GNOCCA E GUAI

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DI TEO LORINI
Il primo amore

Con questo titolo «Libero» ha accolto la pubblicazione di nuove intercettazioni sui maneggi di Berlusconi e sodali fra le cosce di soubrettine inclini al mercimonio e gli onorevoli da ammorbidire per far cadere il governo. Ci si potrebbe anche fermare (questo forse è l’effetto auspicato) alla potenza di quella sineddoche urlata a tutta pagina, ma per il quotidiano diretto da Feltri sparate e linguaggio da trivio non sono una novità. A seconda dell’orientamento politico, i titoli di «Libero» possono apparire simpaticamente maramaldi, teppistici, carichi di cattivo gusto o di incitamento all’odio. Il problema non è però nella parolaccia, ma nella tesi che essa veicola o -più precisamente- circoscrive.
È necessario fare un passo indietro.

Si può discutere a lungo di giustizialismo, di intercettazioni (sia detto en passant, pochissimi Paesi le regolamentano con la severità in vigore oggi in Italia), dell’opportunità di pubblicare le conversazioni fra personaggi che occupano cariche pubbliche, di lotte fra procure, di decreti salva-premier e ferma-processi, ma è un fatto che in qualsiasi altro Paese democratico e civile una telefonata come quella fra Berlusconi e Saccà sarebbe bastata per rendere palese l’inadeguatezza del Cavaliere come candidato premier, per non parlare del suo ossequiente inferiore, tuttora incardinato (ancorché in attesa di un pronunciamento) nell’organigramma RAI.
Il problema del rapporto fra gli italiani e i posti di pubblica responsabilità non è solo complicato ma annoso. Fuori dai confini italiani, le batoste elettorali avrebbero portato alle dimissioni di D’Alema prima e di Veltroni ora (e, perché no?, anche di Berlusconi, quando è stato battuto per ben due volte da Romano Prodi). Più indietro ancora, è difficile immaginare un altro Paese in cui due politici implicati a vario titolo in misteri, stragi & depistaggi, sospetti o acclarate connessioni con la criminalità organizzata e con gruppi eversivi come la P2, avrebbero potuto compiere il cursus honorum di personaggi come Andreotti o Cossiga, deprecati per decenni nelle conversazioni di innumerevoli italiani, ma puntualmente premiati dal responso delle urne (almeno sino a quando ne hanno avuto bisogno).

Con la celebre discesa in campo di Berlusconi però, l’inamovibilità da cariche e poltrone fa un salto di qualità e assume una connotazione «antropologica» in cui non c’è processo, scandalo, problema o fallimento concreto che produca effetti conseguenti. Gli esempi sono innumerevoli e, talvolta, paradossali. Il leghista Calderoli fa una bravata da bar sport (la famosa maglietta anti-islamica al tg1) che costa la vita a undici civili in Libia? Pronto un posto in lista e la rielezione garantita. Un ragazzo viene picchiato a morte nel pieno centro di Verona, dove il sindaco aveva stravinto la campagna elettorale con l’unica proposta di tolleranza zero e sicurezza a ogni costo? Lasciamo lavorare il povero Tosi!
E si potrebbe andare avanti per pagine: è di ieri, ad esempio, la sentenza che stabilisce che il giudice Clementina Forleo non ha commesso illeciti nell’indagine che adombra responsabilità inquietanti dell’onorevole D’Alema e del suo fido scudiero La Torre nelle criminose scalate bancarie del 2005. Il tutto, ben inteso, senza neppure iniziare ad addentrarsi nel ginepraio di processi dai quali l’attuale primo ministro si difende ormai da anni e con consumata abilità (viene quasi –sia chiaro: quasi– nostalgia di quell’Andreotti che assisteva silente alle sedute del tribunale di Palermo o dei patetici «Non ricordo» dietro cui si trincerava Cossiga nelle audizioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro).
Per spiegare questo scarto, questa involuzione, è utile ricorrere alla categoria della Scomparsa dei fatti messa a fuoco da Marco Travaglio in un fortunato libro edito dal Saggiatore. Ciò di cui non si parla, non esiste. Anziché argomentare su un fatto concreto, provare a smentire una risultanza è infinitamente più efficace distruggere chi la racconta o, meglio ancora, impedire che sia raccontata.

La prima fattispecie consente di tornare alla sineddoche del quotidiano di Feltri per ricordare che «il guaio» non è certo «la gnocca» bensì, con ogni evidenza, la manovra in cui le proclivi attricette di Berlusconi e c. rientrano come mera merce di scambio, per corrompere uomini politici e far cadere illecitamente un governo eletto. Un’altra di quelle situazioni in cui un Paese normale avvierebbe una procedura contro il corruttore e non contro il giornalista che ne dà notizia o il magistrato che vi indaga. Ma il fatto non sussiste se chi dovrebbe raccontarlo, scodinzola al padrone con la prona dedizione dei dipendenti (mai qualifica fu più azzeccata) di «Libero».
Ecco allora la frase da osteria, la conclusione che tutti apparenta e tutto livella: «Eddai, diciamoci la verità», ammicca il titolo del quotidiano: «a chi non piace la gnocca?».
Vengono in mente le scritte allegramente sgrammaticate che si trovavano nei vespasiani o negli spogliatoi di certi campetti di paese: «Chi gli piace la figa / qui sotto tiri una riga». E giù tutti a ridere, mentre il fatto diventa indistinto, impreciso o, più semplicemente, scompare

È il caso degli spauracchi che hanno dominato la campagna elettorale. Qualcuno ricorda gli italiani che il vampiro Prodi aveva gettato nella miseria più nera? Quelli che non arrivavano alla quarta settimana del mese? Con quel che costa la benzina oggi, è lecito supporre che le settimane d’autonomia si siano ulteriormente ridotte, eppure gli italiani in miseria non ci sono più. Come non c’è più la questione Alitalia. Come, non parlandone o parlandone meno, non sembra esserci più l’emergenza-monnezza o le truffe e il traffico di rifiuti per cui diversi collaboratori di Bertolaso sono finiti sotto indagine.
A cinquanta giorni dal voto altri problemi incombono: Rete4, il costo delle intercettazioni e la violazione della vita privata, la magistratura politicizzata e le cariche dello Stato da proteggere contro le indagini di quest’ultima, i processi «che non ci fanno lavorare».
Siamo a un copione già visto, sempre uguale e che desta stupore soltanto nella cosiddetta “opposizione”. Che, pur di mantenere un’oncia di visibilità, pur di non essere dimenticata s’affretta a minimizzare, a puntualizzare, a discutere magari sulla lana caprina e il sesso degli angeli, ma non sulle questioni autentiche, ancora una volta sui fatti.

Altro esempio: fra i molti interventi con cui la UE si sforza di ricordare all’Italia che essere parte di una comunità internazionale significa anche tenere conto di regole comuni (due infrazioni recentissime: il prestito-ponte per Alitalia e i salti mortali per proteggere le frequenze illegali di Rete4) spicca ora la forte censura con cui la Commissione UE e il Consiglio d’Europa criticano l’iniziativa leghista di schedare le impronte dei bambini rom. Da tutte le parti d’Europa, persino dalla Confederazione Elvetica (dove è ancora vivo il ricordo del criminale progetto eugenetico «Bambini di strada / Kinder der Landstrasse» che dagli anni Venti al 1972 operò per sradicare e, di fatto, eliminare il nomadismo dalla società svizzera, strappando i bambini zingari alle famiglie, cancellando loro il cognome e, in alcuni casi, anche sterilizzandoli), si levano critiche all’iniziativa del ministero presieduto da Roberto Maroni. Da politici, sociologi, operatori e religiosi non ci sono esitazioni o falsi imbarazzi nel denunciare apertamente le analogie tra l’ordinanza per le schedature e le leggi razziali varate da nazisti e fascisti.
In Italia invece la reazione dominante ondeggia fra tiepide perplessità e scoperto fastidio. La percezione che l’opinione pubblica ha delle censure internazionali è la stessa a cui ricorre spesso e volentieri il presidente del consiglio: un complotto, un imbroglio, un fastidio per non lasciarci lavorare in pace.

Delle due l’una: o la maggioranza del popolo italiano è stata repentinamente colpita da un contagioso appannamento delle facoltà di giudizio o, per quanto l’opposizione minimizzi e si tenga alla larga da questo spinoso problema, l’opinione pubblica è manipolabile dalla potenza di fuoco di un’informazione al servizio permanente di un solo padrone. L’anomalia, tante volte denunciata con grave fastidio di chi, come il centrosinistra, avrebbe dovuto intervenire per risolverla, è sempre più invadente e pervasiva.
A dieci giorni dalle elezioni già si parlava di chiudere programmi (su tutti «Annozero»), a quindici si verificava la scomparsa della crisi Alitalia (e le relative cordate fantasma) e dei privilegi della “Casta”, a trenta esplodeva il gravissimo problema delle intercettazioni. È verosimile che tutelare la privacy di un manager corruttibile per gli italiani sia più importante del modo in cui arrivare alla fine del mese? Che l’intangibilità di quattro cariche dello stato (e di una in particolare) sia priorità superiore all’esistenza di un’intera generazione che vive nella precarietà più assoluta?
In questi giorni appare più che mai chiaro che l’Anomalia italiana nel campo dell’informazione non sia solo una faccenda d’influenz
a
dell’elettorato al momento del voto, ma una vera e propria forza di persuasione: l’opinione pubblica, anche la più avvertita, viene esposta ogni giorno a un massivo bombardamento mediatico che plasma l’agenda politica e l’ordine d’importanza degli interventi, sfumando ad arte problemi e scandali («Il guaio è la gnocca») o -più semplicemente- decidendo di ignorarli.

È poco verosimile che gli squilibri lasciati indisturbati dai governi di centro-sinistra, possano essere affrontati in un sussulto di inedito senso dello Stato dall’attuale premier. E tuttavia, anche alla luce di quanto scritto sino a qui, non pare più possibile più chiudere gli occhi dinnanzi alle responsabilità di chi collabora a questo stato di cose, e segnatamente di chi lavora, a tutti i livelli, nell’ambito della cosiddetta informazione.
Da una parte è chiaro che ogni testata raccoglie collaboratori coerenti con gli ideali o le ideologie che essa sostiene. Dall’altra accade spesso (per la verità soprattutto a destra), di ascoltare giornalisti che prendono le distanze dalla linea editoriale o dalle paradossali sortite dei loro direttori.
Tuttavia scaricare su Feltri (o Giordano, o Belpietro e gli altri fedelissimi) la scelta dei titoloni compiacenti e servili sul «Guaio della gnocca» o su «PM sovversivi e democrazia a rischio» è una scusa comoda, come lo è la logora argomentazione della «libertà assoluta di scrivere e dire ciò che si vuole».
Davvero questo discorso può bastare per giustificare a se stessi ciò che (pur scritto in adamantina libertà) viene stampato dietro a quel genere di titoli?

O forse vale l’eterna giustificazione italiana del “tengo famiglia”?
Ma chi la tiene la famiglia? Sono passati 14 anni da quando Montanelli pubblicò il suo ultimo articolo su «Il Giornale», affidato poi all’obbediente Vittorio Feltri affinché ne facesse quel megafono di Forza Italia che Berlusconi desiderava e che il quotidiano di via Negri è tuttora.
14 anni: una generazione: possibile che tutti i giovani approdati negli ultimi tre lustri alla professione del giornalismo abbiano una famiglia numerosa di bocche da sfamare? Possibile che sia questa la pietosa ragione che li tiene inchiodati, obtorto collo, all’uno o all’altro dei media che plasmano l’informazione a suon di titoli cubitali, di sofismi lambiccati, di opinioni del Padrone pretestuosamente immesse o sottintese quasi a ogni riga?
Il sospetto è invece che, più dei familiari da mantenere, contino considerazioni prosaiche, come lo stipendio o la visibilità. Se non fosse -questa sì- una violazione della privacy, verrebbe voglia di proporre la pubblicazione di quegli stipendi, giusto per quantificare in valuta corrente quanto costa comprarsi gli ideali di una persona per mettere al loro posto l’obbedienza di un servo.

Teo Lorini
Fonte: www.ilprimoamore.com
Link: http://www.ilprimoamore.com/testo_979.html
30.06.08

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