DI YANNIS THANASSEKOS
mondialisation.ca
A partire dai lavori pionieristici di Max Weber, la burocrazia è stata oggetto di innumerevoli ricerche nella sua qualità di istituzione moderna razionale – ovvero razionalità burocratica. Senza approfondire questa vasta tematica, che coinvolge la sociologia e la politologia, riteniamo che, fra altri parametri, due delle principali caratteristiche dell’istituzione burocratica siano: 1) la separazione radicale che essa opera fra i “mezzi” ed i “fini”, e 2) la sua irresistibile propensione a tradurre/ridurre ogni problema sociale, politico o economico ad una questione puramente tecnica da risolvere. Detto altrimenti, la burocrazia, indifferente alle finalità ed alle conseguenze delle decisioni che esegue, desocializza e depoliticizza continuamente la posta in gioco nei rapporti sociali, per riportarla nella propria sfera: quella dei “mezzi” – la razionalità strumentale.
Essa è in grado di vedere il “mondo” e la “società” solo come una “categoria di problemi tecnici” da risolvere. Da questo meccanismo, totalmente strutturale e mentale al tempo stesso, deriva in maniera evidente l’irresponsabilità sociale e politica delle stesse istituzioni e del burocrate come individuo. E questa irresponsabilità è legittimata, a livello cosciente come a livello politico, dalla pretesa “neutralità assiologia” dei mezzi utilizzati in ogni calcolo razionale. Inoltre, l’unico criterio valido per soddisfare il burocrate perfetto, ovvero per farlo felice, è il “lavoro ben fatto”. Questa riduzione di sé (del burocrate) allo stato di puro mezzo è possibile solo tramite la riduzione dell’“altro” allo stesso stato: il burocrate non riesce a vedere l’altro, in questo caso l’utente, divenuto al presente un semplice “cliente”, se non attraverso la sua prospettiva: puro mezzo per raggiungere un fine. Non è necessario essere filosofi o sociologi per riconoscere in questa configurazione istituzionale la reificazione dell’uomo e della società. Niente è più estraneo alla burocrazia della massima morale che ci obbliga a “non considerare mai noi stessi e gli altri come un puro mezzo, ma solo e sempre come un fine”.
I teorici classici dello Stato moderno – Stato di diritto fondato sul principio democratico – erano consapevoli della specificità della burocrazia e delle sue pericolose potenzialità. Non solo, essi si erano preoccupati, almeno sul piano teorico, di separare la sfera “burocratica” (amministrazione regolamentata e spersonalizzata dei rapporti fra cittadini ed autorità) da quella “politica” (luogo in cui si deliberava sulle finalità del vivere in comunità). Sappiamo, tuttavia, che sul piano dell’evoluzione concreta delle società attuali, non solo questa separazione e questo equilibrio “teorico” non sono mai stati rispettati, ma che, al contrario, una forte tendenza, dettata dalla stessa logica del sistema, premeva irresistibilmente per rendere le frontiere fra queste due sfere particolarmente porose, fino a farle confondere, o portarle addirittura alla fusione integrale. Numerosi fenomeni negli ultimi tre decenni sembrano provare questo processo di drastica riduzione della sfera politica a sfera burocratica; riduzione che ha come conseguenza inevitabile la altrettanto drastica trasformazione del “personale politico” – comunque eletto – in una élite di “funzionari” e di “burocrati” zelanti. Il contesto del neoliberismo, in particolare la politica di austerità inaugurata attualmente in tutti i paesi, portano al parossismo questo doppio movimento strutturale. Al di là dei danni e dei costi umani provocati dalla ferocia neoliberista, questo processo di trasformazione delle istituzioni minerà infine gli stessi fondamenti del sistema democratico e dello Stato di diritto. La “sfera deliberativa” (contemporaneamente spazio conflittuale e luogo di elaborazione della volontà e delle finalità collettive) deperisce sempre di più, in favore della sola “sfera decisionale” e del suo strumento per eccellenza, l’esecutivo (il governo) e l’amministrazione (la burocrazia). La teoria “decisionista”, elaborata dal giurista nazista Carl Schmitt negli anni Venti e Trenta, secondo la quale “è sovrano colui che può decidere di uno stato di eccezione”, torna oggi nel linguaggio degli intellettuali, così come fra gli strateghi neoliberisti. Essa si insinua a grandi passi nelle realtà istituzionali e politiche. In effetti, l’applicazione di un vasto programma di riforme neoliberiste imposte dal FMI, dalla BCE e dalla Commissione europea, provoca, in tutti i paesi coinvolti, la dichiarazione de facto di uno “stato di emergenza”, di uno “stato d’eccezione”. L’“eccezione” diviene insomma la “regola”. Ci si sta infine orientando verso dei sistemi e dei regimi formalmente democratici, ma in effetti autoritari, governati dagli imperativi della globalizzazione neoliberista. E questo movimento si può osservare bene sia nelle “vecchie democrazie” che in quelle più recenti.
Tutti i paesi europei si devono confrontare, in misura variabile, con questa forte tendenza; ve n’è tuttavia uno che, al giorno d’oggi, eccelle per le sue prestazioni in questo processo di riduzione accelerata del “politico” al “burocratico”, e, di conseguenza, nella trasformazione brutale dei suoi “responsabili politici” in semplici “funzionari” e “burocrati” zelanti. Esso è la Grecia, proprio l’anello più debole della catena neoliberista.[1] Da questo punto di vista, niente è più rivelatore del tono dei discorsi pubblici e della retorica dei responsabili governativi, per giunta socialisti, che “presentano”, “spiegano” e “giustificano” la valanga di riforme dettate dal FMI, dalla Banca Centrale Europea e dalla Commissione che porta lo stesso nome: riforme del sistema pensionistico, della previdenza sociale, dei servizi pubblici, della sanità, dell’educazione, del settore bancario, etc.[2] Il primo argomento retorico dei suddetti “responsabili politici” è proprio quello dello “stato d’eccezione”: l’urgenza e la radicalità delle riforme esige imperativamente, secondo loro, il controllo di tutti i meccanismi deliberativi e di negoziazione – che rischiano di ritardare o ostacolare l’applicazione delle riforme – a favore solo della “decisione sovrana” che appartiene alla sfera dell’esecutivo, il quale torna a dichiarare esplicitamente il paese in “stato d’assedio”. Questa retorica catastrofista ed apocalittica del partito socialista al potere è stata adottata senza indugio anche dal principale partito di opposizione, di destra, così come dal partito di estrema destra, per non parlare della maggioranza dei media, che prospera coltivando paure e panico: “Il naufragio o la sottomissione, non ci sono altre vie, scegliete”, “l’apocalisse o la sottomissione, non ci sono altre soluzioni, scegliete”… Di recente, il primo ministro socialista dichiarava alla stampa greca ed internazionale: “Mi dispiace dover prendere delle misure che penalizzano tutti coloro che non hanno responsabilità per la crisi attuale, ma è così, ci sono dei momenti in cui bisogna prendere delle decisioni dure e gravi”! I discorsi dei ministri del precedente governo di destra – la cui politica selvaggia ha saccheggiato l’economia del paese e le sue finanze pubbliche, eccellevano, solo pochi anni fa, nel loro cinismo brutale e nell’arroganza abietta dei vincitori.
Se non presentano lo stesso cinismo – anche se, a dire il vero…- i discorsi del “socialista” Papandreou e dei suoi ministri mostrano, in compenso, la freddezza del “fatto compiuto” e della “decisione sovrana” del Principe! Basta ascoltare i discorsi dei ministri greci più implicati nel processo di riforme neoliberiste in corso (ministri dell’economia, del lavoro, delle finanze e della sanità), per avere letteralmente i brividi. Seguiamo i loro “ragionamenti” e la loro “retorica”. Primo tempo: sordi ai tumulti della strada, insensibili alle sofferenze ed ai sacrifici imposti alla maggioranza della popolazione greca, in particolare ai più indigenti, essi descrivono la caterva di misure e di decisioni prese con i termini della più piatta retorica tecnocratica e gestionaria: “La crisi è”, “è un fatto”; “il deficit pubblico è”, “è un fatto”; “il debito pubblico esplode”, “è un fatto”; “non si può fare altro che ridurre i salari, le pensioni, la spesa pubblica, aumentare l’IVA, etc.”, “è un fatto”. Questi quattro fatti hanno, nella testa dei suddetti responsabili governativi, la potenza di “fatti compiuti”, o, meglio, di “eventi naturali” in senso stretto, ovvero di “eventi” indipendenti dalla volontà umana e delle scelte che possono essere oggetto di deliberazione. Essi si sottraggono, di conseguenza, ad ogni messa in dubbio, ad ogni contestazione possibile. Secondo tempo: tutti questi “fatti” si connettono ad un mucchio di altri “fatti”, anch’essi considerati naturali come la rotazione della Terra su se stessa – ortodossia monetaria, privatizzazioni, deregolamentazione del mercato e del lavoro, competitività, flessibilità, colonizzazione da parte del capitale di settori che fino ad oggi gli sfuggivano, mercificazione della sanità e dell’educazione, economia e sovranità statali messe a disposizione dei rischi della borsa, delle agenzie di rating, dei test di stabilità del sistema bancario, etc. – Tutti questi “fatti” pongono dei “problemi”, problemi immensi, che bisogna risolvere facendo cessare tutti gli affari. Bisogna trasformare le società, sconfiggere la loro presunta inerzia e le loro reali resistenze, al fine di “armonizzarle” con questi “eventi naturali”. Per fare questo, occorrono delle “decisioni sovrane”, decisioni prese in uno “stato di emergenza”. Terzo tempo: “La globalizzazione neoliberista è”, “non c’è niente da fare”, “è un fatto” – anche questo è un evento naturale. A queste condizioni, la globalizzazione neoliberista da un lato, lo “stato di emergenza” dall’altro, la “decisione sovrana” riflette in primissimo luogo le istanze sopranazionali di FMI, BCE e Commissione europea (CE). Inutile precisare che le prime due istituzioni non dispongono di alcuna legittimità democratico-elettiva. Quanto alla Commissione europea, quel simulacro del “controllo”, che il Parlamento dallo stesso nome esercitava su di lei, oggi non è più dimostrabile. Lo si è visto, fra l’altro, con l’adozione dell’ultimo Trattato ed in occasione della seconda nomina a capo della Commissione dell’indescrivibile Barroso, vero e proprio pagliaccio del neoliberismo. Quarto tempo: le decisioni dettate in tale modo devono essere applicate ed eseguite sul campo. È questo il caso del famoso “Memorandum” ratificato qualche mese fa dal governo greco da una parte, FMI, BCE e CE dall’altra. I parlamenti nazionali divengono in questa fase dei semplici “uffici del registro” – se si mostrano riluttanti, si agisce con la forza, se ci sono manifestazioni e mobilitazioni si fanno orecchie da mercante e/o si reprime; quanto ai governi nazionali, essi si comportano come dei docili organi di esecuzione. È qui che l’“uomo politico” si muta in puro e semplice burocrate tipo, in tecnocrate, adottando l’indole ed il modo di agire burocratico come lo abbiamo descritto sopra: 1) egli separa radicalmente i “mezzi” ed i “fini” – in quanto burocrate, egli è l’uomo dei soli “mezzi”, i “fini” non solo gli sfuggono, ma egli si pone la regola espressa di astenersi da ogni valutazione al loro riguardo; 2) partendo da questo punto di vista riduttivo, egli riporta ogni questione sociale, politica, economica, etc., ad un problema meramente tecnico da risolvere – in quanto burocrate, egli è l’uomo delle procedure quantitative: calcolare, contare, enumerare, amministrare flussi e riflussi, ridurre, aumentare, porre in equazione, etc., uomo robot, sottomesso al dominio di una logica da semplice contabile. L’articolazione di queste due caratteristiche fondamentali di ogni sistema burocratico fa capo al concetto di “efficacia”. Il solo titolo di “legittimità” che la burocrazia può esibire è quello della propria “efficacia”. Sull’altare di questa, il burocrate è disposto a sacrificare – senza neanche rendersene conto – qualsiasi altra considerazione esterna alla “sfera dei mezzi”, ignorando tutte le considerazioni relative all’equità, alla giustizia sociale, alla dignità umana, all’uguaglianza, alla solidarietà fra tutti gli esseri che hanno un volto umano, ignorando anche le tre generazioni della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e, di conseguenza, gli stessi principi della Democrazia deliberativa. Per avere la coscienza pulita, “una coscienza giuridica pulita”, essi si fregiano dell’assoluta legalità delle decisioni prese, costretti e forzati, in una “situazione di emergenza” – del carattere “assoluto” di questa legalità si può, d’altra parte, dubitare, ma poco importa. Noi sappiamo, in compenso, che molto spesso, soprattutto in una situazione dichiarata “eccezionale”, la coscienza giuridica è “pulita” e veramente “tranquilla” solo quando la legalità si dimentica della sua sorella maggiore, la legittimità. E nel momento in cui legalità e legittimità sono affette da strabismo, nel momento in cui esse si separano e si allontanano pericolosamente, allora ci si deve aspettare di tutto e temere il peggio… Il loro non è mai un divorzio consensuale…
Questa è purtroppo l’immagine offertaci dalla maggior parte dei ministri e dei responsabili socialisti greci, l’immagine dei burocrati zelanti, efficienti, freddi, ottusi e testardi. I loro discorsi pubblici e la loro retorica sembrano indicare che essi hanno abdicato alla loro facoltà di pensare, se pensare significa ancora “giudicare” sulle finalità del vivere insieme – una vita degna di essere vissuta. È vero che i suddetti “ministri” hanno preso sulle loro fragili spalle – una gran parte di loro è relativamente giovane – il peso di un lavoro immenso, in realtà “sovrumano”, se non “inumano”. Questo peso impedisce loro senza dubbio di riflettere e pensare al di là dei loro compiti immediati e a breve termine. Inoltre, in questi torridi mesi dell’estate greca, il primo ministro si è assegnato il compito di rivolgersi pubblicamente ai suoi ministri: “So dell’immenso lavoro che avete svolto, e vi scongiuro, prendetevi qualche giorno di vacanza, senza vergogna né paura di essere incolpati; ve lo meritate, ma sappiate comunque che quando tornerete vi attende un lavoro colossale”. Parole che, nel contesto attuale, sembrano pietre.
Un ultimo punto, infine, che, anche se appare iperbolico, non ci deve impedire di interrogarci sulle potenzialità di questa riduzione della sfera politica a sfera tecno-burocratica. Alcuni storici e filosofi contemporanei si sono concentrati sulla categoria dei “crimini burocratici” per tentare di capire la specificità dei meccanismi che hanno reso possibili gli innumerevoli crimini, crimini di massa, commessi negli anni Trenta, e all’inizio degli anni Quaranta, dai regimi totalitari che è inutile nominare qui. Sappiamo al presente che in questa complessa istituzione criminale dello Stato, la burocrazia ha giocato, al di fuori e accanto agli apparati di repressione propriamente detti, un ruolo capitale e decisivo. I carnefici non erano tutti dei mostri – anche se ce ne sono stati alcuni, evidentemente – ma uomini semplici, burocrati bisognosi e coscienti della propria sfera, la “sfera dei mezzi” e delle “tecniche”. Avevano un sacco di problemi da risolvere: enumerare, classificare, stabilire delle priorità, amministrare flussi, calcolare, coordinare, aggiustare quantità, organizzare degli spostamenti… La finalità di tutte queste operazioni – che hanno marchiato la sorte di milioni di persone – era secondo loro, “fuori campo”, non appartenente alle loro competenze. Essi erano indifferenti alla finalità. Facevano solo il loro lavoro, lo facevano senza odio, ma con precisione e con zelo. Proprio dei tipici burocrati. L’ultima dichiarazione di Eichmann durante il suo processo fu: “colpevole, ma non responsabile”. Dopo aver assistito al processo, ed aver osservato Eichmann attentamente, Hannah Arendt dirà: “Non è un mostro. È solo un uomo che aveva smesso di pensare”.
Per evitare ogni malinteso, ci tengo ad affermare chiaramente: con questa osservazione non voglio assolutamente suggerire un paragone o una qualunque similitudine. Una tale insinuazione sarebbe assurda, stupida e odiosa. Ad ogni modo, i riferimenti ad altri contesti storici, anche se senza un metro comune, ovvero senza un rapporto diretto a situazioni presenti, ci possono aiutare a raggiungere una comprensione più lucida e più razionale del rischio effettivo nelle nostre società “postmoderne”. Non si può giocare impunemente con termini come “stato eccezionale”, “stato di emergenza”, “stato d’assedio”, “o noi, o il diluvio”…
Yannis Thanassekos (sociologo)
Fonte: www.mondialisation.ca
Link: http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=20267
luglio 2010
Traduzione per COMEDONCHISCIOTTE.ORG a cura di DANIEL ABBRUZZESE
NOTE
[1] Si veda il mio articolo in A Contre Courant, n.215, giugno-luglio 2010 e nel Bollettino del CADTM del 21 luglio 2010. http://www.cadtm.org/La-crise-grecque-le-maillon-le
[2] Non è mia intenzione analizzare o commentare le riforme in questione. Esse sono la copia conforme delle misure di austerità varate in tutti i paesi europei; a tale titolo, esse sono già state oggetto di numerose analisi critiche, che ne hanno denunciato l’inutilità e l’inumanità. A me interessa, piuttosto, la retorica dei responsabili politici.