DI MAURO BOTTARELLI
Lo ammetto, sono masochista. Martedì sera ho fatto zapping tra tutti i talk-show in onda, passando da Di martedì a Ballarò a Quinta colonna fino a Porta a porta (lo speciale del Tg5 era così patetico da non meritare nemmeno un tentativo che andasse oltre i 3 minuti di visione). Sono arrivato all’una di notte stremato, ma conscio di una realtà inconfutabile: quel tipo di trasmissioni servono soltanto a lucidare e mettere in bella mostra l’ego ipertrofico di giornalisti, analisti e docenti universitari, i quali danno vita a singolar tenzoni a colpi di chi conosce meglio le abitudini alimentari del capo jihdista del Caucaso del Nord, ma che, alla fine, come stanno le cose non lo vogliono dire. Perché, altrimenti, i loro posti di lavoro con stipendi faraonici e smaglianti etichette, saltano.
Come mai, ad esempio, nessuno ha detto che nei due giorni precedenti alla mattanza di Bruxelles, c’era stato uno sciopero della sicurezza aeroportuale? Strana coincidenza, controlli più blandi e organizzazione scompaginata. Casualmente, nel giorno della strage di Londra era prevista un’esercitazione per un attacco nella metropolitana e durante la giornata che si è conclusa con la strage del Bataclan era prevista una simulazione di attacco terroristico con armi da fuoco. Certo, è possibile che i terroristi si informino prima, leggano attentamente i giornali, ma se sono davvero jihadisti duri e puri pronti al martirio, cosa gliene importa di avere la copertura di un’esercitazione? Diverso se non sono quei pazzi dell’Isis ma qualcun altro.
Due settimane fa, poi, il cantante degli Eagles of Death Metal, il gruppo che suonava al Bataclan la sera dell’attentato, Jesse Hughes, ha dichiarato alla tv americana Fox Business Network che il 13 novembre non era presente security nel backstage (adombrando nemmeno troppo velatamente il dubbio che sapessero qualcosa in anticipo) e lo ha fatto quasi in contemporanea con l’arresto e l’incriminazione in Francia di Hicham Hamza, un giornalista freelance che ha scoperto alcune anomalie negli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclàn. Il suo reato? Ufficialmente “violazione del segreto istruttorio e diffusioni di immagini gravemente lesive della dignità umana”, il tutto perché aveva ritwittato, il 15 dicembre, una foto ripresa all’interno del Bataclan pochi minuti dopo la strage e che mostrava decine di corpi flagellati. Ritwittato: indovinate chi aveva lanciato il tweet ufficiale e per primo, salvo poi eliminarlo?
E poi che dire dell’intelligence belga, la quale dopo essersi comportata per quattro mesi come l’ispettore Clouseau, di colpo scopre i covi dei kamikaze di Bruxelles e, casualmente, agenti chimici e una bandiera dell’Isis. Vi ricordo sommessamente che anche alla scuola Diaz sono state trovate bottiglie molotov e coltelli, peccato che li avesse messi la polizia, come sentenza penale ha confermato. Ma al di là dei molti punti oscuri di questa vicenda, così come di quella parigina (non a caso sui fatti del 13 novembre è stato posto il segreto di Stato), ciò che non ho sentito nei vari talk-show è chi ha permesso all’Isis di diventare tale, ovvero di tramutarsi da mutazione genetica del salafismo a soggetto destabilizzante internazionale, capace quando perde colpi in Medio Oriente di alzare la testa e mordere in Europa. O, almeno, capace di farci credere di esserne capace.
Vi racconto io una storia. Vera, potete controllare. Non so, infatti, se sapete che lo scorso settembre di fronte al Congresso si tenne l’audizione del generale Lloyd Austin, capo del Central Command dell’esercito Usa (CENTCOM) e del sottosegretario alla Difesa, Christine Wormuth, riguardo al famigerato programma Train and equip per i ribelli siriani e al suo stato di avanzamento. Quando gli venne chiesto quanti dei partecipanti al programma di addestramento erano ancora operativi sul terreno, Austin rispose così: «Quattro o cinque». Vi basti pensare che nei piani del Pentagono avrebbero dovuti essere 5400 entro fine dello scorso anno. Immediata giunse la reazione di due senatori repubblicani, Kelly Ayotte del New Hempshire e Jeff Sessions dell’Alabama: «Non prendiamoci in giro, questo si chiama fallimento totale». Ovviamente, l’intera vicenda passò pressoché sotto silenzio sui grandi media.
Bene, pochi giorni dopo quell’imbarazzante ammissione, ciò che restava delle forze ribelli addestrate dagli Usa sparì del tutto. Più che altro, si vendette. Quando infatti miliziani di Al-Nusra accerchiarono il quartiere in cui risiedevano i ribelli, questi non solo si arresero subito, ma barattarono equipaggiamento e sei pick-up con un passaggio sicuro dalla Turchia alla Siria. La conferma arrivò dal colonnello Patrick Ryder, portavoce del Central Command e fu la goccia che fece traboccare il vaso: il programma Train and equip fu messo in naftalina. Anche perché solo due mesi prima, a luglio, la stessa Al-Nusra rapì il comandante della “Divisione 30” e alcuni miliziani della stessa, ovviamente una forza ribelle addestrata dagli Usa: «Noi e il popolo sunnita di Siria non permetteremo che il loro sacrificio sia servito su un piatto d’argento alla retorica americana», si lesse in un comunicato di rivendicazione.
Bene, domenica scorsa la comica è diventata definitiva: i miliziani di Al-Nusra hanno preso il controllo di Maarat Numan, città sotto il controllo dei ribelli e dove manteneva la sua presenza la “Divisione 13”, una delle prime create dagli Usa e la prima ad aver accesso ai missili anti-carro TOW. Non solo tutti i 40 miliziani sono stati arrestati e rapiti, ma il bottino di guerra si è sostanziato per Al-Nusra in missili anti-carro, veicoli blindati, un carro armato e altri armamenti. Insomma, i militanti di Al Qaeda in Siria ringraziano vivamente il Pentagono per avergli garantito armi di prima qualità a costo zero. In un tweet del 13 marzo la “Divisione 13” dichiarò di aver fallito nel respingere un attacco di Al-Nusra e dei suoi affiliati della fazione Jund al-Aqsa. Insomma, gente addestrata alla grande, dei fenomeni visto che due giorni prima, l’11 marzo, miliziani di Al-Nusra erano entrati a Maarat Numan per attaccare un corteo, ma erano stati respinti dai dimostranti. La “Divisione 13”, invece, si è comportata come un sufflè, nonostante la situazione richiedesse occhi aperti h24 (potrebbero far carriera nei servizi belgi).
Ma ecco il colpo di teatro: il generale Austin, quello che ha ridotto il programma Train and equip a una barzelletta, ammettendolo davanti al Congresso, cosa vuole fare ora? Farlo ripartire «per combattere l’Isis», questo attraverso un focus maggiore del Central Command basato su un minor numero di soldati e su addestramenti più specifici (forse toglieranno la lezione sul come farsi fregare le armi, quando non le cedono di loro volontà). Immediatamente il senatore democratico del Connecticut, Chris Murphy, ha dichiarato che «il programma è così profondamente compromesso che non può essere salvato. Nonostante l’enorme supervisione e l’utilizzo di personale Usa sul terreno, ancora non è possibile evitare che le armi finiscano nelle mani sbagliate». Sbagliate? Sicuro? Ma c’è chi la pensa in altro modo. Il senatore repubblicano per la South Carolina, Lindsey Graham, si è infatti chiesto se il rinnovato programma «avrà le stesse condizioni disponibili in precedenza. Mi piacerebbe sapere: intendiamo limitare il ruolo attivo di questi miliziani solo contro l’Isis?».
Ed ecco uscire il sempiterno senatore John McCain, gran visir dei destabilizzatori di mezzo mondo, dalla Siria al Caucaso, il quale ha pronunciato la seguente frase: «Sono scettico perché ho già visto questo film, ma se mi si chiede di dire no al programma di addestramento, allora rispondo che non sarebbe giusto vietarlo». Salvo poi concludere sibillino: . Come dire, se c’è da combattere le milizie di Assad, non si tireranno indietro. Ma se il cessate il fuoco regge e i russi hanno ritirato parte delle truppe, perché qualcuno dovrebbe fare la guerra alle milizie di Assad invece che chiudere i conti con l’Isis? Oltre Erdogan, qualcun altro sta per cascare nel trappolone del Cremlino?
Eh già, cari amici, perché il basso profilo russo in fatto di esternazioni su quanto accaduto a Bruxelles l’altro giorno dovrebbe fare riflettere. E aiutarci a comprendere i motivi del ritiro dell’esercito di Mosca dalla Siria due settimane fa, da un giorno con l’altro, non appena resisi conto che la situazione era stabilizzata e le forze di Assad in grado di gestire la situazione insieme a iraniani ed Hezbollah (il quale, a differenza dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo, ha immediatamente condannato gli attacchi di Bruxelles). Per la prima volta da quando si parla di terrorismo islamico, escono apertamente, anche in talk-show di prima serata come quelli che ho dovuto sorbirmi martedì sera invece di leggere un buon libro, i nomi di Arabia, Qatar e Tuchia come Stati finanziatori e fiancheggiatori. Gli alleati di ieri oggi scaricano i compagni impresentabili, è tutta una rincorsa a far alzare il tappeto del vicino per evitare che venga allo scoperto il proprio sporco. Gioco, partita, incontro.
Stavolta zio Vladimir lo ha scoperchiato davvero il vaso di Pandora e qualcuno comincia a essere nervoso. Parecchio nervoso. Perché se da un lato è chiaro anche ai bambini che prima dei raid russi l’Isis aveva fatto ciò che voleva in Siria e in Iraq, dall’altro quando i suoi presunti affiliati operano in Europa lasciano più tracce e incongruenze di un ladruncolo al primo furto. E quando anche i grandi media cominciano a sottolineare certe stranezze operative (tipo riaprire alle 17 di lunedì due delle sei linee della metro di Bruxelles, quando formalmente era attiva una caccia all’uomo) vuol dire che è ora di cambiare strategia e, soprattutto, cavallo su cui puntare. Chi scommettete che da qui a novembre, data delle elezioni presidenziali Usa, l’Isis e il suo Califfo saranno un problema archiviato, spazzati via come polvere da un mobile?
La Siria, ormai, è intoccabile perché territorio russo, visto che Mosca si è conquistata la sua finestra sul Mediterraneo. Oltre alla base navale di Tartus, sua sin dagli anni Settanta, ora ha infatti la base aerea di Latakia e tutto attorno soltanto alleati: i siriani, i ciprioti, i libanesi, i greci e Israele che certamente non è stupido come l’Ue da inimicarsi Putin senza una buona ragione. L’unico nemico è la Turchia, i cui legami con l’Isis però sono ormai tali e tanti da far arrossire gli amici storici come gli Usa, senza contare le violazioni dei diritti umani e l’oltraggio alla libertà di stampa: solo l’Ue tratta ancora con Ankara, quando basterebbe dare alla Grecia i 6 miliardi promessi a Erdogan (insieme a una bella moratoria sul debito) per risolvere il problema alla radice, chiedendo aiuto ai russi per gestire i profughi in Siria al fine di farli rientrare non appena chiuse le ostilità. Mai noi europei alla Russia facciamo la guerra, mettiamo le sanzioni economiche: noi sì che siamo furbi. Quanto i servizi belgi, più o meno.
Ma attenti, perché chi sta giocando davvero sporco in tutta questa faccenda, intervento in Libia compreso, sono i francesi, i quali infatti vogliono a tutti i costi l’estradizione di Salah Abdeslam prima che questo dica qualcosa di compromettente alla magistratura di Bruges. Ad esempio, come ha potuto lasciare in tutta tranquillità Parigi la notte tra il 13 e il 14 novembre dopo la mattanza al Bataclan e al Cafè Voltaire. Attenti ai francesi, sono uno Stato pressoché fallito ma la grandeur può portare a compiere velenosi colpi di coda. Certo, per evitarli ci vorrebbe un premier come Bettino Craxi e non come Matteo Renzi, ma ogni Paese ha ciò che merita. E che si è cercato. E ci vorrebbe anche un Papa, ma lì, purtroppo, siamo alle soglie dell’intelligenza con il nemico, scusate la franchezza, ma gli atti e le parole contano, soprattutto se si è sul soglio di Pietro. Il fatto, poi, che ieri gli Usa abbiamo detto ai loro cittadini di non andare in Europa perché sono possibili nuovi attacchi, ci dice che quest’ultima ipotesi è una certezza. Siamo in guerra? No, siamo in mezzo a una guerra.
Mauro Bottarelli
Fonte: www.ilsussidiario.net
24.03.2015