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La Redazione

 

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I NOSTRI VALORI ASIMMMETRICI

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A cura di Davide
Il 28 Marzo 2006
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DI GIULIETTO CHIESA

“Il disastro di Yushenko”, titola International Herald Tribune. Fine della “rivoluzione arancione”, scrivono più o meno tutti gli altri. Succede, quando invece di guardare ai fatti si inseguono chimere, di dover incamerare delusioni. La fretta è, in ogni caso, cattiva consigliera. Mentre gli arancioni di Kiev si apprestavano a riavvolgere le loro bandiere, già le “organizzazioni non governative” americane e polacche stavano dispiegando le loro nella piazza centrale di Minsk. Situazioni diverse, per altro, perchè Janukovich a Kiev era, ed è, assai meno popolare di quanto Lukashenko non sia a Minsk. Lukashenko ha vinto e avrebbe vinto comunque, questo nessuno lo nega. E ha vinto perchè ha mantenuto i caratteri essenziali dell’economia socialista. Unico in tutta l’ex Unione Sovietica. Il consenso gli viene da lì, inutile negarlo.
Non è un democratico all’occidentale, anche questo è evidente. Esiste un’opposizione, minuscola, per ora, che lui bastona senza alcun bisogno. Ma questa è un’altra storia. A Kiev le cose sono andate male per Jushenko e per i rivoluzionari arancio, per la semplice e banale ragione che non erano dei rivoluzionari per niente. Venivano dal passato regime, ed erano e sono implicati nelle sue malefatte, a metà strada tra l’oligarchia russa posto- comunista e capitalista e la vecchia nomenklatura ex comunista convertitasi alla corruzione. La gente, ben sostenuta da aiuti e propaganda esterna, li ha creduti rinnovatori. Adesso scopre che non lo erano, e rifluisce delusa dalla cruda constatazione che molto del gran parlare di libertà e di ingresso in Europa si riduceva in sostanza alla bolletta del gas. Quanto più vai verso occidente, insomma, tanto più ti tocca pagare il gas al suo valore di mercato. E poiché i soldi non ci sono, meglio votare Janukovic, per ora, che garantisce un prezzo inferiore.

Dunque adesso, ai polacchi tocca archiviare, col muso lungo, le elezioni bielorusse, con la scontata vittoria di Lukashenko, e gli ancora più scontati reclami di un’opposizione troppo piccola per poter ripetere un’altra rivoluzione colorata. E a Washington e Varsavia tocca archiviare anche le elezioni ucraine, in attesa di tempi migliori.

Ma, in realtà, questi sono solo antipasti di una crisi assai più complicata, che non si può archiviare in un colpo solo, né a Kiev, né a Minsk. E neppure a Tbilisi, o a Chisinau. Situazioni diverse, ma tutte “calde”, alcune al calor bianco, altre rosse a covare sotto la cenere. Su tutte incombono i destini dei rapporti tra Russia ed Europa, tra Russia e Stati Uniti..

Se il buon giorno si vede dal mattino l’Europa vi è già invischiata nel peggiore dei modi. Il prologo lo ha scritto il Parlamento Europeo il 19 gennaio scorso, approvando a larga maggioranza una risoluzione “sulla politica di buon vicinato” che sembra la quint’essenza dell’applicazione del doppio standard . Cos’è il doppio standard si può riassumere con una battuta: lascia che io ti faccia lezione su come devi comportarti, ma non chiedermi come mi comporto io.

Si parte dall’enunciazione dei principi universali, criticando le ingerenze altrui (leggi russe, che ovviamente ci sono state, e ci sono), ma in molti paragrafi della risoluzione il tono è, per dirla cruda, imperiale, e prefigura una plateale intenzione europea di ingerenza negli affari interni di paesi sovrani che non fanno parte dell’Unione Europea.

Si parte da un postulato che, come nel caso delle vignette sataniche (esploso dopo, ma che è palesemente effetto anche di questo tipo di approccio), stabilisce che i rapporti con i paesi vicini e lontani debbono essere basati sull’affermazione dei nostri valori. Niente di male, anzi del tutto naturale, che l’Europa propagandi i propri valori, il proprio modo di vivere e di guardare al mondo. Il tutto però viene stabilito sulla base non solo dell’assunto esclusivo che i nostri valori sono migliori di quelli altrui (Monsieur de La Palisse non avrebbe potuto fare di meglio, non essendosi mai visto un popolo che affermi che i suoi valori sono peggiori di quelli altrui), ma che tutti gli altri devono accettare i nostri valori come superiori, cioè accoglierli e farli propri, subito, imperativamente, senza discutere.

Chi pensa e scrive questi concetti sembra ritenere che gli altri non hanno diritto ad alcuna attenzione; che le loro tradizioni, sensibilità, esperienze, cioè le loro storie, non abbiano alcuna importanza, non meritino che si perda tempo a valutarle. Insomma: i nostri valori sono universali, i loro sono locali e transeunti, sempre che si conceda loro la qualifica di valori. Se ne deduce altresì che i nostri hanno il diritto di essere esportati. O meglio, che noi abbiamo il diritto di esportarli in casa d’altri. E, poiché anche il nostro tempo siamo abituati ad assolutizzarlo, vuol dire che possiamo, anzi dobbiamo, farlo subito .

Leggendo e rileggendo quella risoluzione – contro la quale ho votato, in quanto parlamentare – pensavo a come quelle righe solenni siano percepite al di fuori dei nostri confini “occidentali”. E non ho avuto dubbi: noi ci presentiamo ai loro occhi come il nemico. E’ una risposta asimmetrica: la nostra, nei loro confronti, è indifferenza e disprezzo, la loro nei nostri è ostilità. E non potrebbe essere altrimenti, perchè il nostro disprezzo è coniugato con la nostra forza militare, cioè si trasforma facilmente (storicamente è accaduto troppe volte perchè gli altri possano dimenticarlo) in violenza. E’ in queste forme che si prepara lo scontro tra civiltà (non, come si dice spesso “di civiltà”, che s’interpreta, dalle nostre parti, come uno scontro in cui, da una parte, c’è la civiltà e dall’altra c’è l’inciviltà.

A complicare le cose c’é un altro postulato, tutto da dimostrare, ed è che i valori che noi proclamiamo universali siano già applicati da noi. E’ così? Naturalmente non è così e, quando lo è, lo è solo in parte, spesso anche molto piccola. E allora che cosa esportiamo se non l’abbiamo ancora prodotto noi stessi e se è cosa che sta, nella migliore delle ipotesi, nel libro dei nostri sogni?

Cos’è la democrazia? Solo elezioni? No, naturalmente. Le elezioni, anche se libere ed eque, sono solo il punto conclusivo di un processo democratico e partecipativo, oltre che informativo. Se non c’è un tale processo, che dura nel tempo, che è sostenuto da istituzioni democratiche comuni e condivise dalla maggior parte dei cittadini, se la maggior parte dei cittadini non ha informazioni adeguate sullo stato delle cose, se non può esprimersi, allora non c’è elezione che tenga e la democrazia sarà assente comunque.

Ma concentriamoci per un istante sul procedimento del voto. Certo che le elezioni devono essere libere, cioè gli elettori non debbono essere coartati, o costretti a votare per chi non vogliono, o costretti ad andare a votare, oppure costretti a non andare a votare, per esempio per paura. Ma, alla luce di queste condizioni, molto chiare a chiunque, possiamo parlare di libere elezioni in un paese occupato militarmente? In un paese dove è in corso una guerra civile? In un paese dove non esistono partiti o dove i partiti esistenti sono stati messi fuori legge?

Monsieur de La Palisse direbbe di no. Ma noi facciamo finta di niente, quando ci viene comodo. Perchè alla luce di quelle condizioni né le elezioni in Afghanistan, né quelle in Iraq possono essere considerate libere ed eque.

E da noi, che siamo così civili, quelle condizioni sono rispettate? Democrazia è anche la possibilità di una opposizione organizzata e libera. Più o meno ci siamo, ma solo in pochi paesi. Negli altri il diritto all’alternanza di governo è gravemente lesionato, in qualche caso in modo sostanziale, dalla diversità di mezzi finanziari e informativi dei contendenti. E le disparità sociali rendono quasi dovunque i ricchi assai più forti elettoralmente dei poveri. Dunque le condizioni non sono affatto uguali per tutti.

Un sistema giudiziario indipendente? E quanti sono i paesi che possono vantarne uno tale, anche tra quelli che consideriamo democratici? Infine ci vuole un sistema mediatico libero. E qui cascano quasi tutti gli asini democratici del mondo contemporaneo.

Dunque? C’è del marcio in Danimarca. Invece noi distribuiamo attestazioni di democraticità a nostro piacimento. Esempio? La Bielorussia è non democratica (giusto), la Russia è democratica (giusto?). Al punto tale che si giudica auspicabile “un’azione congiunta” di Russia e Unione Europea per realizzare un cambio di governo in Bielorussia (paragrafo 64 della risoluzione). Sbaglio di giudizio (sulla Russia) e ingerenza negli affari interni di un paese sovrano (la Bielorussia), per giunta con una compagnia sbagliata.

E poi, nello stesso tempo, si assegna la qualifica di “democratiche”, senza alcuna prudenza, alle varie rivoluzioni colorate, in Ucraina e in Georgia, per esempio, per il solo fatto che sono antirusse, senza tenere conto del carattere fortemente eterodiretto ed eterofinanziato di quelle “rivoluzioni”. Tant’è che sono appena finite e già precipitano nel disordine e nella corruzione.

Ma il colmo dell’impudenza è quando l’Europa si assegna il diritto di esercitare la sua forza e la sua influenza dall’esterno (paragrafo 30), confermando così ciò che si è appena fatto finta di non vedere, e cioè che sono mani “esterne” quelle che hanno “aiutato” le rivoluzioni colorate, con ogni mezzo e in tutti i campi: dalla cultura all’informazione, agli aiuti economici, erogati in cambio di una apertura indiscriminata di quelle economie al mercato europeo (paragrafo 8).

Si è già visto altrove quali disastri queste logiche di esportazione di beni e valori abbiano già prodotto in diverse aree del pianeta. In Russia in primo luogo, provocando reazioni di rigetto in larghi settori popolari.

Paesi minori hanno minori possibilità di difendersi e vengono così trascinati e assorbiti sotto il controllo di logiche imperiali. Il successo sembra arridere a queste operazioni prendi e fuggi, salvo poi produrre risultati variamente catastrofici nel medio e lungo periodo.

C’è da chiedersi se l’Europa voglia davvero affacciarsi sulla scena mondiale con politiche “di buon vicinato” di questo tipo. Perchè con questi metodi sarà forse possibile (sebbene ci sia da dubitarne) assorbire la Bielorussia, ma non sarà comunque possibile assorbire la Russia, e tanto meno la Cina.

C’è da chiedersi se questa Europa non abbia di meglio da proporre che questa piccola diversità rispetto agli Stati Uniti: che tentano di “esportare la democrazia” con le armi, mentre noi pretendiamo di fare la stessa cosa, senza armi, ma usando comunque la nostra superiorità economica. Mezzi diversi, stessa logica. Risultati disastrosi comunque.

Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=1688
28.03.06

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