DI ALEX LATTANZIO
Aurora
Per mettere un pietra tombale sul ‘mito’ Garibaldi
I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, con tutto lo stantio corteo di corifei e laudatori, non ha suscitato dibattiti né analisi sul processo di ‘unificazione’ dell’Italia. Questo evento non è diventato occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente.
Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi,
il ‘General intellect’ italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa,
spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per
secondi fini politico-personalis tici. Inoltre, ‘voler costruire’ la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto ‘parziale’, ha più il sapore dell’opera di
indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica.
Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento ‘patriottico’, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto ‘risorgimento’ sentano il bisogno di ravvivare un ‘patriottismo nazionale’ che almeno
salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità
unitaria.
Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia.
La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in
quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento
di ‘forze superiori’, ma non sto parlando della Storia con la ‘S
maiuscola’, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali,
commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche
dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti
imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in
questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di
Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini
sull”eroe dei due mondi’ e sul ‘Cincinnato di Caprera’.
Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione
dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia.
La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due
Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata,
almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta
e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale,
sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte
marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave
siciliana, la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e
gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una
avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si
è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana ‘arretratezza
feudale’. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era
rappresentato da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo.
Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il
nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato
per la produzione dell’acciaio, per la preparazione di sostanze
chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti; era insomma il
lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello
inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la
nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e
non solo; ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di
sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Quindi i processi
produttivi connessi, richiedono sempre più ampie quantità di zolfo;
cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e
commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico.
La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà
dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-
politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola
possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90%
della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini.
Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici
dell”Impero di Sua Maestà’? Come potevano l’Ammiragliato e la City
trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del
Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il
Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale
dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come
potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti
conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari
d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno
di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie
mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta
commerciale inglese? Come potevano?
Il ‘General Intellect’ dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo
italidiota dei laudatori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi ‘trascurabili’ elementi.
La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o
di venete ‘storiche’ contemporanee che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non
a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo.
Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che
attuarono quella vera e propria ‘False Flag Operation’
detta ‘Spedizione dei Mille’, giova ricordare che Garibaldi, prima di
partire da Quarto, era stato convocato presso la Loggia ‘Alma Mater’
di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a
Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-
scozzese. ‘La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito’
scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx.
Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso
utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando
gli inglesi favorirono la secessione di Montevideo dall’impero
brasiliano, e la conseguente guerra tra Brasile e Uruguay, Garibaldi
venne assoldato per svolgere il ruolo di ‘raider’, ovvero incursore
nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di
sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi,
bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra
donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete
dei suoi uomini.
Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento
coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita
dell’Uruguay rientrava nel processo di controllo e consolidamento del
flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del
Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la
City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione, era una carta
strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, favorì
la nascita dell’Uruguay. La borghesia compradora di Montevideo era
legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse
sufficientemente bene il suo compito. Divenne un ‘bravo’ comandante
militare, solo perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani
costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile
averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria,
che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria.(*)
L’eroe dei due mondi era stato richiamato a Londra, distogliendolo
dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai
non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era
richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le
ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire
l”emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di
congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankee. (2)
Colui che richiese l’intervento di Garibaldi, in Sicilia,
effettivamente fu un siciliano, Francesco Crispi. Egli venne inviato
a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al
gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda
francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte,
le miniere e la produzione dello zolfo.
Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria
siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del
lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni
proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato
dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico
della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro
il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento
britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non
fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di
una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del
capitale imperiale inglese.
Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro ‘eroe dei due
mondi’. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare
Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione
semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso.
Le due navi della Rubattino, della ‘Spedizione dei Mille’, arrivarono
a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della
marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte
di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Lanti.
No. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, posta
nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come
previsto. I 1089 garibaldini, in realtà, erano solo l’avanguardia del
vero corpo d’invasione, una armata anglo-piemontese di 20000 soldati,
per lo più mercenari, che attuarono, già allora, la tattica di
eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze
armate. Infatti il corpo era costituito, in maggioranza, da ex zuavi
francesi che avevano appena ‘esportato’ la civiltà nei villaggi
dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Inoltre, erano presenti
alcune migliaia di soldati e carabinieri piemontesi, momentaneamente
posti in ‘congedo’, e riarruolati come ‘volontari’ nella missione
d’invasione. Eppoi c’erano i veri e propri volontari/mercenari ,
finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi.
Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e guarnigione borbonica, si
risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che
nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite
dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di caduti, i
garibaldini vengono letteralmente sbaragliati, subendo circa 100 tra
morti e feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i
soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi
dovettero abbandonare il campo, poiché il comando di Palermo aveva
loro negato l’invio di rifornimenti, soprattutto di munizioni,
costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto
con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il
terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata
su Palermo.
A Palermo, dopo la scaramuccia presso ‘Ponte Ammiraglio’, nell’allora
periferia della capitale siciliana, il comandante della guarnigione
borbonica decise di consegnare la città. Contribuì alla decisione,
probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di
piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo.
L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li
seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo.
Qui la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari
di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per
Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 150 morti
tra i napoletani, le ‘camicie rosse’ subirono ben 800 caduti in
azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con
l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando,
all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-
statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo
d’invasione mercenario. Corpo che fu fatto sbarcare alle spalle della
guarnigione nemica di Milazzo.
Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli
dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti
quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito
sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che
alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave
statunitense carica di non meglio identificati ‘soldati’ (i notori
mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto
di Messina, la squadra napoletana evitò di ostacolare, ai
garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a
Garibaldi e a Bixio di sbarcare sulla penisola italiana. Da lì fu una
corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece
subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: fece sparare sugli
operai di Pietrarsa, poiché si opposero allo smantellamento delle
officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire
dall”arretrata’ amministrazione borbonica.
Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente
limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di
eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la
monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese
della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise
il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di
governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione
necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola
delle guerre.
In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e
Ancona, e poi la guerra civile nota come ‘Guerra al Brigantaggio’ .
Una guerra che costò, forse, 100000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana.
La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa (3); poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta ‘Rivolta del Sette e mezzo’, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della
capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti, si ‘riscattò’ dalla sconfitta di Lissa, subìta qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Subito dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli
yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia.
Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni (4); la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo del battaglione Vega della X.ma Mas, che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto ‘Milazzismo’ e a una certa professionalizzazione dell”antimafia’ (che va a braccetto con quella di certo ‘antifascismo’) dei giorni nostri.
Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto.
Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03 .da.ru/
http://sitoaurora. altervista. org/
Catania 8/7/2007
Note:
1) Giova ricordare che l’impero inglese, alla metà del XIX.mo secolo,
fu impegnato in una serie di guerre contro determinati stati (Regno
delle Due Sicilie, Paraguay e gli stessi USA), che avevano deciso di
seguire uno sviluppo autocentrato, sviluppando l’industria locale e
rafforzando la propria agricoltura e il proprio commercio tramite
l’applicazione dei dazi. Ciò avrebbe permesso lo sviluppo economico,
pur restando al di fuori dell’influenza bancario-finanziaria e,
quindi, politica di Londra. L’impero britannico reagì, a tali
comportamenti, creando operazioni tipo ‘Falsa Bandiera’. In Italia
meridionale con Garibaldi e la sua ‘spedizione’ . Negli USA reclutando
gli ‘abolizionisti’ estremisti di John Walker, i quali, nel 1858,
prima di iniziare una loro propria ‘spedizione’ su Harper’s Ferry,
dove vi era il maggiore arsenale statunitense, vennero addestrati da
un misterioso ufficiale inglese che si faceva chiamare Forbes. Egli,
poco prima della fallimentare ‘spedizione’, scomparve nel nulla. Il
Paraguay, durante gli anni della guerra civile statunitense, venne a
sua volta aggredito da una coalizione di stati latinoamericani
chiaramente legati agli interessi britannici: Uruguay, Argentina e un
Brasile addomesticato. Questa guerra si risolse con la distruzione,
fisica, del Paraguay e della sua popolazione maschile. Alla fine si
ebbe un rapporto di otto donne per ogni uomo.
2) C’è chi va blaterando di un Garibaldi bramato da Abramo Lincoln, presidente degli USA, durante la Guerra Civile statunitense. Secondo la leggenda, Washington cercava un abile condottiero, un Garibaldi appunto, che dirigesse l’Armata del Potomac che si trovava in serie difficoltà nell’affrontare la ben più smilza ‘Armata della Virginia’ guidata dal grande Generale Robert E. Lee. Della presunta richiesta non ci sono in giro che voci e illazioni, nulla di più. Eppoi, perché mai Lincoln doveva affidare il suo esercito ad un avventuriero che non ha mai diretto che qualche centinaio di sbandati? I bravi generali nordisti non scarseggiavano: Halleck, Sherman, Grant, Sheridan, ecc. Insomma, il solito provincialismo incolto e fanfarone italico con cui s’insegna la storia nelle nostre università!
3) Si trattò della massima dimostrazione di malafede e inganno nei confronti dei contemporanei e dei posteri. Il plebiscito di svolse nelle seguente modalità: due schede, una con un NO e l’altra con un
SI stampati sopra; chi votava NO doveva mettere la relativa scheda in una determinata urna, chi votava per il SI, doveva mettere, a sua volta, la relativa scheda su un’altra urna. Potete capire come
venisse ‘tutelata’, in quel modo, il diritto alla libera espressione del voto. E con tanto di soldati piemontesi presenti nei seggi elettorali! 667 furono i siciliani che votarono NO al plebiscito. Non
c’è bisogno di dire che, subito dopo la ‘consultazione’ , tutti costoro dovettero abbandonare la loro terra.
4) Il primo traghetto sullo stretto di Messina venne inaugurato nel 1899!