DI NICHOLAS CARR
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“Dave, fermati. Fermati, per favore. Fermati, Dave. Ti fermi, Dave?”. Così supplica il supercomputer HAL all’implacabile astronauta Dave Bowman in una famosa e fantasticamente commovente scena quasi alla fine di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Bowman, dopo essere stato mandato a morire nello spazio interplanetario dalla malfunzionante macchina, sta tranquillamente e freddamente disconnettendo i circuiti di memoria che controllano il suo “cervello” artificiale. “Dave, la mia mente mi sta abbandonando – dice HAL, con tristezza -. Me ne sto rendendo conto. Lo sto sentendo.”
Anch’io me ne sto rendendo conto, lo sto sentendo. Negli ultimi anni ho avuto la scomoda sensazione che qualcuno, o qualcosa, stesse giocherellando con il mio cervello, cambiando lo schema del circuito neurologico, riprogrammando la memoria. Non è che sto perdendo la mente – sino a dove lo posso dire – ma sta cambiando. Non sto pensando nello stesso modo di una volta.Me ne rendo conto soprattutto quando leggo. Prima mi era facile immergermi in un libro o in un lungo articolo. La mia mente rimaneva agganciata alla narrazione o ai passaggi degli argomenti e passavo ore passeggiando nelle grandi distese della prosa. Adesso succede raramente. Adesso la mia concentrazione quasi sempre comincia a disperdersi dopo due o tre pagine. Divento inquieto, perdo il filo, comincio a cercare qualcos’altro da fare. La lettura profonda che mi riusciva naturale è diventata una lotta.
Credo di sapere ciò che sta succedendo. Già da più di un decennio, sto trascorrendo molto tempo on line, cercando e navigando e ogni tanto aggiungendo qualcosa alla grande base di dati di Internet. La rete è stata una benedizione per me in quanto scrittore. Ricerche che una volta richiedevano giorni trascorsi tra scaffali e stanze dei periodici di una biblioteca ora le posso fare in pochi minuti. Poche ricerche in Google, alcuni “click” rapidi a hyperlink(1) e ottengo il dato rivelatore o la succinta citazione che stavo cercando.
Persino quando non sto lavorando, è molto probabile che vada a frugare nella densità dell’informazione della rete: leggendo e scrivendo email, ispezionando titoli di giornale e blog, guardando video o ascoltando podcast o semplicemente saltando da collegamento a collegamento. (A differenza delle note a piè di pagina, a cui a volte assomigliano, gli hyperlink non solo segnalano opere relazionate col tema, ma anche ti spingono verso di esse).
Per me, come per altri, la rete sta diventando un medium universale, la conduttura di quasi tutta l’informazione che fluisce attraverso i miei occhi e le mie orecchie ed entra nella mia mente. I vantaggi di avere accesso immediato a un magazzino tanto incredibilmente ricco di informazioni sono molti e sono state ampiamente descritti e debitamente applauditi. Clive Thomson scrisse in Wired: ”La perfetta capacità di ricordare della memoria di silicone può essere un grande aiuto al pensiero”.
Però l’aiuto ha un prezzo. Come segnalò il teorico dei mezzi di informazione Marshall McLuhan negli anni sessanta, i media non sono soltanto canali passivi di informazione. Somministrano la materia per il pensiero, ma formano anche il processo del pensiero. E ciò che la rete sembra stia facendo è minare la mia capacità di concentrazione e contemplazione. La mia mente adesso aspetta di cogliere l’informazione nel modo in cui la Rete la distribuisce: in una corrente di particelle in rapido movimento. Un tempo sono stato un sub nel mare delle parole. Adesso scivolo sulla superficie come un ragazzo su una moto acquatica.
Non sono il solo. Quando menziono i miei problemi con la lettura ad amici e conoscenti – la maggior parte di essi sono uomini di lettere – molti dicono che stanno avendo esperienze simili. Più usano la Rete , più devono lottare per concentrarsi su lunghi brani scritti. Anche alcuni dei blogger che seguo hanno cominciato a menzionare il fenomeno. Scout Karp, che scrive un blog sui media, confessò poco tempo fa che ha smesso completamente di leggere libri. “Ho fatto il master in letteratura all’università ed ero un vorace lettore di libri – ha scritto -. Che cosa è successo?” E riflette nella risposta: “Se tutto ciò che leggo è nella rete, non si deve al fatto che è cambiato il mio modo di leggere, cioè, che io sono solo alla ricerca di comodità, ma che è cambiato il mio modo di PENSARE?”.
Anche Bruce Friedman, che scrive regolarmente nei blog sull’uso dei computer nella medicina, ha descritto come Internet ha cambiato le sue abitudini mentali. “Ho perduto quasi interamente la capacità di leggere e assorbire un lungo articolo nella rete o stampato”, scrisse all’inizio dell’anno.
Friedman, patologo membro da lunga data della facoltà della Scuola di Medicina dell’Università del Michigan, ampliò il suo commento in una conversazione telefonica tenuta con me. La sua forma di pensare, mi disse, ha preso una qualità di “staccato”, che riflette la forma con cui scansiona con rapidità corti passaggi di testo da molte fonti on line. “Ormai non posso più leggere Guerra e pace – ammise -. Ho perduto la capacità di farlo. Mi risulta difficile assorbire persino un blog di più di tre o quattro paragrafi. Ci passo sopra.”
Gli aneddoti da soli non dimostrano molto. E stiamo ancora aspettando gli esperimenti neurologici e psicologici a lungo termine che forniranno un quadro definitivo di come l’uso di Internet pregiudica la cognizione. Ma uno studio pubblicato recentemente sulla abitudine alle ricerche online, realizzato da accademici dell’University College di Londra, indicano che siamo nel mezzo di un cambio radicale nella forma di leggere e pensare.
Come parte di un programma di indagine di cinque anni, gli studiosi hanno esaminato file di registro di computer che documentano il comportamento dei visitatori di due popolari siti di indagine, uno della Biblioteca Britannica e l’altro di un consorzio educativo del Regno Unito, che offrono spazio ad articoli di riviste, libri elettronici e altre fonti di informazione scritta. Trovarono che le persone che utilizzavano i siti mostravano “una forma di attività come quella di chi sta dando un’occhiata”, dato che saltavano da una fonte all’altra e poche volte ritornavano su una che già avevano visitato. Normalmente leggevano una o due pagine di un articolo o libro, prima di “saltare” a un altro sito. A volte salvavano un lungo articolo, ma non ci sono le prove che ci siano ritornati e che lo abbiano letto davvero. Gli autori dello studio affermano:
“è evidente che gli utenti non leggono online nel senso tradizionale; di fatto, ci sono indizi che stiano nascendo nuove forme di “lettura” visto che gli utenti navigano orizzontalmente tra i titoli, gli indici e i riassunti cercando di guadagnare rapidità. Sembra quasi che vadano online per evitare di leggere nel senso tradizionale”.
Grazie all’ubiquità del testo in Internet, per non menzionare la popolarità dei messaggi di testo nei telefoni cellulari, probabilmente stiamo leggendo più oggi che negli anni settanta od ottanta, quando la televisione era il nostro media preferito. Però è un modo diverso di leggere e dietro c’è un modo diverso di pensare… forse persino un diverso senso dell’io. “Non solo siamo ciò che leggiamo – dice Maryanne Wolf, psicologa dello sviluppo dell’Università di Tufts e autrice di Proust and the Squid: The Story and Science of the Reading Brain (Proust e il calamaro: La storia e la scienza del cervello lettore) -. Siamo come leggiamo.”
Ciò che preoccupa la Wolf è che lo stile di lettura che promuove la Rete , uno stile che colloca l’“efficienza” e l’“immediatezza” prima di tutto il resto, stia forse debilitando la nostra capacità di lettura profonda che emerse quando una tecnologia anteriore, la stampa, rese comuni le lunghe e complesse opere di prosa. Quando leggiamo in linea, dice, tendiamo a diventare dei “meri decodificatori di informazioni”. La nostra capacità di interpretare testi, di fare le ricche connessioni mentali che si formano quando leggiamo con profondità e senza distrazione, rimane in gran misura disconnessa.
Leggere, spiega la Woolf , non è una abilità istintiva degli essere umani. Non è memorizzata nei nostri geni nella maniera in cui lo è nel discorso. Dobbiamo insegnare alle nostre menti a tradurre i caratteri simbolici che vediamo in linguaggio che comprendiamo. E gli altri mezzi o altre tecnologie che utilizziamo per apprendere e praticare l’arte della lettura svolgono un ruolo importante nella conformazione dei circuiti neurologici che si trovano all’interno dei nostri cervelli. Gli esperimenti dimostrano che i lettori di ideogrammi, come i cinesi, sviluppano un sistema di circuiti mentali per la lettura molto differente da quello che si trova in quelli come noi, la cui lingua scritta utilizza l’alfabeto.
Le variazioni si estendono attraverso molte regioni del cervello, incluse quelle che sovrintendono a funzioni cognitive tanto essenziali come la memoria e la interpretazione degli stimoli visuali e auditivi. Possiamo anche prevedere che i circuiti tessuti dal nostro utilizzo della Rete siano diversi da quelli tessuti dalla nostra lettura di libri e altre opere stampate.
Nel corso del 1882, Friedrich Nietzsche comprò una macchina da scrivere – una Malling-Hansen Writing Bal, per maggior precisione. Gli era calata la vista e mantenere a fuoco gli occhi sulla pagina gli era diventato logorante e doloroso e molte volte gli causava forti mal di testa. Si era visto obbligato a ridurre la scrittura e temeva che presto avrebbe dovuto abbandonarla. La machina da scrivere lo riscattò, almeno per un momento. Una volta padroneggiata la tastiera, poteva scrivere ad occhi chiusi, usando solo i polpastrelli delle dita. Le parole potevano fluire di nuovo dalla sua mente alla pagina.
Ma la macchina ebbe un effetto più sottile sulla sua opera. Uno degli amici di Nietzsche, un compositore, osservò un cambio nel suo stile di scrittura. La sua prosa, già di per sé tersa, era diventata più compressa, più telegrafica. “Può essere che con questo strumento ti abitui ad un nuovo idioma – gli scrisse l’amico in una lettera osservando che, nella sua opera, le sue “idee” in musica e linguaggio solevano dipendere dalla qualità della penna e della carta”.
– Hai ragione – rispose Nietzsche -, la nostra macchina da scrivere partecipa alla formazione dei nostri pensieri.
Sotto l’influsso della macchina, scrive l’accademico dei media tedesco Friedrich A. Kittler, la prosa di Nietzsche “cambiò da argomenti ad aforismi, da pensieri a giochi di parole, dallo stile retorico a quello telegrafico”.
Il cervello umano è quasi infinitamente malleabile. La gente riteneva che il nostro ingranaggio mentale – le dense connessioni che si formano tra i circa 100 bilioni di neuroni che si trovano dentro i nostri crani – fossero divenute in gran misura stabili quando raggiungiamo l’età adulta. Ma gli studiosi del cervello hanno scoperto che non è così. James Olds, professore di neuroscienza che dirige il Krasnow Institute for Advanced Study dell’Università George Mason, afferma che persino la mente adulta “è molto plastica”. I neuroni normalmente rompono le vecchie connessioni e ne formano di nuove. Secondo Olds, “il cervello ha la capacità di riprogrammarsi al volo, cambiando il modo di funzionare”.
Quando usiamo ciò che il sociologo Daniel Bell ha chiamato le nostre “tecnologie intellettuali” – gli strumenti che ampliano le nostre capacità mentali piuttosto che fisiche – inevitabilmente cominciamo ad adottare le qualità di dette tecnologie.
L’orologio meccanico, che cominciò ad essere utilizzato correntemente nel secolo XIV, rappresenta un esempio convincente. In Technics and Civilization (Tecniche e civilizzazione), lo storico e critico della cultura Lewis Mumford descrisse il modo in cui l’orologio “dissociò il tempo dagli eventi umani e contribuì a creare l’idea di un mondo indipendente di sequenze matematicamente misurabili”. Il “contesto astratto del tempo diviso” si convertì nel “punto di riferimento sia dell’azione che del pensiero”.
Il tictac metodico dell’orologio contribuì a far sorgere la mente scientifica e lo scienziato. Ma al tempo stesso tolse qualcosa. Come osservò lo scomparso scienziato di informatica del MIT (2) Joseph Weizenbaum nel suo libro del 1976, Computer Power and Human Reason: From Judgment to Calculation (Il potere del computer e la ragione umana: dal giudizio al calcolo), la concezione del mondo che derivò dall’impiego esteso degli strumenti per misurare il tempo “continua ad essere una versione impoverita dell’antico, perché poggia sul rifiuto delle esperienze dirette che formavano la base dell’antica realtà e, di fatto, la costituivano”. Quando decidiamo quando mangiare, lavorare, dormire, alzarci, smettiamo di ascoltare i nostri sensi e cominciamo ad obbedire all’orologio.
Il processo di adattamento alle nuove tecnologie intellettuali si riflette nelle nuove metafore che utilizziamo per spiegarci a noi stessi. Quando fu inventato l’orologio meccanico, le persone cominciarono a pensare che il cervello operava “come un orologio”. Oggi, nell’era del software, siamo giunti a pensare che opera “come i computer”. Ma i cambiamenti, ci dicono le neuroscienze, sono molto più profondi della metafora. Grazie alla plasticità del nostro cervello, l’adattamento si realizza anche a livello biologico.
Internet promette di produrre effetti di speciale portata in ambito cognitivo. In un lavoro pubblicato nel 1936, il matematico britannico Alan Turing dimostrò che era possibile programmare un computer digitale, che a quell’epoca esisteva solamente in quanto macchina teorica, in modo che svolgesse la funzione di qualsiasi altro dispositivo di processo di informazioni. Questo è ciò a cui stiamo assistendo ai nostri giorni.
Internet, un sistema di computer incommensurabilmente potente, sta sottomettendo la maggioranza delle altre nostre tecnologie intellettive. Sta diventando la nostra cartina e il nostro orologio, la nostra stampa e la nostra macchina da scrivere, la nostra calcolatrice e il nostro telefono, la nostra radio e la nostra televisione.
Quando la rete assorbe un mezzo di informazione, questo viene ricreato ad immagine della Rete. Inietta il contenuto del mezzo con collegamenti ipertestuali, annunci lampeggianti e altre cianfrusaglie digitali e ne circonda il contenuto con quello di tutti gli altri media che ha assorbito. Un nuovo messaggio di posta elettronica, per esempio, può annunciare il suo arrivo mentre stiamo rivedendo gli ultimi titoli nel sito web di un giornale. Il risultato è disperdere la nostra attenzione e diffondere la nostra concentrazione.
L’influenza della Rete non termina nemmeno ai margini dello schermo del computer. Col sintonizzare la mente delle persone all’impazzito sistema dei media di Internet, i media tradizionali devono adattarsi alle nuove aspettative del pubblico.
I programmi televisivi aggiungono testo che scorre sul video e annunci che appaiono all’improvviso; riviste e giornali accorciano i loro articoli, introducono riassunti in pillole e riempiono le loro pagine con frammenti di informazioni facili da scorrere. Quando nel mese di marzo di quest’anno il New York Times decise di dedicare la seconda e terza pagina di ciascuna edizione a riassunti di articoli, il suo direttore grafico Tom Bodkin spiegò che i “tagli” avrebbero dato al lettore affaccendato un “assaggio” rapido delle notizie del giorno risparmiandogli il metodo “meno efficiente” di scorrere le pagine e leggere gli articoli. I vecchi media non hanno altre opzioni
che giocare con le regole dei nuovi media.
Mai un sistema di comunicazione ha svolto tanti ruoli nella nostra vita – o esercitato un’influenza tanto ampia sui nostri pensieri – come fa oggi Internet. Però, nonostante tutto ciò che è stato scritto sulla rete, si è considerato poco quanto ci stia riprogrammando. L’etica intellettuale della Rete continua ad essere oscura.
All’incirca nel periodo in cui Nietzsche cominciò a usare la sua macchina da scrivere, un giovane serio chiamato Frederick Winslow Taylor andò con un cronometro alla fabbrica della Midvale Steel di Filadelfia e cominciò una storica serie di esperimenti destinata a migliorare l’efficienza dei suoi macchinisti. Con l’approvazione dei proprietari della Midvale, prese un gruppo di operai, li mise a lavorare a vari macchinari di elaborazione dei metalli e registrò e misurò il tempo di ciascuno dei loro movimenti così come le operazioni delle macchine. Suddividendo ciascun compito in una sequenza di piccoli passi e poi testando varie forme per realizzare ciascuno di essi, Taylor creò un sistema di precise istruzioni – un “algoritmo” potremmo dire oggi – di come doveva lavorare ciascun operaio.
Gli impiegati della Midvale brontolarono per il nuovo stretto regime, dicendo che li trasformava in poco più che automi, ma la produttività della fabbrica ebbe una forte crescita.
Più di cento anni dopo l’invenzione della macchina a vapore, la rivoluzione Industriale aveva trovato le sue basi filosofiche e il suo filosofo. La stretta coreografia industriale di Taylor – il suo “sistema”, come gli piaceva chiamarlo – fu accettato dai fabbricanti di tutto il paese e, con il tempo, di tutto il mondo. Procurando una maggior rapidità, efficienza e produzione, i proprietari di fabbriche adottarono gli studi del tempo e del movimento per organizzare il lavoro e configurare i compiti dei loro lavoratori.
L’obiettivo, come lo definì Taylor nel suo celebre trattato del 1911, The Principles of Scientific Management (I principi della gestione moderna), era identificare e adottare, per ogni compito, “un metodo migliore” di lavoro e con questo effettuare “la sostituzione graduale della scienza con la regola empirica in tutte le arti meccaniche”. Una volta che si fosse applicato questo sistema in tutti gli atti del lavoro manuale, assicurò Taylor ai suoi seguaci, si sarebbe realizzata una ristrutturazione non solo dell’industria, ma anche della società, creando l’utopia dell’efficienza perfetta. “Nel passato l’uomo era stato il punto di riferimento – dichiarò -, nel futuro lo sarà il sistema”.
Il sistema di Taylor continua in gran misura con noi: continua ad essere l’etica della manifattura industriale. E adesso, grazie al potere crescente che gli ingegneri informatici e i codificatori di software esercitano sulla nostra vita intellettuale, l’etica di Taylor comincia a governare anche la sfera della mente. Internet è una macchina disegnata per la raccolta, trasmissione e manipolazione automatizzata di informazioni e le sue legioni di programmatori sono impegnati a cercare “l’unico metodo migliore” – l’algoritmo perfetto – per portare a termine ogni movimento mentale di ciò che siamo arrivati a descrivere come “lavoro di conoscenza”.
La sede di Google, a Mountain View, California – il Googleplex – è il supremo santuario di Internet e la religione che si pratica tra le sue pareti è il taylorismo. Google, a detta del suo principale dirigente, Eric Schmidt, è “una compagnia fondata intorno alla scienza della misurazione” e si sforza di “sistematizzare tutto” ciò che fa. Secondo la Harvard Business Review, facendo uso di terabytes di dati comportamentali che raccoglie mediante il suo search engine (3) e altri siti, realizza migliaia di esperimenti giornalieri e utilizza i risultati per affinare gli algoritmi che controllano sempre più il modo in cui le persone trovano informazioni e estraggono il significato da esse. Ciò che Taylor fece per il lavoro manuale, Google lo sta facendo per il lavoro mentale.
L’impresa ha dichiarato che la sua missione è “organizzare l’informazione mondiale e renderla universalmente accessibile e utile”. Cerca di sviluppare “il motore di ricerca perfetto” che definisce come qualcosa che “intende esattamente ciò che uno vuol significare e gli restituisce esattamente ciò che desidera”. Nelle intenzioni di Google, l’informazione è un tipo di prodotto, una risorsa utilitaria che si può estrarre ed elaborare con efficienza industriale. Più sono i pezzi di informazione a cui uno può accedere, maggiore è la rapidità con cui possiamo estrarre l’essenziale da essi, più produttivi saremo come pensatori.
Dove finisce tutto ciò? Sergey Brin e Larry Page, i dotati giovani che fondarono Google quando facevano il dottorato in scienza dell’informatica a Stanford, parlano frequentemente del loro desiderio di convertire il loro motore di ricerca in una intelligenza artificiale, una macchina nello stile di HAL che sia possibile collegare direttamente ai nostri cervelli. “Il motore di ricerca finale è intelligente come le persone… o di più – affermò Page qualche anno fa in un discorso -. Per noi, lavorare nella ricerca è un modo di lavorare sull’intelligenza artificiale.
In una intervista concessa a Newsweek nel 2004, Brin commentò: “Non c’è dubbio che se uno avesse tutta l’informazione del mondo unita direttamente al cervello, o un cervello artificiale che fosse miglore del proprio, starebbe meglio. “L’anno scorso Page disse in un convegno di scienziati che Google “in realtà cerca di costruire un’intelligenza artificiale e di farlo in grande scala”.
Un’ambizione di questo tipo è naturale, persino ammirevole, per un paio di geni matematici con molto denaro a disposizione e un piccolo esercito di scienziati informatici al loro servizio. Google, un’azienda fondamentalmente scientifica, è motivata dal desiderio di usare la tecnologia, a parole di Eric Schmidt, “per risolvere problemi che mai prima sono stati risolti” e l’intelligenza artificiale è il problema più difficile che c’è. Perché non possono essere Brin e Page coloro che lo risolveranno?
Ad ogni modo, la loro semplice supposizione che staremmo “molto meglio” se i nostri cervelli fossero completati, o addirittura sostituiti, da un’intelligenza artificiale risulta inquietante. Ciò indica una credenza che l’intelligenza è il prodotto di un processo meccanico, una serie di passi discreti che è possibile isolare, misurare, ottimizzare. Nel mondo di Google, il mondo in cui entriamo quando entriamo in linea, c’è poco spazio per la mancanza di chiarezza della contemplazione. L’ambiguità non è un’apertura per il discernimento, ma un guasto che si deve riparare. Il cervello umano è solo un antiquato computer che necessita di un processore più veloce e di un hard disk maggiore.
L’idea che le nostre menti devono operare come macchine d’elaborazione dati ad alta velocità non solo è insita nel funzionamento di Internet, ma è anche il modello commerciale dominante della rete. Più navighiamo nella Rete con maggior velocità – più collegamenti possiamo cliccare e più pagine visitare – più opportunità guadagna Google e altre imprese di compilare informazioni su di noi e bersagliarci di annunci.
La maggioranza dei proprietari commerciali di Internet hanno un interesse finanziario a raccogliere interessi finanziari a compilare le briciole di dati che lasciamo dietro di noi quando saltiamo da link a link… più briciole lasciamo, meglio è. L’ultima cosa che desiderano queste imprese è promuovere la lettura pausata o il pensiero concentrato, lento. E’ loro interesse economico portarci alla distrazione.
Può essere che io sia una persona che si preoccupa più del dovuto. Come esiste una tendenza a glorificare il progresso tecnologico, esiste una tendenza opposta che si aspetta il peggio dai nuovi strumenti o dalle nuove macchine.
Nel Fedro di Platone, Socrate si lamentava dello sviluppo della scrittura. Temeva che, mano a mano che le persone avessero cominciato a fare affidamento nella parola scritta quale sostituto della conoscenza che prima portavano nelle teste, con le parole di uno dei personaggi del dialogo “cesseranno di esercitare la loro memoria e diventeranno smemorate”. E dato che potrebbero “ricevere una quantità di informazioni senza adeguate istruzioni”, le si “considererà grandi conoscitrici quando invece la maggior parte di esse è molto ignorante”. Sarebbero “piene di presunzione di sapienza invece che della vera sapienza”.
Socrate non si sbagliava – molte volte la nuova tecnologia produce gli effetti che temeva -, però fu miope. Non poteva prevedere le molte forme in cui la scrittura e la lettura sarebbero servite per estendere l’informazione, stimolare nuove idee e espandere la conoscenza (e anche la sapienza) umana.
L’arrivo della stampa di Gutemberg nel secolo XV provocò un altro giro di digrignamento di denti. L’umanista italiano Geronimo Squarciafico si preoccupava che la facile disponibilità di libri conducesse alla pigrizia intellettuale, rendendo gli uomini “meno studiosi” e debilitando le loro menti. Altri adducevano che i libri e le pubblicazioni stampate a basso prezzo avrebbero scalzato le autorità religiose, avrebbero degradato il lavoro degli eruditi e degli scrivani e avrebbe esteso la sedizione e il libertinaggio. Come osserva il professore dell’Università di New York, Clay Shirky: “La maggior parte degli argomenti che si opposero alla stampa furono corretti, persino profetici.” Ma, ancora, gli indovini non furono capaci di immaginare la miriade di benedizioni che offriva la parola stampata.
Così, dovete essere scettici verso il mio scetticismo. Può essere che quelli che tacciano i critici di Internet considerandoli luddisti o nostalgici abbiano ragione e dalle nostre menti iperattive, alimentate dai dati, sorga un’era dorata di scoperte intellettuali e sapienza universale.
Ma, ancora, la rete non è l’alfabeto e anche se può sostituire la stampa, produce qualcosa di completamente diverso. Il tipo di lettura profonda che promuove una sequenza di pagine stampate è preziosa non solo per la conoscenza che acquisiamo dalle parole dell’autore, ma anche per le vibrazioni intellettuali che quelle parole scatenano nelle nostre menti. Negli spazi di calma aperti dalla lettura sostenuta, senza distrazione, di un libro o, se a ciò ci riferiamo, di qualsiasi altro atto di contemplazione, realizziamo le nostre associazioni, tracciamo le nostre inferenze e analogie, promuoviamo le nostre idee. La lettura profonda, come afferma Maryanne Wolf, è indistinguibile dal pensiero profondo.
Se perderemo questo spazio di quiete o lo riempiremo di “contenuto”, sacrificheremo qualcosa di importante non solo del nostro essere, ma anche della nostra cultura. In un saggio recente, il drammaturgo Richard Foreman descrisse con eloquenza ciò che è in gioco:
“Vengo da una tradizione di cultura occidentale in cui l’ideale (il mio ideale) era la struttura complessa, densa, come una cattedrale della personalità di alta educazione ed espressione, l’uomo o la donna che portava dentro di sé una versione costruita individualmente e singolare del patrimonio completo dell’Occidente. [Però adesso] vedo dentro di tutti noi (io incluso) la sostituzione della complessa densità interna con un nuovo tipo di essere che evolve sotto la pressione di un sovraccarico di informazione e la tecnologia dell’“istantaneamente disponibile”.
Mentre noi siamo prosciugati del nostro “repertorio interno di denso patrimonio culturale”, concluse Foreman, rischiamo di trasformarci in “gente tanto estesa e sottile come una crepe quando ci connettiamo con la vasta rete dell’informazione a cui si accede toccando soltanto un bottone.”
Mi persegue quella scena di 2001. Ciò che la rende tanto commovente, e tanto strana, è la risposta emozionale del computer allo smontare la sua mente: la sua disperazione quando vanno oscurandosi i circuiti uno dopo l’altro. La sua supplica all’astronauta – “Lo sento. Lo sento. Ho paura” – e il suo regresso finale a ciò che può solo ricevere il nome di stato di innocenza.
L’emanazione dei sentimenti di HAL contrasta con l’impassibilità che caratterizza le figure umane del film, che fanno ciò che devono fare con efficienza quasi robotica. I loro pensieri e azioni sembrano preparati in anticipo, come se seguissero i passi di un algoritmo.
Nel mondo di 2001, le persone sono diventate tanto simili alle macchine che il carattere più umano risulta essere la macchina. Questa è l’essenza dell’oscura profezia di Kubrick: mentre confidiamo nei computer per mediare la nostra comprensione del mondo è la nostra intelligenza che si appiatisce per convertirsi in intelligenza artificiale.
Nicholas Carr
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=70168
Versione in lingua inglese: Is Google Making Us Stupid?
Link: http://www.theatlantic.com/doc/200807/google
luglio/agosto 2008
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di RICCARDO FERRERI (www.alol.it.it)
* Il libro più recente di Nicholas Carr, The Big Switch: Rewiring the World, from Edison to Google, è stato publicato nel 2008.
Note:
1.- Hyperlink (ipercollegamento, ipervincolo, nesso) Puntatore esistente in un documento di ipertesto che punta (collega) ad un altro documento che può essere o non essere un altro documento di ipertesto. [Fonte: RFCALVO]
2.- Massachussets Institute of Technology.
3.- Search engine (motore di ricerca, ricercatore, indicizzatore di informazioni) Servizio WWW che permette all’utente di accedere ad informazioni su un tema determinato contenute in un server di informazioni Internet (WWW, FTP, Gopher, Usenet, Newsgroups…) mediante parole di ricerca introdotte da lui. I più conosciuti sono Yahoo, WebCrawler, Lycos, Altavista, DejaNews… In Spagna cominciano ad esserci indicizzatori in lingua castigliana, con nomi tanto puri come Ole y Ozú. [Fonte: RFCALVO].