DI JOHN J.MEARSHEIMER E STEPHEN M. WALT
La Times
I candidati alla presidenza degli USA non stanno facendo alcun favore allo stato ebraico offrendo il loro appoggio incondizionato.
Ancora una volta, con la campagna presidenziale che inizia la sua corsa, i candidati più in vista copriranno enormi distanze per dimostrare la loro devozione allo stato d’Israele e il loro incorruttibile impegno sulle relazioni “speciali” con gli Stati Uniti.
Ognuno dei principali candidati enfaticamente sostiene le risorse extra e l’appoggio diplomatico fornito ad Israele – invio di oltre 3 miliardi di dollari annui in aiuti esteri verso una nazione dove il reddito pro capite è ora il 29° al mondo.
Ritengono che tale aiuto dovrebbe essere dato ad ogni condizione. Nessuno di loro critica la condotta d’Israele, perfino quando le sue azioni minacciano gli stessi interessi degli USA, sfidano i valori americani o addirittura quando sono dannose a Israele stesso. In breve, i candidati credono che gli Stati Uniti debbano appoggiare Israele senza tenere conto delle sue azioni.
Non è certo una sorpresa questo atteggiamento, poiché i contendenti all’alto ufficio cercano sempre l’interesse di gruppi particolari, e i più convinti sostenitori di Israele – la lobby israeliana la chiamiamo noi – se lo aspettano. I politici americani non hanno intenzione di offendere gli Ebrei Americani o i “Cristiano-sionisti”, due gruppi profondamente radicati nel processo politico. I candidati temono, e non del tutto a torto, che perfino una benevola critica alle politiche israeliane possa portare questi gruppi a muoversi contro di loro e favorire i loro oppositori.Se questo succedesse, da più fronti inizierebbero a sorgere problemi. Gli amici di Israele nei media prenderebbero a bersaglio il candidato, e i contributi alla campagna elettorale da parte dei singoli e dai movimenti politici pro-Israele si sposterebbero altrove. Oltretutto, molti dei votanti ebrei vivono in stati con un alto numero di voti elettorali, il che aumenta il loro peso nelle imminenti elezioni (ricordate la Florida nel 2000?) e un candidato visto come poco impegnato verso Israele perderebbe parte del loro supporto. E nessun repubblicano vorrebbe alterare la parte pro-Israele del movimento cristiano evangelico che è parte significativa del GOP (Ndt: Grand Old Party, soprannome del Partito Repubblicano degli Stati Uniti).
Perfino ipotizzare una posizione più imparziale degli Stati Uniti nei confronti del conflitto israelo-palestinese può trascinare un candidato in guai seri. Quando Howard Dean propose, durante la campagna del 2004, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto assumere un comportamento meno parziale nel processo di pace, fu severamente criticato dai Democratici; un rivale alla nomina, il senatore Joe Lieberman lo accusò di “svendere Israele” e disse che i commenti di Dean erano “irresponsabili.
La voce che Dean fosse ostile a Israele si diffuse velocemente nella comunità ebraica americana, anche se durante la campagna stessa egli ricoprì il ruolo di presidente dell’American Israel Public Affairs Committee
e durante tutta la sua carriera sia sempre stato a favore di Israele.
I candidati all’elezione del 2008 sicuramente vogliono evitare il destino di Dean e stanno quindi cercando di dimostrare di essere i migliori amici di Israele.
Questi candidati, tuttavia, non sono amici di Israele. Stanno facilitando la sua ricerca di politiche autodistruttive che nessun vero amico favorirebbe.
Il punto cruciale è il futuro di Gaza e della West Bank, che Israele conquistò nel 1967 e che tuttora controlla: Israele affronta aridamente la scelta riguardo a tali territori, che sono la patria di circa 3.8 milioni di palestinesi. Esso può optare per una soluzione a due stati, ridando il controllo di praticamente tutta la West Bank e di Gaza ai palestinesi e permettendo loro di creare uno stato su quelle terre in cambio di un trattato di pace progettato per garantire a Israele una vita sicura all’interno dei suoi confini, come erano tracciati prima del 1967 (con piccole modifiche). Oppure può tenersi il controllo degli stati, occuparne le vicinanze, costruire più insediamenti, modificare le strade e confinare i palestinesi a una manciata di enclavi impoverite a Gaza e nel West Bank. Israele controllerebbe i confini intorno a queste enclavi e i cieli sopra di esse, limitando così pesantemente la libertà di movimento dei Palestinesi.
Se Israele optasse per la seconda scelta si giungerebbe a uno stato di apartheid. Il primo ministro Ehud Olmert ha dichiarato che se “crolla la soluzione dei due stati” Israele si troverà ad “affrontare un conflitto come in Sud Africa”. Si è spinto fino a argomentare che “appena ciò accadrà, lo stato di Israele finirà”. Similmente, il primo ministro, Haim Ramon, nei primi giorni del mese ha dichiarato che “l’occupazione è una minaccia all’esistenza dello stato di Israele”. Altri israeliani, come pure Jimmy Carter e l’ Arcivescovo Anglicano, Desmond Tutu, hanno avvisato che continuare l’occupazione trasformerà Israele in uno stato di apartheid. Ciononostante, Israele continua a espandere i suoi insediamenti sulla West Bank mentre la situazione dei palestinesi peggiora.
Data questa oscura situazione, ci si aspetterebbe che i candidati alla presidenza, che dichiarano di essere profondamente interessati a Israele, suonassero l’allarme e caldeggiassero fortemente per la soluzione a due stati. Ci si aspetterebbe che avessero incoraggiato Bush a sollecitare significativamente sia gli israeliani che i palestinesi alla recente conferenza di Annapolis e durante la visita nelle regioni in questa settimana. Come il segretario di stato, Condoleezza Rice, ha recentemente osservato, porre fine a questo conflitto è anche interesse americano, per non parlare di quello palestinese.
Ci si aspetterebbe che Hilary Clinton giocasse i suoi assi su questo tema. Dopotutto, nel 1998 spingeva saggiamente e coraggiosamente alla creazione di uno stato di palestinese “che sia nella stessa posizione degli altri stati”, quando ancora era politicamente scorretto usare le parole “stato palestinese” in pubblico. Tra l’altro, suo marito non solo caldeggiò per una soluzione a due stati, ma dispose i famosi “Clinton Parameters” nel dicembre 2000, che sottolineavano quella come l’unica soluzione realistica per la fine del conflitto.
Ma cosa sta dicendo la Clinton ora che è candidata? Ad Annapolis praticamente non ha detto nulla ed è rimasta in silenzio quando la Rice ha criticato l’annuncio israeliano della progettata costruzione di 300 nuove abitazioni nell’area est di Gerusalemme. Ancora più importante, sia lei che l’aspirante GOP Rudy Giuliani hanno dichiarato recentemente che Gerusalemme deve rimanere unita, una posizione che sfida i parametri di Clinton e garantisce virtualmente che uno stato palestinese non ci sarà.
Il comportamento della senatrice Clinton non è inusuale tra i candidati alla presidenza. Barack Obama, che espresse alcune simpatie per i palestinesi prima di posare le sue brame sulla Casa Bianca, ora ha poco da dire riguardo la loro piaga, e troppo poco ha detto su quello che si doveva fare ad Annapolis per facilitare la pace.
Gli altri maggiori contendenti sono ferventi nelle loro dichiarazioni di supporto a Israele e nessuno di loro vede una soluzione a due stati tanto urgente da spingere entrambe le parti a raggiungere un accordo. Come ha notato Zbigniew Brzezinski, un consulente nazionale per la sicurezza e ora consigliere di Obama, “I candidati alle presidenziali non vedono alcun profitto nell’indirizzare la crisi israeliano palestinese”, ma ne vedono nel riportare Israele dalla parte del manico, anche quando perpetra una politica – la colonizzazione della West Bank – che è moralmente e strategicamente marcia.
In breve, i candidati alle presidenziali non sono certo amici di Israele. Sono come la maggior parte dei politici americani, formalmente pro-Israele ma continuano a promuovere politiche che sono di fatto dannose allo stato ebraico. Un vero amico direbbe che Israele sta agendo in maniera assurda e farebbe il possibile per cambiarne i comportamenti deviati. E questo richiederebbe una sfida ai gruppi di interesse speciale le cui strette vedute sono state un ostacolo alla pace per molti anni.
Come il ministro degli esteri israeliano, Shlomo Ben-Ami, disse nel 2006, i presidenti americani che hanno maggiormente contribuito alla pace – Carter e George H.W. Bush – ci riuscirono perché erano “pronti a affrontare il testa a testa israeliano e guardare oltre alle sensibilità dei suoi amici in America”. Se i contendenti democratici e repubblicani fossero realmente amici di Israele lo avvertirebbero riguardo ai pericoli di diventare uno stato di apartheid, come fece Carter.
Inoltre cercherebbero una conclusione per l’occupazione e per la creazione di uno stato palestinese agibile. E chiederebbero agli Stati Uniti di agire in modo onesto tra Israele e i Palestinesi in modo da permettere a Washington di spingere entrambe le parti ad accettare una soluzione basata sui parametri di Clinton. Implementare un testo definitivo sarebbe difficile e richiederebbe un certo numero di anni, ma è imperativo che le due parti lo accettino insieme e se ne sentano rispettivamente tutelate.
Ma i falsi amici di Israele non possono dire nessuna di queste cose, nemmeno discutere onestamente della faccenda. Perché? Perché temono che dire la verità provocherebbe l’ira di chi domina le maggiori organizzazioni della Lobby israeliana. Così Israele finirà per controllare Gaza e la West Bank per il prossimo futuro, invischiandosi in un processo di apartheid. E tutto questo sarà fatto con l’appoggio dei suoi cosiddetti amici, tra cui gli attuali potenziali presidenti. Con amici così chi ha bisogno di nemici?
JOHN J.MEARSHEIMER E STEPHEN M. WALT
Fonte: www.latimes.com
Link
6.01.08
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di SEBASTIANO SENO