La sindrome di Cenerentola
DI ANTONELLA RANDAZZO
Alcuni potrebbero credere che la questione dei rapporti uomo-donna non abbia nulla a che
vedere con le grandi problematiche finanziarie, politiche ed economiche, o che si tratti di una questione di poca importanza. In realtà occorre osservare che dalle “piccole” questioni derivano le grandi, e che i rapporti fondamentali della vita degli individui sono centrali nel determinare la loro personalità e il loro comportamento sociale.
I rapporti uomo-donna sono da inscrivere all’interno della situazione generale del sistema, in quanto espressione di ciò che deriva dal sistema stesso, e in parte frutto delle frustrazioni o alienazioni da esso prodotte.
Il potere del sistema si estende in parte anche alla connotazione sessuale di ognuno di noi. Ovvero, attraverso una serie di condizionamenti ogni essere umano può essere indotto a ritenere alcune cose circa la sua identità sessuale, e a rapportarsi in un dato modo con l’altro sesso.
Ciò dipende dalle caratteristiche economiche che si vogliono consolidare, e dal significato o valore che si vuole dare al nucleo familiare. Nella società agricola le famiglie erano importantissime, in quanto alla base della sopravvivenza c’era il duro lavoro che ogni componente della famiglia (anche i bambini in tenera età) doveva svolgere, ognuno nel proprio ruolo.
Nei primi anni del processo di industrializzazione, molte famiglie, impoverite dalla perdita delle terre (sottratte con violenza oppure attraverso strategie di impoverimento), dovettero riversarsi nelle città per lavorare nelle fabbriche. La differenza nella condizione lavorativa, rispetto a prima, consisteva nella totale dipendenza dal datore di lavoro, e nell’impossibilità di tenere vicino il nucleo familiare. Ora i bambini più piccoli erano dispersi per la città, preda di ogni violenza e pericolo. E’ l’epoca in cui nacque la pedagogia, grazie a filantropi come Giovanni Enrico Pestalozzi, che raccolsero molti bambini piccoli (a cinque anni venivano già inseriti nelle catene di montaggio) che erano costretti a vivere in strada poiché i genitori lavoravano per molte ore nelle fabbriche. Scrisse Pestalozzi: “Io volevo salvare il fanciullo destinato al vagabondaggio, forse al delitto”.(1)
Nella società industriale la famiglia viene considerata all’interno dei rapporti di produzione, come forza lavoro potenziale o attuale. Quando la produzione necessitava di molta forza lavoro (ad esempio in tempo di guerra) anche le donne e i bambini venivano inseriti nelle fabbriche. Ad esempio, durante la Prima guerra mondiale, il governo italiano promulgò una “speciale legislazione di guerra” che permetteva di sfruttare le donne e i bambini. Spiega lo studioso Giorgio Porosini, “(le donne lavoravano) senza le usuali garanzie; (la legislazione permetteva) di concentrarle in stabilimenti spesso inadatti e improvvisati, di occuparle molte ore al giorno e della notte in dispregio alle norme consuete; di moltiplicare e di generalizzare ore di lavoro supplementari; di adottare misure di estrema gravità per evitare le assenze collettive e individuali dalle fabbriche, i rifiuti di obbedienza, le minacce; di comminare pene severe anche a donne e bambini”.(2) Ciò significava anche farli lavorare quanto e quando si voleva, compresi festivi e domeniche, con salari più bassi almeno del 30% rispetto a quelli degli uomini adulti. La nuova legislazione eliminò anche le norme a tutela della sicurezza, e gli infortuni sul lavoro aumentarono significativamente. Ovviamente, l’élite dominante fece profitti elevatissimi, e non veniva ritenuta responsabile nei casi di morte o di grave infermità dei lavoratori.
Dall’ultimo dopoguerra si diffuse l’idea che le donne dovessero riacquistare il loro ruolo di “angelo del focolare”, e proliferarono produzioni cinematografiche che vedevano la donna nel ruolo della casalinga, oppure in cerca di marito. Queste produzioni esaltavano l’idea che ogni donna dovesse rimanere “virtuosa” per il proprio futuro marito, e che ogni signorina dovesse aspirare soprattutto ad un buon matrimonio, in cui si sarebbe dedicata esclusivamente al proprio marito e ai figli, sacrificando ogni personale aspirazione. Si ripropose l’assegnazione rigida dei ruoli sessuali, sulla considerazione della presunta “natura” propria di ogni sesso. Ciò prescindeva dalla considerazione degli uomini e delle donne come persone depositarie di libertà di scelta, imponendo una costruzione artificiale dei ruoli, che veniva spacciata come verità assoluta. Tali ruoli generarono una serie di idee, credenze o convinzioni circa il modo di essere di ognuno, in relazione soltanto alla connotazione sessuale.
Dagli anni Cinquanta si consolidarono una serie di idee di ciò che le donne dovevano essere e a cui dovevano aspirare. Idee che determinarono gli stereotipi fissi della donna sottomessa al marito, che rinunciava a tutto per la famiglia, oppure di quella che, anche se di umili origini, si “sistemava” attraverso un buono matrimonio, offrendo il proprio bellissimo corpo al marito, come fosse merce di scambio. Si trattava di stereotipi percepiti come “giusti” per la donna, mentre altri stereotipi rischiavano di dare un marchio infamante a chi in qualche modo vi potesse rientrare. Ad esempio, la donna “libera” sessualmente incorreva nella durissima disapprovazione sociale, rischiando di rimanere sola e di diventare l’argomento preferito nei pettegolezzi di donne e uomini.
A partire dagli anni Settanta, si è prodotta in vari modi una forte confusione nel ruolo sessuale femminile e in quello maschile, generando scompensi di vario genere, e contrasti fra i sessi. Il “femminismo”, anziché sollevare le problematiche femminili e proporre soluzioni per risolverle, spesso si è limitato a denunciare i presunti responsabili della condizione svantaggiata della donna, talvolta accusando l’uomo in modo non costruttivo.
Paradossalmente, lo stesso femminismo, nella misura in cui tendeva a sminuire ciò che può essere “femminile” (es: maternità, dedizione ai figli, ecc.) poteva concorrere a disprezzare il valore delle donne, e rischiava di bloccare l’emancipazione femminile, incoraggiando ad apparire come vittime dell’uomo.
Inoltre, etichettare come “femminista” la donna che faceva presente la sua esistenza all’interno di una società maschilista favoriva l’idea che ciò non fosse interesse di tutte le donne e dell’intera società. Una delle tecniche del sistema attuale per impedire cambiamenti è proprio quella di circoscrivere un fenomeno attraverso un’etichetta, per poterlo distruggere mediaticamente, e fare in modo che appaia interesse di alcuni e non di tutti.
La maggiore libertà nel vivere i rapporti sessuali non si è tradotta in un maggiore equilibrio nel rapporto fra i sessi. Il vecchio modo di impostare i rapporti uomo-donna non è stato soppiantato da un nuovo modo, più equilibrato e favorevole ad entrambi i sessi. Al contrario, agli errori del passato se ne sono aggiunti altri, rendendo tali rapporti in molti casi difficili o distruttivi. L’immagine della donna è stata gravata da notevole confusione e dalla mercificazione mediatica del suo corpo. Mentre l’immagine maschile è stata indebolita da un sistema che sempre più prepotentemente impone le proprie regole, frustrando e alienando, sotto l’apparenza di “democrazia”.
L’attuale sistema non fa nulla per sollevare le tante problematiche relative ai rapporti uomo-donna, e per aiutare le coppie a migliorarsi.
Al contrario, in vari modi concorre a creare contrasti fra i sessi, facendo apparire la situazione di contrasto come immodificabile. Le produzioni televisive e cinematografiche puntano ad esasperare tale situazione, presentando donne e uomini nevrotici, incapaci di stare insieme positivamente, e motivati da aspetti superficiali o distruttivi.
Non si fa emergere che i rapporti di coppia possono evolversi all’interno di dinamiche emotive, affettive o mentali, e che è possibile crescere nel rapporto, anziché considerare l’altro come un corpo seduttivo e nulla più. Si induce a credere che i rapporti veri siano quelli malsani, in cui non c’è equilibrio, oppure in cui una delle parti funge da “oggetto” per l’altro. Si incoraggiano i rapporti non basati sull’autentica conoscenza dell’altro, ma sul bisogno (sessuale o emotivo) di rapporto.
Nell’assenza di vero rapporto, ovviamente, le coppie sono destinate a durare un periodo più o meno breve. Molte persone vivono la “coazione a ripetere”, ovvero la tendenza a vivere storie che non accrescono l’esperienza, in cui si commettono sempre gli stessi errori, nella totale inconsapevolezza.
Le persone di sesso femminile oggi crescono ricevendo messaggi contraddittori circa il loro ruolo sessuale, e le adolescenti possono “risolvere” l’empasse identificandosi con personaggi dei mass media, come le veline o le vallette, assumendo così un’identità appiattita alla superficialità delle immagini seducenti offerte dalla TV.
Oggi molte donne sono ossessionate dal loro aspetto fisico, e indotte a vivere una vita meno creativa e autentica rispetto alle loro potenzialità, mentre gli uomini sono soggetti a ricercare quel senso di potere che il sistema nega loro, rimanendo incapaci, come nel passato, di costruire un costruttivo rapporto con la propria compagna o moglie.
Molte donne esibiscono una falsa indipendenza, che nasconde una scarsa autostima, e il desiderio di trovare un uomo che possa dare sicurezza materiale e affettiva. Ieri come oggi, molte donne rinunciano alla propria personalità per adattarsi al proprio uomo, e soddisfare i suoi desideri, rinunciando ai propri. Queste donne si sentono fragili e bisognose di essere protette da un uomo, e vedono in questa condizione la loro naturale essenza femminile.
Sin da piccole le donne vengono indotte a ritenere di dover cercare la “completezza” e la realizzazione attraverso un’altra persona. Alle bambine vengono raccontate fiabe che le stimolano a sognare il “principe azzurro”, che risolverà ogni loro problema, regalando un’esistenza felice. Il bisogno della donna di appoggiarsi a qualcuno o di doversi sentire dipendente da altri viene alimentato sin dalla più tenera età. Come molti pedagogisti hanno appurato, la bambina viene incoraggiata ad essere dipendente, mentre il bambino ad essere indipendente. La bambina apprende la necessità di dipendere dall’esterno, anche per la considerazione che avrà di sé. Il bambino, invece, impara presto a contare su se stesso, rafforzando la fiducia e l’autostima. Le bambine possono ricevere messaggi che le convincono di essere meno capaci di difendersi da sole dai pericoli oppure che fossero meno degne di fiducia.
Secondo numerosi studi le qualità rafforzate nelle femmine sono diverse rispetto a quelle favorite nei maschietti. Il bambino piccolo, a partire dall’età di due anni riceve un’educazione che lo incoraggia ad avere criteri autonomi nel valutare se stesso, mentre le bambine possono rimanere nella dipendenza e nella passività per molti anni.
Addirittura, negli anni Quaranta dello scorso secolo, esistevano diversi psicanalisti che sostenevano che la dipendenza era una condizione più adeguata alla “femminilità”.
Il maschietto, anche a soli cinque anni, può esibire comportamenti competitivi e dominanti, mentre le bambine, se lo facessero, incorrerebbero nel divieto genitoriale. In alcuni casi queste ultime ricevono strani divieti, come, ad esempio, “non stancarsi”, “stare ferme”, “essere pacate”, che richiamano alla loro mente l’idea di essere fragili, di doversi proteggere, o di non dover rischiare mai nulla. Tutto questo tenderà a renderle persone che si pongono esse stesse dei limiti, avendo timore a rischiare sviluppando i loro talenti o percorrendo strade più difficili.
Le donne possono rimanere legate emotivamente alle madri, a tal punto da aver bisogno della loro approvazione anche da adulte. Ciò potrebbe mettere a repentaglio la fiducia in loro stesse come individui autonomi, ed indurle a cercare protezione all’esterno piuttosto che affrontare le proprie insicurezze.
In tal modo le donne crescono con l’idea che sarà il sistema dei valori del loro ambiente sociale a determinare il loro comportamento, sentendosi condizionate dal giudizio altrui circa il loro aspetto fisico, la loro personalità e persino la loro sessualità. Come spiega la scrittrice Gloria Steinem: “Retaggio lontano dell’infanzia, consolidato negli anni successivi dall’invisibilità che pare appannaggio di tutte le donne che vivono in una società modellata a uso e consumo del maschio… (è) la sensazione… di non-esistenza”.
La donna cresce pensando di essere inadeguata rispetto ai ruoli più attivi e competitivi, che generano in lei paura e ansia. Per molte risulterà rassicurante il focolare domestico, non tanto per il rapporto col partner, quanto per la possibilità di avere una vita comoda e rassicurante, che sfugga alle problematiche inerenti alla realizzazione di sé come persone dotate di talenti o di capacità sociali e creative.
Come scrisse Simone de Beauvoir, le donne si sottomettono “per evitare la fatica di essere veramente se stesse”.(3)
Questo spiega come mai, ad oggi, molte donne scelgono di regredire, accettando relazioni basate sul prevalere della personalità maschile, e sulla rinuncia a gran parte delle proprie ambizioni o desideri. Anche ai nostri giorni esistono rapporti in cui i ruoli sessuali sono rigidi. In questi rapporti l’uomo tende ad essere egoista, prevaricante, e si arroga il diritto di essere servito e riverito dalla donna. Quest’ultima è sottomessa, si abnega, serve l’uomo e rinuncia spesso ai suoi desideri.
I rapporti in cui un partner prevarica, a lungo andare generano un senso di acuto rancore o di risentimento e rabbia, che possono essere indirizzati contro il proprio partner oppure contro se stessi o altri.
Ogni donna dovrebbe principalmente cercare di tirare fuori la sua vera identità, senza paura, e senza cadere nella trappola dei ruoli prefissati, che ingoierebbero parte della sua personalità, per omologarla alla categoria “donna”. Ma le donne, ancor prima che donne, sono persone, e dunque posseggono una propria, unica, identità.
Ogni donna, come ogni persona, dovrebbe acquisire abbastanza fiducia per saper contare su se stessa. Dovrebbe comprendere di avere grandi risorse, che possono arricchire ogni rapporto umano. Quando la donna ritrova se stessa e si libera dei condizionamenti ricevuti dal sistema, inizia a sentire più vitalità e diventa più spontanea, comprendendo che i criteri di giudizio devono provenire dal proprio animo ancor prima che dall’esterno. Secondo la studiosa Karen Horney, le donne che trovano l’autoconsapevolezza diventano capaci di “non fingere, di essere sincere sul piano emotivo, di riuscire a mettere tutte se stesse nei propri sentimenti, nel proprio lavoro, nelle proprie convinzioni”.(4)
La libertà e l’indipendenza sono sempre frutto di impegno, basato sulla fiducia in se stesse e sulla capacità di vedersi persone prima ancora che donne. Persone che si stimano e si amano, altrimenti sarebbe impossibile costruire rapporti adeguati con gli altri.
Molti uomini inficiano il rapporto con l’altro sesso attraverso categorie stereotipate e prefissate, che impediscono loro di conoscere davvero la donna che frequentano o hanno accanto. Occupati a porre attenzione a ciò che in teoria ritengono essere la “donna”, trascurano la personalità propria della donna a loro vicina, e possono dunque non comprenderla o non sviluppare quel rapporto profondo ed empatico che potrebbero avere. Alcuni psicanalisti hanno appurato che molte donne sposate fanno sogni in cui esse si trovano di fronte ai loro mariti, ma questi ultimi non le vedono. Il significato di questi sogni è che esse non si sentono “viste”, ovvero non sentono che la loro vera e profonda identità sia conosciuta dai loro coniugi. In altre parole, si sentono invisibili ai loro occhi come persone dotate di una precisa identità individuale.
Molte mogli sfogano il senso di essere “invisibili” attraverso note di biasimo rivolte al loro marito. Osserva il dottor Martin Symonds: (il biasimo) “è un metodo molto efficace per le persone ansiose che hanno poca stima di sé. Nel momento in cui esprimono le loro critiche, esse si creano l’illusione che nei panni del ‘criticato’ avrebbero agito molto meglio”. (5)
La forte critica verso il proprio partner, specie quando egli ha una personalità più forte o prevaricante, viene ad essere un modo per illudersi di poter avere un qualche potere. Il bisogno di criticare il proprio partner con le amiche, può essere un modo per tentare di riacquistare un po’ di autostima, non avendo la forza necessaria per far valere direttamente le proprie istanze.
Alcune donne possono provare una segreta soddisfazione nel considerare il proprio uomo debole o inadeguato, poiché percependolo debole hanno la certezza che egli avrà sempre bisogno di loro. Ciò permette di recuperare un po’ di fiducia nelle proprie capacità, ma non in quanto persone, piuttosto come “infermiere” a servizio di chi ha bisogno.
Molte donne utilizzano la sottomissione per poter esercitare in modo sotterraneo una manipolazione dell’altro. Queste donne desiderano esercitare un dominio a tal punto da cambiare l’altro, e talvolta il loro comportamento occultamente e astutamente manipolatorio viene visto come inquietante dall’uomo. Quasi si risvegliasse il vecchio stereotipo femminile della strega dotata di poteri magici. Per degradare il femminile, per molti secoli si è fatto ricorso alla superstizione o al racconto raccapricciante. Solo in tempi relativamente recenti sono state poste, nei racconti fiabeschi, le fate come nettamente divise in benigne o maligne (streghe). Anticamente erano tutte maligne/benigne al tempo stesso, ambiguamente, così come veniva inteso il femminile.
Le donne ricorrono anche a diverse tecniche di dominio, di solito basate sul senso di colpa, attraverso le quali intendono “forzare” il comportamento del partner. Il voler ottenere risultati facendo leva sui sensi di colpa indica una grande insicurezza e sfiducia. Caratteristiche che ostacolano la ricerca di una vera crescita interiore, che implica libertà per sé e per l’altro.
L’esistenza ci vede tutti vulnerabili e in preda a paure o ansie di vario genere, la cosa importante è non credere di risolvere la propria condizione esistenziale attraverso pseudo-soluzioni, ovvero negando il proprio “Io” più profondo per soccombere a ruoli sociali stereotipati, privandoci della vera libertà, che non può esistere senza assumersi la responsabilità di se stessi.
Non si può crescere senza rischiare e accettare che non tutto si può tenere sotto controllo, e non tutto può essere semplice da affrontare. La vita offrirà di tanto in tanto alcune sfide, o alcune esperienze più difficili da affrontare, e non ci si deve credere onnipotenti, ma neanche si deve credere di potersi sottrarre alle sfide appoggiandosi ad un’altra persona. Abbandonare l’infanzia significa accettare la responsabilità di se stessi, e acquisire la capacità di realizzare la propria esistenza così come la si vuole, senza essere condizionati da altre persone.
Dedicarsi completamente alla famiglia è accettabile, quando si tratta di una scelta libera, non dovuta al tentativo di sottrarsi a se stessi. Potersi dedicare ai propri figli può dovrebbe essere un diritto per la donna, ma oggi essa può non essere libera di farlo.
Si è passati dall’imposizione sociale del ruolo della casalinga all’impossibilità di dare l’opportunità ad ogni donna di poter avere figli e di crescerli adeguatamente.
Oggi le donne sono disorientate dalla propria condizione di persone sfruttate in casa e fuori casa, e dall’ambiguità del ruolo che la società gli riconosce. Esse devono svolgere comunque la mansione di “casalinghe”, anche quando sono impegnate a lavorare full-time. E’ assai raro trovare un uomo che sia disposto a suddividere equamente il lavoro casalingo, poiché sopravvivono i vecchi pregiudizi circa i rigidi ruoli sessuali.
Le donne sono sottopagate e nella maggior parte dei casi svolgono lavori servili e sottoqualificati, ricevendo salari miseri.
Non si tiene conto che se le donne non realizzano pienamente ciò che sono, tutta la società ne risentirà. I loro talenti e l’impoverimento mentale a cui possono essere soggette ricadrà sulla qualità del Paese.
La realtà del sistema attuale è maschile e maschilista. Maschile perché basata su caratteristiche prettamente incoraggiate nei maschi, come la competitività, l’aggressività, l’autostima, le sicurezza in se stessi e la capacità di farsi valere; maschilista perché subordina gli aspetti femminili (ad esempio, l’intuito, l’emotività, l’empatia, la solidarietà, ecc.) a quelli maschili, considerando i primi come “inferiori” ai secondi.
Le “donne nuove” che il femminismo si presume abbia creato, sono persone che vivono in una realtà in parte immaginaria, in cui il vecchio senso di sé coesiste col nuovo, creando confusione e ansia. Molte donne dichiarano di essere indipendenti, autonome e gelose della propria libertà, ma dentro di esse si nasconde la donna bisognosa di affetto, che cerca l’uomo giusto, e che se innamorata esibisce comportamenti non degni dell’autostima e dell’indipendenza dichiarate.
Alcune di queste persone, divenute cinquantenni, oggi cercano nelle chat un modo per vincere la loro solitudine, cercando rapporti sessuali “senza impegno” con uomini che considerano ormai incapaci di offrire loro la splendida favola della loro infanzia. Ciò che tradisce la triste condizione esistenziale di queste donne è l’ossessività con cui cercano rapporti, e la quantità di tempo che dedicano alla chat, rinunciando alla vita reale, che magari potrebbe offrire opportunità sociali e sentimentali più autentiche di quelle sperimentate virtualmente. Una professoressa di 48 anni ha scritto la propria storia alla rivista “Tu”, confessando che “incontro uomini sul web… è diventato il miglior modo per sentirmi meno sola”.(6) Probabilmente, se ci si sente depresse, potrebbe essere meglio rivolgersi alle chat piuttosto che andare dal medico, col rischio di ottenere la prescrizione di psicofarmaci che distruggeranno la mente e provocheranno sintomi inquietanti. Negli ultimi anni, la quantità i donne che fanno uso di psicofarmaci è aumentata drammaticamente, specie fra le donne al di sopra dei 35 anni. Nel nostro paese, dal 1999 al 2006, l’uso di psicofarmaci è triplicato, e interessa anche anziani, bambini e adolescenti. Le donne ne fanno uso più degli uomini.(7)
Ciò rivela che i problemi dovuti alla confusione dei ruoli e alla dipendenza dall’esterno possono creare in alcune donne problemi psicologici, che in molti casi “curano” con psicofarmaci.
Molte donne tendono a vedersi con gli occhi “esterni”, degli altri, esponendosi così a maggiori condizionamenti mediatici. Oggi molte pubblicità sono dirette proprio alle donne, allo scopo di condizionarle e indurle ad acquistare prodotti di bellezza, dietetici o per la casa. Le pubblicità di prodotti cosmetici sono tantissime, e mirano a ricordare alla donna i problemi estetici dovuti all’età (rughe, cellulite, pelle non luminosa, ecc.) per indurla a “risolvere” il problema attraverso un prodotto chimico. Queste pubblicità tengono conto della tendenza femminile a vedersi con occhi altrui, e creano, facendo leva su questa debolezza, uno stato di disagio, per far acquistare il prodotto. Si bombarda la donna con allusioni negative sul suo corpo, avvertendola che il suo aspetto estetico deve essere sempre tenuto sotto controllo, pena la perdita di fascino e di potere seduttivo. Con questi messaggi si fa molto di più che convincere a comprare un prodotto: si fornisce alle donne un criterio di autovalutazione, che ammette soltanto il giudizio sul corpo, considerato dunque tutto ciò che vale la pena di curare, o che non si deve fare a meno di curare.
Sono quasi sempre le donne a contrarre malattie dell’alimentazione, come l’anoressia e la bulimia. L’anoressia colpisce soprattutto ragazze dai 12 ai 21 anni, che cercano di fare diete dimagranti, per mettersi al pari dei modelli vigenti. Credendo di dover dipendere da valutazioni provenienti dall’esterno, la giovane donna, condizionata dai media, diventerà seduttiva, e cercherà di far propri quei modelli di seduzione femminile che derivano dal desiderio sessuale maschile.
Secondo la scrittrice Colette Dowling le donne sono attanagliate da molte paure e insicurezze che potrebbero superare:
“C’è una nuova crisi nella femminilità – la situazione conflittuale è legata a una certa confusione tra quel che è ‘femminile’ e quel che non lo è – e impedisce a molte donne di funzionare serenamente, in modo ben integrato. Per anni la femminilità è stata associata – anzi, identificata – con la dipendenza… Chi vuole incominciare a sentirsi soddisfatta di se stessa deve innanzi tutto avere il coraggio di comprendere che cosa le succede dentro… la prima cosa che le donne devono cercare di capire è fino a che punto la paura governa la loro vita… Paura di essere indipendenti… di essere capaci… di essere incapaci… La paura si è infiltrata a livello così profondo nell’esperienza femminile da essere come una piaga occulta. Si è stratificata nel corso degli anni in virtù del condizionamento sociale ed è tanto più insidiosa in quanto così profondamente radicata nella nostra cultura che nemmeno ci rendiamo conto della sua esistenza… Ci sarà impossibile realizzare dei veri cambiamenti di vita… finché non incominceremo a lavorare sulle ansie… (e) non inizieremo a fare una specie di contro-lavaggio del cervello”.(8)
Il problema della confusione femminile dei nostri giorni può essere semplificato attraverso la dinamica dipendenza/indipendenza. In modo esplicito si richiede alla donna di oggi di essere indipendente quanto l’uomo, ma implicitamente, in vari modi, si chiede di essere diversa dall’uomo, più docile, più dipendente e più disposta a rinunciare a se stessa per gli altri. La donna realmente indipendente e impegnata a realizzare la sua personalità in modo autonomo viene spesso percepita come “mascolina” oppure come egoista. In altre parole, anche oggi la femminilità viene associata al sacrificio e alla dipendenza, e si plaude alla donna sottomessa al marito, e non a quella che sceglie di seguire la sua inclinazione lavorativa. Talvolta, quando si deve valutare una donna di successo, si tende ad attribuire i risultati alla “fortuna” piuttosto che al merito, mentre nel caso in cui si tratti di un uomo si tende a valutare correttamente. Da alcune ricerche emerge che le stesse donne sono inclini ad attribuire il loro successo a cause “esterne” (fortuna, facilità del compito) piuttosto che ai propri meriti. Ciò dipende dall’idea di non valere granché.
Tale idea, anziché generare un’azione reattiva che consenta di acquisire fiducia in se stesse, spesso produce un senso di vittimismo e di ingiustizia, come se si volesse trovare all’esterno una causa alla propria condizione, per poterla giustificare e dunque renderla immodificabile. Queste donne possono provare invidia per le persone più sicure di loro, che hanno quel successo che esse si impediscono di avere.
La Dowling parla del “complesso di Cenerentola”, come di una sindrome che colpisce molte donne, e che consiste in una serie di paure e insicurezze che, invece di essere affrontate, provocano nella donna il desiderio di essere “salvate” da un uomo. Ovvero di trovare un uomo capace di dare loro sicurezza affettiva e materiale, in modo tale da non dover affrontare le proprie paure, che risalgono all’infanzia. Non sempre è facile riconoscere queste donne, perché esse possono nascondersi dietro una maschera di indipendenza e di autosufficienza. In realtà esse tradiscono la loro condizione attraverso un segreto bisogno, manifestato all’occorrenza, di appoggiarsi all’uomo, o attraverso la sfiducia nelle proprie risorse. Molte di queste donne hanno vissuto un’infanzia attanagliata dal senso di solitudine o dal desiderio di avere maggiori attenzioni da parte dei genitori. Pur diventando adulte, queste donne conservano il desiderio di essere amate come figlie, e cercano quelle attenzioni che presumono non aver avuto da bambine. Alcune di esse hanno avuto padri esigenti, che le amavano a condizione che obbedissero a tutto ciò che veniva loro richiesto. In cambio il padre si prendeva cura di loro e le amava come le “piccole di papà”. Diventando adulte, molte donne non riescono ad avere il tipo di crescita che richiede un netto distacco dai genitori, e un temporaneo senso di isolamento, che risulta doloroso, specie quando i genitori sono molto presenti e protettivi. Crescere significa rinunciare all’immagine del genitore onnipotente che protegge da tutti i mali, e dover acquisire quella crescita mentale ed emotiva che nasce dal fare i conti con una realtà non sempre a noi gradevole e non sempre facile da affrontare. La mancata crescita fa rimanere le donne nell’infanzia, alla ricerca di un uomo che possa ricreare un’analoga situazione di dipendenza.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) oggi la violenza di Genere, o la violenza contro le donne, è nel mondo uno dei problemi più gravi di salute pubblica e di diritti umani violati.
La violenza subita dalle donne ad opera degli uomini può essere di tipo sessuale, psicologica, fisica, verbale ed economica. La violenza subita dal partner viene chiamata anche “violenza domestica”.
I nostri media si occupano spesso del problema del burka per le donne musulmane o delle discriminazioni praticate dall’Islam, ma difficilmente affrontano il problema delle violenze che le donne italiane subiscono ad opera dei loro compagni o mariti. Eppure il fenomeno è assai più esteso rispetto alle statistiche ufficiali, che di solito si basano sulle denunce (molte tengono il problema nascosto). Si tratta di un problema che interessa tutti i livelli socio-economici e tutti i paesi del mondo. In molti paesi il problema non è considerato adeguatamente dalla legislazione. Ad esempio, in 33 Stati degli USA il reato di stupro da parte del marito è stato depenalizzato, e in cinque Stati anche il convivente può impunemente stuprare la compagna. Addirittura nel Delaware, la depenalizzazione riguarda anche chiunque abbia avuto almeno un rapporto sessuale consenziente nell’anno prima rispetto al reato. Le violenze contro le donne, commesse da partner di sesso maschile, hanno dimensioni incredibili. Negli Stati Uniti, ogni anno 700.000 donne vengono violentate o aggredite, mentre in Francia almeno 50.000 donne subiscono violenza di tipo sessuale, e la maggior parte di esse non sporge alcuna denuncia.
Secondo un rapporto del 2005 del Consiglio d’Europa, la violenza familiare sarebbe, per le donne tra i 16 e i 44 anni, in Europa, la prima causa di morte, prima degli incidenti stradali e del cancro. Persino in Svezia i dati sulla violenza femminile sono molto alti, addirittura ogni dieci giorni una donna viene uccisa.
Secondo le statistiche dell’Istat, in Italia c’è un livello altissimo di violenza contro le donne. I comportamenti di minaccia o persecutori di ex partner riguarderebbero oltre due milioni di donne. Negli ultimi 12 mesi, oltre un milione e mezzo di donne sono state vittime di violenza sessuale o fisica.
Nel 2005 le donne uccise dagli ex partner sono state 134, e 112 nel 2006. Nel 2006, in Italia, ci sono stati 74.000 stupri, il 6,6% dei quali ha riguardato minorenni. Nei primi sei mesi del 2007 sono state uccise 62 donne, 141 sono state vittime di un tentato omicidio, 1805 hanno subito abusi sessuali, mentre 10.383 sono state picchiate violentemente (botte, pugni, ossa rotte, ecc.). Le vittime hanno generalmente un’età che va dai 25 ai 45 anni, sono persone laureate e diplomate, e svolgono anche attività prestigiose. Dalle statistiche risulta che negli ultimi anni i fenomeni di violenza sulle donne sono addirittura raddoppiati, e questo ci deve portare a ritenere il problema molto attuale. Ovviamente, gli aguzzini non sono in grado di riconoscere nella donna una persona da rispettare, dotata di autonomia e dignità, e questo risulta in stridente contrasto con l’apparente egualitarismo della nostra società.
Ai nostri media piace mostrare che nei casi di maltrattamento o di violenza sulle donne i carnefici siano immigrati, magari rumeni o albanesi. Ma si da’ il caso che anche in molti casi in cui la vittima è straniera, i responsabili sono spesso uomini italiani. Ad esempio, in Emilia Romagna, nel 2003, il 74,45% delle donne extracomunitarie che sono andate nei centri antiviolenza sono state maltrattate da uomini italiani.
La domanda è: cosa induce gli uomini a creare una situazione così altamente distruttiva?
Secondo molti studiosi si tratta della difficoltà dell’uomo a riconoscere nella donna un essere umano “altro da lui”. Ovvero a riconoscere che la donna non è una sua proiezione o un oggetto che serve a soddisfare i suoi bisogni. La base per un vero rapporto è il riconoscere la diversità dell’altro, senza volerla cancellare. In questi termini, ci accorgiamo che il problema della violenza di genere ci riguarda tutti, come un aspetto inquietante dovuto a distorsioni proprie della cultura comune. Ciò che ci riguarda da vicino non è tanto l’epilogo più o meno violento di alcune storie che salgono alla cronaca, ma tutto quello che riguarda il rapporto fra i sessi e la relazione uomo/donna. Molte situazioni possono rientrare nella “normalità” perché esuli da forme estreme di violenza, ma tuttavia porre “in nuce” situazioni che possono costituire fattori scatenanti nelle coppie in cui la violenza esplode.
Alcuni uomini credono, vivendo in una società maschilista, che la condizione di “mascolinità” debba conferire loro una certa superiorità verso le persone del sesso opposto. Essi si sentono di avere il diritto di dare ordini non solo ai propri figli ma anche alle mogli, come se esse non avessero alcuna dignità di persone dotate di cervello. Allo stesso tempo questi uomini, per deresponsabilizzarsi nel caso in cui le mogli sollevassero lamentele, cercano di svilire l’essere donna, cercando di mettere in rilievo le debolezze femminili, da cui loro in realtà traggono grandi vantaggi. Questi uomini descrivono le donne come infantili, deboli e talvolta isteriche o “pazze”. Anziché considerare gli stati d’animo femminili come dovuti a situazioni emotive o psicologiche, preferiscono inserire nella categoria “donne” ogni scompenso psichico, in modo tale da non dover fare i conti con la realtà, preferendo continuare a trattare la donna come una non-persona.
In altre parole, nell’attuale realtà, come in passato, la donna viene “mercificata” e trattata sulla base delle esigenze maschili. Come negli anni Cinquanta, anche molti uomini di oggi vorrebbero una donna arrendevole, passiva, capace di adattarsi al marito, e priva di proprie idee e opinioni. Ma un vero rapporto uomo-donna non può certo basarsi sull’arrendevolezza del sesso femminile, poiché rinunciare al proprio essere persone sarebbe deleterio per qualsiasi rapporto.
Alcune donne scelgono rapporti inadeguati, con uomini che proiettano in loro aspettative che “cancellano” parte della loro personalità. Esse si sentono di fare questo perché percepiscono la loro femminilità nel vecchio modo, ovvero come dovere di amare sacrificando se stesse. Ma il vero dare se stessi non accetta l’umiliazione, lo sminuirsi o il ricevere un trattamento ingiusto. Ciò, al contrario, è segno di incapacità di amare, basandosi sulla sfiducia e sull’insicurezza piuttosto che, come nel caso del vero amore, sulla capacità di amarsi. Come spiega la Dowling: “Il problema a cui ci si riferisce qui è quello che gli psicologi chiamano ‘separazione-individuazione’, e ha a che vedere con la capacità o meno dell’individuo – uomo o donna che sia – di sopportare il fatto di essere principalmente e fondamentalmente solo: una persona che si regge sulle proprie gambe, ha le proprie idee e una visione personale della vita. E’ la mancanza di separazione-individuazione che manda i matrimoni in frantumi”.(9)
Il desiderio di essere uniti in modo simbiotico con un altro essere umano richiama all’infanzia, quando ci si voleva sentire onnipotenti e invulnerabili, e per questo veniva idealizzata l’immagine genitoriale che proteggeva. L’incapacità di crescere e di diventare adulti è propria di molte persone, poiché la crescita richiede lavoro su se stessi, un impegno costante per far maturare le proprie emozioni, e la rinuncia definitiva all’onnipotenza e all’invulnerabilità.
Uomini e donne, seppur in modo diverso, vorrebbero rimanere nell’infanzia, mantenendo quel senso di rassicurazione che ricevevano. Mentre le donne dimostrano ciò attraverso la ricerca di sicurezza affettiva e protezione maschile, gli uomini lo manifestano attraverso comportamenti prevaricanti e prepotenti, che hanno lo scopo di mantenere in loro il senso di potere onnipotente e di forza. In casi estremi, questi uomini vogliono esercitare un controllo assoluto sulla propria donna, come se essa fosse un oggetto di loro proprietà.
Il senso di onnipotenza infantile induce questi uomini a credere di avere un totale potere sulla loro donna, anche quello di toglierle la vita. Alcuni di essi, dopo aver ucciso la donna, non si pentono, ma addirittura ritengono di essere stati vittime. Ad esempio, Mario Mariolini, che costringeva la propria compagna Monica Calò a non mangiare per pesare meno di 40 chili, quando la donna cercò di sottrarsi al rapporto, la uccise. Dopo il delitto dichiarò di non essere in alcun modo responsabile, in quanto “vittima costretta all’atto criminoso”.
La storia di Mario e Monica è un esempio limite per capire le esasperazioni possibili in un rapporto di coppia. Mario desiderava soltanto donne scheletriche, e dunque Monica accettò per un certo periodo di tempo di rinunciare a mangiare per diventare anoressica. Ma ad un certo punto la ragazza aveva fame e voleva ritornare a mangiare. La donna, succube dell’uomo, deduce di poter ritornare alla vita normale se riuscirà a liberarsi di Mario, e dunque lo prende a martellate nel sonno, ma lui si salva e lei viene messa agli arresti domiciliari per un anno. Tornata libera, Monica non vuol più saperne di Mario, che invece continua a cercarla in maniera ossessiva. Alla fine Monica decide di incontrarlo, e per sicurezza gli da’ appuntamento in un luogo affollato, una spiaggia di Intra, sul lago d’Iseo. Ma questo non servirà a salvarla: Mario la uccide a coltellate, cercando poi di suicidarsi gettandosi nel lago, ma viene salvato. Sarà condannato a trenta anni di carcere.
Quello che emerge da questa tragica storia è la disponibilità iniziale di Monica di rinunciare persino alla salute fisica per assecondare il proprio uomo, svelando così un potenziale autodistruttivo non percepito come tale. Tuttavia, quando ella si rende conto dell’assurdità del suo comportamento cerca aiuto nei genitori, che si rivolgeranno alle forze di polizia. Ma, nonostante i casi di criminalità di Genere siano tutt’altro che rari, le forze di polizia di solito attuano scarsi interventi e dunque, come nel caso di Mario, si tratterà di omicidi annunciati, che offrivano tutti i sintomi per poterli impedire.
In molti di questi casi l’uomo premedita il delitto, come punizione o come suo diritto, in quanto l’oggetto che era in suo possesso adesso non è più controllabile. L’assassino può provare piacere nell’uccidere, poiché vive il delitto come sfogo, oppure come riparazione dovuta al suo orgoglio ferito. Egli vive immerso nel totale egocentrismo, incapace di vero slancio verso gli esseri umani. Si tratta di uomini-bambini, in cui sopravvive il senso di onnipotenza dell’infanzia e il narcisismo, che conferisce loro un’irrinunciabile senso di potere, che esprimono a spese della donna.
Il narcisismo infantile induce queste persone a mettersi al centro del mondo, con arroganza e superficialità, e quando la donna provoca una ferita narcisistica non accettando più di vivere subordinata al suo ego, ecco che esse ritengono doverono renderle la vita un inferno, fino a raggiungere, in alcuni casi, il tragico epilogo.
In questi delitti non è l’amore la causa scatenante, al contrario, è l’incapacità di amare, che induce a vedere l’altro come un oggetto che soddisfa i propri bisogni, e quando non è più soddisfarli può essere distrutto.
Il nostro sistema attuale stimola il narcisismo, il protagonismo e la superficialità, impedendo in vari modi una vera crescita emotiva. L’egocentrismo e il narcisismo spesso nascondono una profonda insicurezza e un senso di impotenza, che stimola il bisogno di controllo. Come spiega la studiosa Nancy Mc Williams: “in ogni narcisista fatuo e grandioso si nasconde un bambino impacciato e vergognoso e in ogni narcisista depresso e autocritico è latente un’immagine grandiosa di ciò che la persona dovrebbe o potrebbe essere”.(10)
L’uomo-bambino, che persiste nell’egoismo e nel narcisismo, è incapace di vero amore, e utilizza gli altri come oggetti da usare secondo le proprie esigenze egoiche. Alcuni elementi che rivelano la personalità di un uomo-bambino sono la difficoltà a stare in relazione con l’altro, la mancanza di empatia, la difficoltà a provare sia rimorso che gratitudine, e l’incapacità di chiedere scusa. Il chiedere scusa necessita della capacità di riconoscere l’altro, di preoccuparsi per lui e di ammettere un errore. Ma la personalità dell’uomo-bambino narcisista ed egoico difficilmente riconosce i propri errori, piuttosto li proietta nella donna, attribuendole le cause della sua sofferenza. Queste persone difficilmente si mettono in discussione, poiché fanno fatica a gestire un eventuale conflitto interiore. Esse hanno bisogno di trasferirlo all’esterno, sottraendo energie alle altre persone. La donna viene “deumanizzata” e degradata al livello di un oggetto che soddisfa l’ego.
Attraverso di essa l’ego dell’uomo-bambino potrà attuare una “manipolazione onnipotente”, che si tradurrà in sfruttamento e maltrattamento.
La donna può all’inizio cedere alle proprie tendenze all’abnegazione, provando addirittura un senso di eccitazione nel perdere autonomia e separatezza. Non si accorge che l’uomo-bambino tende a valorizzare se stesso a spese sue. Sperimenta un senso di fusione, che le risulta piacevole in quanto essa è stata educata a credere che il suo ruolo sessuale preveda uno stretto rapporto con l’uomo, che in cambio dell’abnegazione le offrirà protezione e sicurezza. Ma col passare del tempo, quando il rapporto si fa sempre più asfissiante, la sua personalità ne soffre, ed emergeranno anche problemi di vario genere (maltrattamenti, problemi materiali, ecc.) che spingono la donna a cercare di riprendere se stessa.
L’essere lasciati rappresenta per molti uomini una frustrazione difficile da sopportare. Osserva la psicoterapeuta Marinella Cozzolino: “lasciare il proprio compagno è come dire di avere il 30% di probabilità di essere minacciate, molestate o addirittura uccise da lui. Per gelosia, per rabbia, per paura dell’abbandono, della solitudine, ma anche per vendetta e per punizione”.(11)
Spesso le persecuzioni e le molestie durano anni, allo scopo di riprendere il controllo dell’altro, talvolta minacciando il suicidio o l’omicidio della donna o dei suoi più stretti familiari. Ovviamente, un comportamento del genere allontana ancora di più, e spinge a cercare protezione nella famiglia o nelle istituzioni.
L’attuale sistema così come non valorizza le donne, non prevede nemmeno leggi apposite per proteggerle, anche nei casi più disperati. Fino al 1981, l’art. 587 del codice codice penale Rocco (in vigore dal 1930 e abrogato con la legge n. 442 del 5-8-1981) prevedeva, nei casi di uccisione di una donna da parte di un uomo, una pena molto contenuta, che andava da i tre ai sette anni di carcere. L’articolo diceva: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.
Da notare che per avere una pena così lieve rispetto al reato, bastava attribuire una relazione (anche “clandestina”) fra la donna e l’uomo che l’aveva uccisa.
Pur avendo abrogato l’articolo, i nostri legislatori non hanno ancora formulato una legislazione adeguata che protegga efficacemente la donna in caso di persecuzioni, minacce o violenze da parte di un ex marito o compagno.
Spesso gli uomini-bambini sono ben mimetizzati attraverso una maschera di “normalità”, e soltanto la donna conosce appieno il loro narcisismo egoistico. I maltrattamenti subiti da donne che vivono con uomini-bambini sono spesso di tipo psicologico. Ad esempio, quando esse cercano di sollevare qualche problema relazionale, vengono convinte a non credere alle loro stesse percezioni, instillando l’angoscia di stare impazzendo o di non essere “normale” (dunque di meritare i maltrattamenti). Le violenze psicologiche sono assai nocive perché mirano ad abbassare ulteriormente l’autostima, dando la percezione di essere prive di valore. Tali violenze servono a far accettare il maltrattamento fisico, che, all’interno della percezione di nullità o colpa, sarà visto come dovuto.
In molti modi gli uomini-bambini possono minare l’equilibrio psichico della loro donna, facendole credere di essere “sbagliata”, di inventarsi i problemi o di essere esageratamente ansiosa senza alcun motivo. In realtà queste donne cercano più attenzioni per il loro vero essere, e tentano invano di creare una vera relazione. Ma l’uomo egoico ha imparato sin da piccolo ad essere reattivo, competitivo e aggressivo, e a non cedere alle emozioni più intense, quelle necessarie a vivere una relazione emotivamente coinvolgente. Una relazione in cui l’altro è riconosciuto come persona con sue proprie caratteristiche e dotata di autonomia. Tale relazione è percepita dall’uomo egoico come una minaccia al proprio sé, in quanto egli è incapace di percepire la realtà femminile come avente dignità pari a quella maschile.
Ovviamente, non sempre una situazione di squilibrio di coppia degenera nell’omicidio, più spesso c’è violenza domestica (fisica o psicologica). In alcuni casi le stesse donne non sono in grado di riconoscere la situazione di disagio, sovvertendo psicologicamente la realtà, in quanto essa appare troppo dura da affrontare. Percepiscono che qualcosa non quadra, ma si illudono che tutto sommato le cose possono migliorare. In altri casi la donna è ben cosciente di subire maltrattamenti, ma crede di essere “colpevole” di qualcosa, come fosse una bambina picchiata dal genitore. Purtroppo molte donne che subiscono maltrattamenti si ostinano a proteggere il proprio uomo, permettendogli di mantenere la maschera di “normalità”.
I rapporti che sfociano nel delitto, di solito si basano su un’insana dipendenza, che impedisce la creazione di un vero legame empatico.
Come spiega il pedagogista Valerio Sgalambro: “la dipendenza inizia dove finisce la capacità di vivere il rapporto come flusso e riflusso, movimento eterno tra separatezza e fusionalità. Quando l’altro non è più libero di ‘essere’, ma è costretto ad assumere un ruolo od una funzione-finzione, l’amore non è più moto d’animo, ma compensazione di qualcosa che supplisce i nostri vuoti, le nostre paure, i nostri bisogni”.(12)
Ovviamente, non tutti i rapporti non equilibrati conducono a situazioni di grave violenza, tuttavia è molto comune che nelle coppie non si instauri un legame costruttivo, che conduca entrambi i sessi ad arricchire la propria esistenza. Secondo la scrittrice Gloria Steinem gli uomini non vengono abituati a vivere adeguatamente le loro emozioni e di conseguenza avranno difficoltà a rapportarsi all’altro sesso: “Sono gli uomini con un’autostima debole a creare i maggiori problemi alle donne… (essi sono) incapaci di avvicinarsi ai sentimenti e ai pensieri dell’altro, per una sorta di anestesia affettiva che molto spesso gli impedisce di percepire le loro stesse emozioni (e genera) l’incapacità di relazionarsi con le donne su un piano di eguaglianza”.(13)
Per concludere, vale la pena soffermarsi a riflettere sulla tendenza maschile a considerare la donna meno di ciò che è, e sulla tendenza femminile a considerare l’uomo più di quello che è. Abbiamo visto come queste distorsioni possono produrre problemi più o meno gravi, impedendo un rapporto costruttivo fra i sessi.
In un sistema basato sulla legge del più forte occorre chiedersi quanto sia importante costruire rapporti equilibrati, basati sull’uguaglianza, all’interno del proprio nucleo familiare.
Occorre tener presente che un sistema in cui domina un ristretto gruppo di persone è possibile soltanto in un assetto in cui gli esseri umani sono prigionieri delle loro stesse paure, che generano sfiducia e desiderio di potere ingiusto. All’interno di tale sistema non bisogna trascurare la difficoltà di tutti (uomini e donne) a raggiungere un adeguato equilibrio e a mantenere alta l’autostima e la sicurezza in se stessi.
Secondo la scrittrice Gloria Steinem, senza un forte autostima non è possibile avere alcuna democrazia: “L’autostima (è) il prerequisito della democrazia, e soprattutto di quell’uguaglianza sociale che ne è un fondamentale aspetto… lo sviluppo economico scorporato dal concetto di autostima è destinato a sfociare… in una nuova forma di colonialismo: in altri termini in uno sviluppo gestito dall’alto, dove ciò che ha sviluppo non coincide con gli orientamenti culturali della popolazione, ma va a scapito della persona… La finalità di una famiglia sana (deve essere quella) di creare cittadini del mondo, che abbiano una dose di fiducia in se stessi tale da consentirgli di trattare gli altri in modo paritario: non peggio, come propone il modello ‘maschile’ e colonialista; non meglio, come propone invece il modello ‘femminile’ e colonizzato, ma allo stesso modo”.(14)
Sarebbe un paradosso pretendere che una società basata su rapporti diseguali possa dare vita ad una democrazia, che per la sua stessa essenza esige l’eguaglianza. Gli stegocrati sanno che la diseguaglianza è la base di ogni sistema tirannico (che per sua natura richiede la prevaricazione e l’ingiustizia), per questo nelle dittature mascherate vengono alimentate così tante diseguaglianze (donne/uomini, poveri/ricchi, cittadini/immigrati, ecc.), che impediranno una vera democrazia.
I valori umani e la democrazia devono crescere dapprima nei nostri cuori, poi nelle nostre case, e soltanto dopo possono costituire la base della nostra società. Pretendere che essi provengano dall’alto significa accettare le dittature mascherate e sentirsi incapaci di determinare alcunché. Significa essere sudditi lamentosi ma sottomessi.
Una dittatura può essere imposta soltanto ad una società predisposta ad essere dominata, nella quale la libertà interiore è merce rara, e in cui credere di non poter cambiare nulla rappresenta un comodo alibi per non cambiare se stessi.
Antonella Randazzo
Fonte: http://antonellarandazzo.blogspot.com/
Link: http://antonellarandazzo.blogspot.com/2008/05/i-ruoli-sessuali-e-lequilibrio-psichico_28.html
28.05.08
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NOTE
1) Reale Giovanni, Antiseri Dario, Laeng Mauro, “Filosofia e pedagogia dalle origini ad oggi”, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 35.
2) Porosini Giorgio, “Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale”, La Nuova Italia, Firenze 1975.
3) Cit. Dowling Colette, “Il complesso di Cenerentola. La segreta paura delle donne di essere indipendenti”, Longanesi & C., Milano 1982, p. 12.
4) Dowling Colette, op. cit. p. 199.
5) Symonds Martin, “Psychodynamics of Aggression in Women”, in “American Journal of Psychoanalysis, vol. 36, 1976.
6) “Tu”, 6 maggio 2008, p. 52.
7) Fonte: “RaiNews24”, 28 novembre 2007.
http://www.rainews24.it/ran24/rainews24_2007/magazine/cura_misura/
8) Dowling Colette, op. cit., pp. 46-52.
9) Dowling Colette, op. cit. p. 128.
10) McWilliams Nancy, “La diagnosi psicoanalitica. Struttura della personalità e processo clinico”. Astrolabio – Ubaldini, Roma 1999, p. 193.
11) Cozzolino Marinella, “Il peggior nemico”, Armando Editore, Roma 2001.
12) Sgalambro Valerio, www.ilcouseling.it
13) Steinem Gloria, “Autostima”, Rizzoli, Milano 1994, p. 11.
14) Steinem Gloria, op. cit. pp. 21-28.
BIBLIOGRAFIA
Cozzolino Marinella, “Il peggior nemico”, Armando, Roma 2001.
De Beauvoir Simone, “Memorie di una ragazza per bene”, Einaudi, Torino 1976.
De Beauvoir Simone, “Il secondo sesso”, Il Saggiatore, Milano 2002.
Deutsch Helene, “Psicologia della donna”, Boringhieri, Torino 1977.
Dowling Colette, “Il complesso di Cenerentola. La segreta paura delle donne di essere indipendenti”, Longanesi & C., Milano 1982.
Grande Luigi, “Eros alla sbarra”, Vallecchi, Firenze 1992.
Horney Karen, “Psicologia femminile”, Armando, Roma 1993.
Horney Karen, “I nostri conflitti interni”, Martinelli & C., Firenze 1994.
Steinem Gloria, “Autostima”, Rizzoli, Milano 1994.