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GLI USA NON SONO LA GRECIA

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A cura di Davide
Il 22 Maggio 2010
66 Views

DI MARSHALL AUERBACK
counterpunch.org

Le nazioni dell’Eurospazzatura vanno verso il default

Se impariamo la lezione sbagliata dalla Grecia, la nostra rete di sicurezza sociale può finire a brandelli.

Molti analisti del mercato, commentatori ed economisti sostengono che si fa fatica a trovare un parametro nel quale gli Usa siano in forma finanziaria migliore della Grecia. Ken Rogoff, per esempio, recentemente ha segnalato che il default greco inaugurerebbe una serie di default sovrani e ha recentemente suggerito dalla NPR (radio pubblica statunitense) che la crisi ha anche conseguenze per gli Usa. Lo storico Niall Ferguson ha dato un avvertimento simile pochi mesi fa sul Financial Times. Il volume dei clamori dei falchi del deficit cresce: “Spendaccioni delle finanze pentitevi, prima che arrivi il giorno della resa dei conti”.


Lasciamo un po’ da parte l’isteria biblica mentre c’è ancora tempo per un dibattito razionale. La recente risposta del mercato alle pressioni che si intensificano nell’eurozona suggeriscono che gli investitori cominciano a differenziare tra Paesi che sono emettitori sovrani di valuta, come gli Usa o il Giappone, e emettitori non sovrani, come la Grecia o ogni altra nazione dell’Eurozona. Il dollaro Usa sta aumentando di valore, indipendentemente dal deficit federale, mentre le difficoltà del debito dei cosiddetti “PIIGS” (Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, soprattutto la Grecia) si stanno intensificando, portando in tal modo l’euro ai continui ribassi contro il dollaro degli ultimi 12 mesi.

A questo proposito, la performance relativa di diverse valute nei confronti del dollaro Usa è molto istruttiva. Negli ultimi 3 mesi, il dollaro australiano, quello neozelandese e quello canadese hanno tutti registrato guadagni di circa il 4 per cento nei confronti del biglietto verde. Il peggior andamento? Senza sorpresa, quello dell’euro, calato del 6,3 per cento nello stesso periodo. Coscientemente o no, i mercati stanno dimostrando di distinguere tra Paesi che usano una valuta (e che subiscono un vincolo finanziario esterno) e quelle nazioni che non hanno vincoli nelle capacità di spesa poiché sono creatori di valuta.

In questo contesto, che gli Usa abbiano la riserva valutaria è una considerazione irrilevante. Il criterio per distinguere resta utilizzatori contro creatori. Gli Stati dell’eurozona fanno parte del primo gruppo; Canada, Australia, Regno Unito, Giappone e Usa fanno parte del secondo.

Considerare Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda alla stessa stregua degli Stati Uniti o del Regno Unito, come fanno Rogoff, Ferguson e altri commentatori minori, è sbagliato. La loro analisi erronea deriva dall’incapacità dei critici del debito pubblico di distinguere tra assetti monetari di nazioni sovrane e non. Ogni governo sovrano (nessuno all’interno dell’Unione Economica e Monetaria ha più tale status) può fronteggiare un collasso finanziario ed un aumento delle spese da una prospettiva finanziaria senza invocare quella sorta di punti morti che stanno ora devastando i paesi dell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Quello è il motivo per cui, ad esempio, lo yen giapponese non è in caduta libera nei confronti del dollaro, nonostante abbia un debito pubblico del 200 per certo in rapporto al Pil, quasi due volte e mezzo quello degli Usa. Infatti, negli ultimi giorni in realtà lo yen si è apprezzato nei confronti del dollaro. Perché ciò accade, se la lezione che si suppone dobbiamo imparare è il male che deriva da politiche di governo della spesa “insostenibili”?

La sostenibilità fiscale non è rilevante in un sistema dove non ci sono restrizioni operative nella possibilità di un governo di spendere. Gli assegni della Social Security Usa saranno pagati. Altrettanto dicasi per gli equivalenti canadesi o giapponesi. In maniera simile, i loro bonds saranno sempre in grado di pagare interessi. Notare che ciò non significa che non ci siano reali restrizioni di risorse nelle possibilità di spesa di un governo. Siamo chiari: chi promuovi l’uso della politica fiscale come strumento efficace di contro-stabilizzazione è sempre attento a puntualizzare che tali interventi possono avere un costo. Tale costo potrebbe essere l’inflazione se, come risultato dell’espansione fiscale, si raggiungesse il pieno impiego e le risorse cominciassero ad apparire limitate, ma ciò nonostante il governo continuasse a spendere. Salvo che l’economia riprendesse a crescere, le entrate fiscali aumentino e la spesa per la rete di sicurezza cada. Negli Usa, ciò probabilmente significherebbe essere tornati alla “normalità”, con deficit che si aggirano intorno al 2-4 per cento secondo lo stato dell’economia, che è dove siamo stati negli ultimi 30 anni, eccetto il periodo 1998-2001.

Perché questi deficit non saranno inflazionistici? Come ha notato il prof. Scott Fullwiler in una e-mail recentemente inviatami, una volta che la ripresa è in corso e l’economia raggiunge una capacità di utilizzo significativamente più alta nella quale la pressione dei prezzi possa emergere, il deficit declinerà sostanzialmente. Inoltre ci sarà un bilanciamento almeno parziale dovuto a una riduzione della spesa per il welfare non strettamente necessaria. È indiscutibile che più veloce cresce l’economia, più si riduce il deficit, a meno che il governo continui a spendere in maniera sconsiderata – la qual cosa certamente non desideriamo.

E nello stesso tempo in cui arriviamo ad un punto nel quale potremmo avere inflazione, il deficit è tornato al 2-3 per cento, che di nuovo è la situazione nella quale siamo stati negli ultimi 30 anni, mentre l’inflazione media è stata del 2 per cento circa. Notare: inflazione non vuol dire default. Voi ed io potremmo tranquillamente acquistare CDS (Credit Default Swap) (1) in ogni Paese del mondo, ma non ci riusciremmo se di tali Paesi nessuno registrasse un tasso di inflazione positivo – anche a due cifre – perché inflazione non vuol dire default. Né le agenzie di rating riconoscono il default in tale maniera. Il default è definito come l’incapacità di eseguire un’operazione o adempiere ad un obbligo, soprattutto un obbligo finanziario. L’inflazione non è compresa nella definizione quando ha a che fare con l’insolvenza di una nazione.

Al contrario, nei mercati si parla molto di default della Grecia e ciò rappresenta una preoccupazione ragionevole nel contesto dell’eurozona. L’eventualità del default è considerata una conclusione inevitabile anche tenendo conto del massiccio aiuto di 110 miliardi di euro, che è stato progettato per “colpire e terrorizzare” (2) gli investitori, ma ha semplicemente generato uno shock. Se il salvataggio della Grecia costa 110 miliardi di euro, quanto costerà salvare la Spagna, l’Italia o anche la Francia la prossima volta?

Se i mercati sono preoccupati della solvibilità delle nazioni, non amplieranno il credito. E quello è il problema che stanno fronteggiando tutti i Paesi dell’eurozona. Grecia, Portogallo, Italia, Francia e Germania sono tutti utilizzatori dell’euro – non emettitori. Rispetto a ciò, sono più simili a un qualunque stato o municipalità degli Usa, i quali sono tutti utilizzatori del dollaro del governo federale.

E i deficit da soli non creeranno le condizioni per il default negli Usa. Se gli Usa continuano ad avere un deficit netto dell’export (probabilmente a maggior ragione per la caduta del valore dell’euro che sta avvenendo), e il settore privato interno risparmia più di quanto spende, è necessario che il governo Usa spenda più di quanto incassi (3) – cioè deve andare in deficit. C’è una basilare identità di contabilizzazione, né più né meno. Se il governo Usa tentasse in queste circostanze di avere un surplus, forzerebbe prima di tutto il settore privato interno ad avere un deficit (e debito crescente) e infine fallirebbe perché quest’ultimo cercherebbe di incrementare la sua capacità di risparmio.

E la stessa logica si applica alla Grecia. L’appello per il gruppo dei Paesi UEM/UE è di ridurre il proprio deficit ad una percentuale del PIL dall’attuale 13.6 per cento all’8,1 per cento nel 2011. Come riusciranno a farlo? Provare ad architettare una riduzione del deficit attraverso programmi di austerity (o rigore o qualunque altro nome si voglia dare) in un momento nel quale la capacità di spesa è ancora insufficiente per mantenere una crescita veramente adeguata del PIL è una ricetta per il disastro. Porterebbe ad un aumento del debito.

A questo riguardo consideriamo l’Irlanda come Esempio A. L’Irlanda ha iniziato a tagliare il proprio deficit di spesa nel 2008, quando la crisi bancaria ha cominciato a diffondersi e il deficit del suo bilancio era del 7,3 per cento del PIL. L’economia si è subito contratta del 10 per cento e, sorpresa, sorpresa, il deficit è esploso al 14,3 per cento del PIL. Scommetterei una grossa somma che un simile destino è pronto per la Grecia, data l’incapacità dell’UE di capire o riconoscere le basi dei bilanci finanziari e le interrelazioni tra i vari settori dell’economia. Né un governo, né il FMI possono predire con certezza quale sarà il risultato – essenzialmente i desideri dei risparmiatori privati determineranno i risultati, come Bill Mitchell ha notato più volte.

Perché abbiamo grossi deficit un po’ in tutto il mondo? In gran parte a causa del rallentamento dell’economia globale che ha portato a una riduzione dei redditi (minori entrate = minor gettito fiscale, poiché la maggior parte delle entrate fiscali sono basate sugli imponibili e sugli scaglioni di tassazione più bassi) e un aumento della spesa per la sicurezza sociale. Distruggere questa rete di sicurezza sociale perché si ricava una lezione sbagliata dalla particolare (e autoimposta) situazione dell’eurozona costituirebbe il colmo dell’ignoranza economica. Rifletterebbe anche una agenda politica trasparente, che gli Usa sarebbero mal consigliati qualora decidessero di intraprenderla. Il pacchetto di salvataggio, l’intervento del FMI e tutte le chiacchiere sul default controllato non possono superare il difetto che sta alla base del disegno dell’UEM. Lasciamo il neoliberismo morire con l’euro.

Marshall Auerback (analista dei mercati e commentatore. È un esperto che opera presso il Franklin and Eleanor Roosevelt Intitute. Può essere raggiunto scrivendo a [email protected])
Fonte:
Link: http://www.counterpunch.org/auerback05072010.html
7/9.05.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIUSEPPE FOLLINO

Note a cura del traduttore

(1) È il derivato creditizio più usato, spesso utilizzato con la funzione di polizza contro il rischio d’insolvenza
(2) Originariamente una dottrina militare basata sull’uso di una potenza travolgente, la terminologia è usata dall’autore in senso più ampio
(3) Nell’originale americano è presente un gioco di parole non esprimibile in italiano che controbilancia il risparmio (net save) del settore privato interno con la spesa (net spend) del governo Usa

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