I GIOVANI INFELICI

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“ Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato di capire, di fingere di non capire, di contare, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento, è di condanna…”.

Così scriveva Pier Paolo Pasolini, nell’articolo inedito I giovani infelici, la cui stesura risale, come l’autore stesso accenna, ai “primi giorni del 1975”, l’ultimo anno della sua tumultuosa vita. Un articolo che assieme ad altri interventi, 14 per la precisione, pubblicati su il “Corriere della sera” e “Il Mondo”, verranno poi raccolti da Einaudi in un libro, che uscirà postumo, con il titolo di “Lettere Luterane”.

“ I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure sono maschere di un’integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà…”. Parole taglienti, dure e feroci, che si dispiegano in una violenta e dolorosa requisitoria contro i giovani. Pasolini, il proscritto per eccellenza della letteratura italiana del Novecento, si rivela profetico, e con le poche debite eccezioni, coglie da solitario controcorrente, quale fu sempre in vita, le dinamiche di una vera e propria rivoluzione antropologica in atto. Quella di una generazione che attraverso: le lusinghe del capitalismo, l’omologazione, la società di massa, il villaggio globale, la televisione e la carta stampata (di cui lo scrittore, friulano d’adozione, pensava lucidamente essere nient’altro che: “ spaventosi organi pedagogici privi di qualsiasi alternativa”), la droga, il consumismo imperante, la degenerazione della cultura e la scuola ( designata come “insieme culturale e organizzativo della diseducazione”), s’avviava ad abdicare definitivamente “dai legami tradizionali, religiosi, l’attaccamento alle radici, il senso comunitario, la solidarietà con gli altri, il senso dell’autenticità, dell’austerità, del mistero” come ha scritto Marcello Veneziani in L’Antinovecento.

“Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, né forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza.
Hanno imparato qualcosa di più in confronto ai loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è più un problema morale, la rivolta si è codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri propri criminali.
Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi dentro, la stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto ?) o può precedere una coltellata: essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa e effetto: sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio – dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare…”.

La violenta invettiva di Pasolini sulla gioventù, dopo più di 25 anni dalla sua stesura, fa ancora rabbrividire per le sue analisi puntuali, ancor di più anticipatrice di un’inarrestabile e sistematica degradazione dei caratteri e degli spiriti. Oggi evidente, come non mai, nelle ultime generazioni, solo capaci, purtroppo, di una “ansia di conformismo”.
Figli disgraziati di un individualismo parossistico, di un falso progressismo, di una falsa tolleranza, di un condizionamento serrato e oppressivo. Il giudizio di Pasolini è terribile: senza appello. Questa nuda e cruda constatazione, come dimostrano anche i numerosi e frequenti efferati episodi di cronaca nera che coinvolgono sempre più spesso giovani e adolescenti, diventa una tragica e dolente conferma dell’attualità delle rabbiose affermazioni dello scrittore. Pasolini, sempre polemico e isolato, denuncia con ossessione questo “male oscuro”, il cui nucleo è rappresentato dalla delineazione dei caratteri di quello che lui chiama “genocidio”: un fenomeno che, all’interno della società italiana, ha prodotto solo coscienze caratterizzate da “un’atroce infelicità o da un’aggressività criminale”. Sottolinea che la causa di ciò è il non rispetto delle vecchie culture, come insegna l’antropologia, che reincarnano e ripetono i padri. Spiega anche che c’è un’idea omologante e nefasta, condivisa da tutti, che si va affermando: “ l’idea che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante” che Pasolini identificava con la classe borghese. “Un’unificazione – sono ancora parole di Pasolini – è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi, dello sviluppo… il cui carattere totalitario – per la prima volta veramente totalitario – anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività)”.

Negli ultimi mesi della sua vita, ripiegato con angoscia in un totale pessimismo nei confronti di una realtà che vedeva ormai degradata, Pier Paolo Pasolini, il poeta, lo scrittore, l’eretico dalla disperata vitalità che scriveva: “ la vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà”, moriva assassinato in circostanze ancor oggi oscure, tra il 1 e il 2 novembre 1975. All’alba del 2 novembre il cadavere veniva trovato all’idroscalo di Ostia, e per un’impressionante fatalità, proprio nella periferia metropolitana di Ragazzi di vita, di Una Vita violenta e di Accattone.

Davide
Comedonchisciotte
13.12.04

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