GLI ANTIMPERIALISTI NELLA TRAPPOLA IRANIANA

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Un manifestante iraniano ripreso nelle recenti proteste a Teheran contro il regime di Ahmadinejad

Nota editoriale: Questo articolo è stato scritto poco prima delle ultime elezioni iraniane. Gli eventi successivi, che – di fronte ad una assolutamente non ambigua contrapposizione fra un popolo in rivolta, appoggiato da tutte le organizzazioni dei lavoratori e dai comunisti iraniani, e uno stato dittatoriale reazionario e assassino – hanno visto la stragrande maggioranza dei sedicenti anti-imperialisti italiani e stranieri schierarsi compattamente a sostegno del regime iraniano e della sua feroce macchina repressiva, confermano nel modo più tragico le analisi dell’autrice.
Paola Pisi

DI VALERIA POLETTI
uruknet.org.uk

L’eroe dei due mondi Ahmadinejad, acclamato al suo ritorno dalla Conferenza di Durban da una folla ben coreografata, ottiene il plauso di molta parte della sinistra occidentale grazie al ruolo sostenuto dall’Iran a favore di Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, ciò che farebbe della teocrazia iraniana il più luminoso esempio di “oggettivo antimperialismo”. Dobbiamo pensare che gli studenti e i lavoratori che in Iran si espongono ad una repressione
selvaggia per liberarsi del regime degli ayatollah senza accettare il
patrocinio americano non hanno capito niente?

Queste due note vorrebbero essere un invito a riflettere sulle loro ragioni.

Dopo mesi di repressione nelle piazze e assassinii di protagonisti della rivoluzione, l’atto costitutivo della Repubblica Islamica dell’Iran fu ratificato, nell’estate del 1981, con l’esecuzione di 2665 militanti dei Mojaheddin [1] e di altre formazioni della sinistra iraniana [2].

Il
Tudeh, partito sedicente comunista, filosovietico, riformista
sotto lo shah e collaborazionista con Khomeyni, veniva
liquidato con una serie di pogrom successivi tra il 1982 e il 1988
[3].

La
santificazione del regime procede da quelle decine di migliaia di
giovani bassiji mandati a morire sul fronte della guerra
contro l’Iraq laico e progressista, in un delirio nazionalista
che cancellava le aspirazioni popolari espresse dall’insurrezione
[4].

Mentre
si consolidavano le basi materiali della teocrazia capitalista, la
tutela intransigente della proprietà privata [5] e la presa di
possesso dello Stato da parte dell’apparato clericale [6], i
Comitati di lotta contro le cose vietate e le Pattuglie
della collera di Dio
imponevano l’ordine morale islamico
nella società. E non c’è bisogno di ricordare
cosa questo significhi. Mentre si rifiutava la riforma agraria alle
masse diseredate delle campagne venivano soppressi i sindacati
indipendenti e, nel giugno 1981, il regime scatenava una feroce
repressione contro i lavoratori: dai 300 ai 500 arresti al giorno,
decine di migliaia di oppositori assassinati nelle carceri [7]. Più
di 10.000 tra studenti e docenti universitari venivano massacrati in
seguito alle proteste del giugno 1981 [8]. Tudeh e Fronte
Nazionale
schieravano i propri militanti a difesa dello Stato
islamico, negando il loro sostegno alle manifestazioni del 1°
maggio, in nome della “comune” lotta contro l’imperialismo
americano alleato dello shah. È forse da questo slogan
dell’epoca, lanciato di fatto contro le aspirazioni delle masse
– ai tempi probabilmente pervase da un autentico sentire
antimperialista – , che buona parte della sinistra si è
lasciata affascinare dalla rivoluzione islamica tanto da preferire la
teocrazia degli ayatollah allo Stato laico iracheno? Tanto da
diffondere la fandonia dell’accordo tra il partito Baath
iracheno e la CIA nonchè quella del sostegno americano a
Saddam Hussein trascurando la provata complicità USA-Iran
nell’affare Iran-Contras o l’altrettanto provato supporto
israeliano all’Iran durante e dopo la guerra Iraq-Iran[9]?

Trent’anni dopo la proclamazione della Repubblica Islamica – cioè,
mi permetto di dire, dopo la sconfitta della rivoluzione –
l’Iran soggiace ad un regime di terrore, la grande maggioranza
della popolazione versa in condizioni economiche disastrose ed è
soggetta alla deprivazione dei più elementari diritti dei
lavoratori, la discriminazione e oppressione delle minoranze non ha
attualmente paragoni nel mondo, le donne sono vittime della più
retrograda e vessatoria legislazione sul pianeta [10].

Trent’anni dopo la sconfitta della rivoluzione i Guardiani della Rivoluzione
aggrediscono manifestanti e lavoratori in sciopero, uccidono,
torturano [11]. Per assicurare la stabilità del regime e per
salvaguardare gli interessi di una classe dominante che intende
rispettare le compatibilità con il sistema capitalistico
occidentale e prosperare a rimorchio dei flussi di investimento dei
capitali esteri. L’accelerato processo di privatizzazioni (che
interessa in particolar modo le risorse e l’industria
strategica) insieme alla possibilità offerta agli investitori
esteri di acquisire il 100% di aziende prima gestite dallo Stato non
pare proprio indirizzare l’Iran sulla strada
dell’antimperialismo (nonostante le altisonanti dichiarazioni
di Ahmadinejad), quanto piuttosto rafforzare i già forti
legami del regime con il mondo dominato dalle multinazionali [12].

Né pare testimoniare alcuna inclinazione antimperialista la storia e
l’attualità dei rapporti internazionali della Repubblica Islamica.

Nonostante
la violenza verbale della campagna propagandistica contro il “grande
satana” (Stati Uniti) e contro Israele, l’Iran di Khomeyni
aveva interessi convergenti con gli alleati diabolici. Per l’uno
e per gli altri il nemico assoluto in Medioriente era il nazionalismo
arabo, laico e progressista, in grado, soprattutto dopo la vittoria
della rivoluzione in Iraq, di ingenerare in prospettiva ravvicinata
un processo di sviluppo economico e sociale autonomo che avrebbe
investito l’intera area – penalizzando e forse mettendo
in crisi l’egemonia statunitense – e che avrebbe portato
l’Iraq a dotarsi di un apparato militare capace di costituire
un pericolo concreto per il “piccolo satana”. La Repubblica
Islamica ha ottenuto prezioso sostegno finanziario e militare tanto
dagli Stati Uniti quanto da Israele durante la guerra con l’Iraq
[13]: fino da allora la teocrazia iraniana, eliminata ogni possibile
opposizione interna, mirava ad espandere la sua influenza politica e
religiosa sul mondo arabo, e rappresentava il miglior antidoto alla
febbre antimperialista (non semplicemente antiamericana) che, con
punte più e meno accentuate, tendeva a pervadere gli arabi
ex-colonizzati.

Nella
prima Guerra del Golfo la neutralità iraniana veniva ottenuta
dal governo iracheno in cambio della firma del trattato di pace
notevolmente vantaggioso per l’Iran [14], ma l’”errore”
sarà corretto dagli ayatollah con la piena collaborazione
assicurata agli americani in occasione dell’aggressione contro
l’Iraq nel 2003.

Dopo
avere attivamente collaborato con gli Stati Uniti nel sostenere le
milizie musulmane bosniache durante la guerra in Jugoslavia [15], ed
avere affiancato il “grande satana” nell’aggressione
americana all’Afghanistan [16], l’Iran è stato
attore chiave nell’agevolare la guerra americana contro l’Iraq
(a partire dal falso dossier sulle inesistenti “armi di
distruzione di massa”), nell’affiancare le truppe di
invasione con la penetrazione di milizie addestrate per condurre una
guerra coperta contro la Resistenza irachena, per compiere azioni di
terrorismo sotto falsa bandiera, per annichilire la volontà di
resistenza della popolazione civile con barbari massacri dei
fiancheggiatori della Resistenza armata, ma anche con azioni
pianificate di “pulizia etnica” contro sunniti, cristiani,
sciiti laici, palestinesi, e con violenze ed eccidi per imporre la
shari’a. Le Badr Brigates (milizia dello SCIRI,
il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica) e il
Mahdi Army di Moqtata al-Sadr hanno fatto di gran lunga più
morti che non i bombardamenti americani [17].

Insediato
nel governo fantoccio iracheno servo di due padroni con il
beneplacito degli Stati Uniti, l’Iran sostiene apertamente il
regime afghano [18], e non manca di appoggiare le fazioni settarie
integraliste sciite in Pakistan [19], Paese in via di
destabilizzazione in funzione degli interessi geopolitici
statunitensi e degli appetiti delle grandi compagnie coinvolte negli
affari dei gasdotti [20] oltre che oggetto dei bombardamenti
americani.

A
dispetto degli infuocati scambi di accuse reciproche, dunque, esiste
una più che discreta sintonia tra il “grande satana”
e la teocrazia che governa il “Paese degli Ari”, un vero
bastione antimperialista secondo i “nostri” commentatori
[21]!

Quanto
allo zelo nel difendere i Palestinesi intrappolati a Gaza, piacerebbe
sapere per quale motivo i Palestinesi intrappolati nell’Iraq
occupato sono stati invece perseguitati e massacrati dalle milizie
filo- iraniane [22]. Forse perché rimasti partigiani dello
Stato laico e impermeabili alla islamizzazione forzata? Ma nemmeno
per i palestinesi dei Territori occupati gli ahyatollah dimostrano
grande considerazione: nonostante le ripetute proteste del Comitato
per il Boicottaggio e il Disinvestimento in Israele,
l’Iran
intrattiene ottime relazioni di affari con Veolia e Alstom, le
multinazionali impegnate nella costruzione delle colonie israeliane
in Cisgiordania e Gerusalemme est [23].

Vero
vincitore della seconda Guerra del Golfo, l’Iran non intende
mancare l’occasione di accedere alla spartizione del mondo
arabo approfittando della relativa debolezza degli Stati Uniti (più
che mai invischiati in guerre che non riescono a vincere) e del
progressivo raffreddamento delle relazioni USA-Israele.

Con
la fine dell’URSS e dopo la distruzione dell’Iraq,
infatti, il ruolo dello Stato ebraico, argine all’espansione
sovietica in Medioriente e avamposto militare contro ogni speranza di
unificazione araba, tendeva a perdere la sua ragione strategica. Non
si può negare che, all’interno degli Stati Uniti, abbia
continuato ad operare a favore dei piani israeliani in questi anni
una cosiddetta “lobby ebraica”, ma è impensabile
attribuirle una influenza decisiva sulle scelte dell’Amministrazione
in fatto di politica estera: le ragioni del capitalismo e
dell’imperialismo non si fondano sulla difesa di interessi
particolari di un nucleo, per quanto agguerrito e potente, ma sulla
dinamica della mondializzazione capitalista, e non si affidano a
think-tank, per quanto influenti, espressione di una pedina che è
parte non determinante del sistema di dominio.

Eliminato
il comune nemico, l’Iraq, dalla scena mediorientale, sono
venute anche a cadere le motivazioni dell’alleanza sotterranea
tra lo Stato sionista e quello teocratico riportando le due potenze
regionali ad una situazione di fronteggiamento e confronto di
interessi contrapposti. Se Israele mira a gestire intere aree di
produzione e gli scambi commerciali nel “Grande Medioriente”,
l’Iran si propone di dilatare la propria influenza politica
nella regione lasciando alle multinazionali occidentali il privilegio
di sfruttare risorse e forza lavoro (come si evince dal nuovo corso
delle privatizzazioni): i due progetti sono palesemente
incompatibili.

Con
la guerra del 2006 contro il Libano il governo israeliano intendeva
innanzitutto colpire i tentacoli della piovra iraniana per frenarne
le mire espansionistiche e, come obiettivo massimo, creare
pregiudizio alla ipotizzabile futura alleanza tra Stati Uniti e Iran.
Inserendosi nello scontro l’Iran si proponeva di impedire un
eventuale avanzamento del cosiddetto “processo di pace”: la
“pacificazione” tra Israele e i maggiori Stati arabi
avrebbe evidentemente allontanato la prospettiva di penetrazione
politico-militare iraniana nel mondo arabo.

A
prescindere dal maggiore o minore consenso che Hezbollah e Hamas
possano raccogliere all’interno dei loro Paesi e delle ragioni
che li oppongono allo Stato sionista, entrambe le organizzazioni
hanno assolto perfettamente il compito loro assegnato, quello cioè
di predisporre un casus belli per l’aggressione
israeliana.

Fermata
nella sua campagna militare dal veto statunitense, Tel Aviv incassa
una sconfitta politica e vede ulteriormente ridimensionata la sua
importanza quale alleato strategico degli Stati Uniti, ma ottiene di
dividere ulteriormente, indebolendolo, il fronte della resistenza
antisionista. È del resto evidente che, al di là
dell’effettivo valore sul campo delle milizie di Hezbollah e
degli errori di strategia militare di Israele, quest’ultimo non
avrebbe avuto eccessive difficoltà (oltre che nessuna remora)
a polverizzare il Paese dei cedri e la sua resistenza: tanto in
Libano quanto a Gaza la campagna sionista è stata fermata dal
veto statunitense (e da quello della cosiddetta “comunità
internazionale”) a dimostrazione che non è Israele a
dettare le condizioni.

Hezbollah
entra stabilmente nella compagine governativa libanese e garantisce
al suo sponsor iraniano una tribuna da cui lanciare una intensa
campagna propagandistica di promozione dei precetti religiosi e
politici dell’Islam.

Teheran,
con l’operazione libanese ma ancor di più con la
“vittoria” di Hamas a Gaza, ottiene una base territoriale
nel cuore del mondo arabo, una base da cui muovere per portare
l’attacco dell’Islam politico dentro le maggiori nazioni
arabe, dentro l’Egitto e l’Arabia Saudita, e vede
notevolmente accresciuto il suo ascendente sulle masse arabe.

La
mobilitazione delle comunità sciite, sobillate dagli agenti
iraniani, che inneggiano alla secessione in Arabia Saudita [24], e i
progettati attentati a firma della Fratellanza Musulmana (alleata di
Hezbollah) in Egitto [25] non sono certo semplici operazioni di
propaganda, e meno che mai azioni rivoluzionarie: non appoggiano
movimenti popolari contro gli odiosi regimi fino ad ora complici
degli americani favorendo l’unità delle organizzazioni
di opposizione, ma cercano di scatenare violenze settarie dentro
nazioni arabe, violenze che hanno lo scopo di fomentare una guerra
civile tra il popolo, colpendo sì i governi, ma per portare
questi Paesi in uno stato di destabilizzazione che agevoli interventi
di forze esterne. Possiamo facilmente predire che, in un simile
scenario, non saranno solo le forze iraniane ad intervenire! Non è
nemmeno difficile preconizzare che si possa arrivare anche per questa
via a quello smembramento delle nazioni arabe auspicato dagli agenti
mondiali dell’imperialismo e dal capitale transnazionale
interessato alla realizzazione del cosiddetto “Grande
Medioriente” – cioè l’area compresa tra Egitto e
Turchia a occidente, Afghanistan e Pakistan a oriente – verso
il quale sono rivolti gli appetiti dei grandi investitori oltre che
delle maggiori compagnie petrolifere nel mondo. È così
che l’Iran assolverebbe al suo ruolo “oggettivamente
antimperialista”?

Difficile
dire, sulla scorta delle considerazioni fatte sopra, che siano le
sorti della Palestina e dei palestinesi a stare cuore ai dirigenti
politici iraniani o che sia il fanatismo antiebraico (l’antisionismo
ha ben altra dignità) di Ahmadinejad a motivare gli aiuti in
armi e denaro forniti ad Hamas: l’esportazione della
“rivoluzione islamica” ha altri e più vasti
orizzonti e, a quanto pare, non crea pregiudizio ad una alleanza di
fatto, ancora per poco celata, con il “grande satana”
capitalista e imperialista.

Così
come non è per feroce odio razziale di origine religiosa che
Israele aggredisce Libano e Palestina con bombe al fosforo, ma per
cinico calcolo strategico, come è naturale che avvenga per un
Paese colonialista, capitalista e razzista. “Secondo il
viceministro della Difesa israeliano Ephraim Sneh, la guerra con
Teheran non è una questione di se, ma di quando […] il
Libano è semplicemente il preludio a una guerra ben più
ampia con l’Iran’” [26]. Allo stesso modo possiamo
leggere l’aggressione a Gaza. E pare ridicolo sostenere che
l’efferatezza dei crimini israeliani nella regione siano frutto
di una cultura religiosa. La spietatezza non è prerogativa
dell’ebraismo, né inclinazione esclusiva dei sionisti:
si tratta di terrorismo contro la popolazione civile identico a
quello praticato, con la complicità tra gli altri dello Stato
italiano, dagli anglo-americani in Iraq e in Afghanistan, perché
il terrore è l’arma per vincere la resistenza di un
popolo. La colonizzazione e l’occupazione della Palestina è
in sé un’aberrazione della storia e un atto criminale
contro i diritti umani.

In
realtà, benché sia già nei calcoli lo scontro
diretto con l’Iran [27], Israele teme ben di più la
prospettiva non lontana di una destabilizzazione globale del
Medioriente. Il conflitto generalizzato neutralizzerebbe l’egemonia
militare dello Stato degli ebrei, e un teatro con più attori
ostacolerebbe l’accesso ai centri produttivi e ai mercati arabi
all’asfittica economia del Paese (che non sarebbe, allo stato
attuale delle cose, in grado di sopravvivere in assenza dei
consistenti aiuti americani). Lieberman, nel discorso delle 1100
parole in occasione del suo insediamento nella carica di ministro
israeliano degli Esteri, ha infatti affermato che i veri problemi per
il “mondo libero” arrivano “dal Pakistan,
dall’Afghanistan, dall’Iran e dall’Iraq – e non dal
conflitto israelo-palestinese” [28]. E in una intervista al
quotidiano russo Moskovski Komsomolets ha dichiarato che è
molto più concreto il pericolo che l’arsenale atomico
pakistano possa cadere nelle mani dei fondamentalisti islamici
rispetto a quello rappresentato dall’atomica iraniana [29].
Mentre è evidente che Israele ha ora un nemico in comune con i
Paesi arabi “moderati” (Egitto, Arabia Saudita, Marocco,
Giordania) minacciati dall’espansionismo sciita iraniano, e,
dunque, ha interesse a non compromettere le proprie relazioni con
essi [30].

Da
parte sua l’ Amministrazione Obama non solo ha avviato
trattative con il governo degli ayatollah e con quello siriano [31] e
ha reso pubblico l’intendimento di arrivare ad un disgelo nelle
relazioni USA-Iran con il plauso della Unione Europea [32], ma ha
anche associato l’Iran al programma di “ricostruzione”
dell’Afghanistan [33].

È
palese la divaricazione crescente tra la politica estera di
Washington e quella di Tel Aviv: sullo sfondo si profila una sorta di
sconvolgimento delle alleanze, una situazione in cui grandi e medie
potenze faranno scontrare sul campo i propri satelliti, ogni genere
di fazioni armate locali e organizzazioni terroriste. E la Russia?
Potrebbe essere l’ago della bilancia o sbilanciarsi a favore di
Israele. Cosa che potrebbe fare la differenza tra un conflitto
mediorientale combattuto per procura da attori regionali e un
conflitto mediorientale di più vaste proporzioni.

È
ancora lecito aderire all’”Ahmadinejad fans club” in
nome della sua pretesa difesa della causa palestinese?

Indubbiamente
la Repubblica Islamica costituisce un elemento di disturbo verso
l’attuale egemonia statunitense in Medioriente e i suoi
interessi a medio termine si contrappongono a quelli dell’”entità
sionista”, ma attribuirle per questo un ruolo “oggettivamente
antimperialista” – come sostiene attualmente la più
parte dei commentatori del movimento contro la guerra –
contraddice la più elementare e fondamentale ragione della
lotta contro l’imperialismo: l’antimperialismo è
un progetto di emancipazione di una società dal dominio
economico e politico esercitato da una potenza capitalista su un
popolo, è un movimento nato con le guerre di liberazione
nazionale anticoloniali e fondato tanto sul principio di
autodeterminazione quanto su quello della dissoluzione del vincolo di
dipendenza dal modello di sviluppo della potenza dominante. In altre
parole, è intrinsecamente legato alla lotta contro il dominio
del capitalismo. E contro la guerra imperialista, da chiunque
condotta.

Un
ruolo contingentemente antiegemonico, come al massimo può
definirsi quello dell’Iran degli ayatollah, giocato non certo
con la finalità di emancipare le popolazioni mediorientali
dallo sfruttamento capitalistico ma per assoggettarle ad un dominio
teocratico che incarna l’assolutismo reazionario come mai si è
verificato nella storia, è il ruolo del peggior nemico degli
antimperialisti come delle masse proletarie e popolari.

Lo
testimonia il grande e variegato (oltre che estremamente coraggioso)
movimento di opposizione interna alla Repubblica Islamica [34] e il
movimento nelle università [35]; lo rende evidente il
moltiplicarsi degli scioperi in tutti i settori della produzione. Lo
dichiarano inequivocabilmente le organizzazioni della resistenza
iraniana, Mujahedeen-e-Khalq [36] e Hands off the People of
Iran
[37] in primo luogo, ma anche le associazioni studentesche
[38] e il Partito del Lavoro dell’Iran [39].

Perché
gli antimperialisti nostrani non fanno riferimento a queste
formazioni e non si impegnano a fianco delle masse popolari oppresse
dell’Iran piuttosto che confidare nelle virtù
“rivoluzionarie” dell’idolatria? Perché non
reagiscono alla censura e all’esclusione decretata da Stop
the War
contro l’organizzazione dell’opposizione
iraniana Hands off the People of Iran colpevole di aver
criticato il governo di Teheran [40]?

Perché
il movimento contro la guerra, invece di dare voce ai blogger
iraniani che quotidianamente rischiano la vita per denunciare le
atrocità commesse dal regime, le giustifica in nome del
diritto ad una “diversa civiltà giuridica”, oltre ad
accogliere al suo interno personaggi come George Galloway che si
pronuncia contro l’asilo politico ad un gay iraniano condannato
a morte [41]?

Si
tratta dello stesso movimento contro la guerra che, dopo averne
avallato la diffamazione, ha approvato il linciaggio e l’assassinio
di Saddam Hussein e degli esponenti del governo antimperialista
iracheno.

Personalmente
non ho altro da aggiungere se non che l’uso sistematico della
tortura, l’avvilimento delle donne, l’assassinio degli
studenti e dei lavoratori, l’impiccagione di adolescenti gay e
di giovani donne mi riempie di pre-politica indignazione.

Valeria Poletti
Fonte:www.uruknet.org.uk
Link:
http://www.uruknet.info/?p=s10044&hd=&size=1&l=i
23.06.2009

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