già, tutto cambia.
Ad uno di questi “cambiamenti” abbiamo dato una mano anche noi, anche se ne siamo immemori: quando l’UCK scese in Kosovo, nel 1999, si fece consegnare le piantine delle città e diede 24 ore di tempo ai Rom di quelle terre per andarsene. Chi fuggiva perdeva casa e beni, chi restava bruciava insieme alla casa: se avete dubbi, leggete la “Storia di Reska” – la troverete facilmente sul Web – per rendervi conto di cosa successe a Pristina, a Graçanica, a Kosovo Polje, a Mitrovica.
A Kosovska Mitrovica, in un solo pomeriggio, furono date alle fiamme 1.500 case di Rom che vivevano lì, stanziali, da secoli. Decine di migliaia di Rom, che vivevano e lavoravano in quelle terre, fuggirono in Serbia ed in Bulgaria: poi, come uccelli migratori, si sparsero ovunque.
Sarebbe ingiusto, però, non ammettere che i Rom sono molto diversi dalle popolazioni europee, differenti anche dalle altre etnie jugoslave. Le donne lavorano e mendicano – non battono il marciapiede, è assai raro – ed i bambini sono considerati forza lavoro a costo zero. Questa è la loro società, il loro modo di vivere, da secoli: a Bruxelles non lo sapevano?
I Rom che viaggiavano nell’Europa di 50 anni fa, trovavano un mondo contadino che quasi li specchiava: molti facevano i calderai, e non era raro che nelle campagne la gente acquistasse i paioli di rame dagli “zingari”. I quali, poi, se c’era qualche pollaio “invitante” lo visitavano, ma non accadevano tragedie.
Poi la comunicazione s’è espansa, e le TV occidentali hanno iniziato a “battere” i Balcani, con l’iconografia di un mondo opulento, facile, a portata di mano.
La linea di faglia dei due mondi ha iniziato a scricchiolare: il concetto del tempo ci ha divisi. Loro, che continuano a viaggiare con i loro ritmi antichi, con le loro abitudini ataviche – che noi non condividiamo, non accettiamo, non comprendiamo – e noi che ci affrettiamo sulla via del tempo, dove non ci seguono più.
Inevitabilmente, inesorabilmente, lungo le linee di faglia si scatenano i terremoti. Anche questo non sapevano a Bruxelles?
E a Roma? Nessuno poteva accertare che una “faglia” s’era creata – ed era stata quasi sicuramente certificata da una commissione medica militare – nella mente di un ex ufficiale? Nessuno ha pensato di privare quell’uomo delle armi? Non è la prima volta che persone che possiedono armi facciano macelli: in famiglia, soprattutto. E la vicenda della “Uno Bianca”? Non ci ha insegnato nulla?
Linee di faglia che si creano, nelle menti e nella storia, mentre noi procediamo immemori del nostro vivere, del nostro creare mondi mostruosi, per noi e per gli altri.
Alla fine – per dare giustizia a una moglie che tornava a casa pensando alla cena e ad un passante che probabilmente cercava una pizzeria – si scatena la “vucirria” di giornalisti e commentatori, mentre gli avvoltoi della politica si lanciano su quei due poveri morti per cercare d’accaparrarsene un’unghia.
Intanto, le linee di faglia, sotterranee, nascoste, continuano a fremere, a stridere, ad aggrovigliarsi. Fino al prossimo terremoto.
Carlo Bertani
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5.11.07