Giudizio morale

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(Antonio Segura Ferns)

 

Quando una società finisce al centro di una nebulosa morale, prodotta da tre secoli di immobilismo filosofico che pretende di fondare il “cogito” umano esclusivamente sul giudizio morale, una linea di argomentazione molto efficace per gli interlocutori sociali è quella del “male minore”: davanti alla carenza di precise esigenze morali, appare imperativo evitare i “mali maggiori” e raggiungere il “bene possibile”. In seguito, quando la storia viene raccontata, questa scelta viene spesso giustificata – se non addirittura scagionata – anche se non ha avuto un successo comprovabile e nemmeno un fallimento visibile.

Di per sé, la teoria del “male minore” rientra nel quadro dell’utilitarismo morale: in ogni caso, si confrontano i “pro” e i “contro” dei possibili esiti di ogni situazione e il giudizio morale si preoccupa solo di ottimizzare il risultato desiderabile, scegliendo il maggior “bene possibile” con il “minor male” inevitabile. Questa presentazione puramente formale del giudizio morale nasconde, al di sotto della sua evidente “ragionevolezza”, il vero problema: quali sono i “beni” e i “mali” in gioco, in breve, qual è il concetto di Bene – e, quindi, quello di Verità – che viene assunto come valore supremo, e, al tempo stesso, come significato ultimo in senso metafisico del giudizio morale. Data questa premessa, di ordine trascendentale, si può quindi applicare il giudizio categorico alla situazione da giudicare: tempo, luogo, quantità, qualità, ecc. E facendo sempre attenzione a non confondere l'”importante” con l'”urgente”.

L’assolutizzazione di uno di questi dogmi convenzionali, elevandolo alla stregua di un trascendentale incondizionato, genera un’ideologia, un “ismo” – temporalismo, localismo, universalismo, eccetera – cioè una weltanschauung – una “costruzione del mondo” – evidentemente non nella realtà esistenziale, ma piuttosto nella mente umana. Pertanto, la dialettica che si genera da tale stravolgimento nell’impostazione di fondo, è infinita: la labilità del mondo ideale, contrapposta all’ineluttabile potenza e “testardaggine” del mondo reale, fa sì che ogni decisione morale possa sempre essere “giustificata” (!) sulla base di possibili “beni maggiori” o “mali minori”.

 

Analisi categorica del giudizio

Questa elasticità permette di “saltare” senza difficoltà da una situazione all’altra come riferimento assolutizzante nel giudizio ideologico senza togliere la razionalità “formale” delle conclusioni nel giudizio del “male minore”: in attesa di una certa categoria costituita come centrale, le proposizioni, i giudizi e i sillogismi del discorso che si formulano sulla realtà contemplata, scorrono con facilità e con una logica impeccabile, che conferisce loro credibilità. Ma… alla fine si rivelano inconciliabili con ragionamenti analoghi fatti sulla base di concezioni ideologiche diverse, che nella loro sfera sono tanto razionali quanto i primi. In questo modo, sorgono contraddizioni insolubili tra i vari aspetti e rivendicazioni dell’unica relazione sociale tra gli uomini stessi.

Ad esempio: se si assume il “tempo” come centro del discorso, il problema del “male minore” e del “bene possibile” si sviluppa tra “ora” e “dopo” nel terreno scivoloso della confusione tra “importante” e “urgente”: ciò che “ora” appare come il massimo “bene possibile” o l’inevitabile “male minore”, può rivelarsi alla fine un “male maggiore” e una totale assenza di bene, in un futuro più o meno prossimo, che si sarebbe potuto evitare con un’altra decisione iniziale. Per esempio: “scendere a compromessi”, in nome di un bene auspicabile come la pace sociale, con situazioni ingiuste o dottrine fortemente dissennate, come accadde agli inizi della politica nazista nella Germania pre-hitleriana, finì per rivelarsi un disastro totale nel 1945. E la storia è piena di esempi di questo tipo.

Se passiamo dalla centralità ideologica alla “qualità”, allo stesso modo ci possono essere incompetenze specifiche, qui e ora, che inevitabilmente devono sacrificare uno dei termini del problema, anche se entrambi sono stati ideologicamente presentati come irrinunciabili, se si vuole risolvere il problema concreto in questione. A seconda che venga scelta l’una o l’altra come la decisione “buona”, le altre saranno automaticamente considerate più o meno buone o cattive. E questo senza negare la bontà intrinseca di ciascuna scelta, ma sacrificandola in cambio di un’altra considerata “a caso” come migliore o più praticabile; o come minore, e più inevitabile, nel caso del male. Per esempio: con riguardo alla competizione tra la libertà di informazione e il diritto all’onore; o tra la prima e il diritto alla privacy, si nota che questi due casi danno continuamente origine a tensioni costituzionali nella Spagna di oggi. Il caso più “dolente” – nel senso letterale del termine – è il responso della Corte Costituzionale sul tema dell’aborto: il “nascituro” viene dichiarato – testualmente – protetto … ma può essere legalmente ucciso in alcuni casi in cui i suoi diritti “inalienabili” di persona umana biologica si scontrano con altri diritti rivendicati e a cui egli è completamente estraneo.

Per quanto riguarda il problema del “dove”, tutto dipende da quanto estendiamo l’ambito della nostra responsabilità. E, ovviamente, questa sfera è tanto più diffusa quanto più è ampia. Così, può essere giustificato tanto l’agire laddove non abbiamo competenza alcuna, quanto il sottrarsi a una responsabilità immediata. Questo giudizio di “responsabilità locale” è oggi particolarmente importante quando, con gli attuali mezzi tecnologici, il mondo appare come un’unità esistenziale globale in contrapposizione ai particolarismi nazionali. Anche la contrapposizione fra “bene comune”/”bene privato” finisce per cadere sotto questa ideologia di contrapposizione che è alla base dell’attuale polemica tra discorso socializzante e società civile.

Certo è che la complessa possibilità di giocare contemporaneamente nel giudizio morale con tutte queste categorie – tempo, qualità, spazio, ecc. – fa sì che si possano sempre trovare “ragioni” in grado di giustificare la scelta fatta e, conseguentemente, anche l’errore commesso: il responsabile, in ogni caso, sarà sempre scusato sulla base del “male minore” o del “bene possibile” della decisione presa a suo tempo.

 

Aspetti sociali

Dal punto di vista sociale, è evidente che tale riduzionismo funziona come una rampa ben oliata lungo la quale la “morale pubblica” – e persino quella interiore – finisce per sfociare nel male “assoluto”. È naturale: ogni situazione specifica non viene confrontata con il punto di partenza iniziale, ma con quella immediatamente precedente, da cui differisce di poco. Ma, nel corso del tempo, l’accumulo di questi “pochi” cumulativi raggiunge quello che è il Male, senza aggettivi. E la cosa peggiore è che tale “iter” è generalmente legittimato socialmente – e persino giuridicamente – a ogni passo in ragione di “piccole” concessioni “prudenziali” (!).

Alla fine, è la dialettica universalismo/particolarismo a essere in gioco; a volte si valuta il bene/male dando priorità all’immediato e concreto esistenziale, al particolare-prima-di-noi che ci riguarda qui-e-ora. In tal caso, nella logica del loro sviluppo, le concessioni del “male minore” finiscono per cadere in quella che Hegel chiamava “astuzia della ragione”: “i fini particolari lottano l’uno contro l’altro e una parte di essi soccombe”. Ma è proprio attraverso la stessa lotta, attraverso la rovina del particolare, che si produce l’universale” (1), cioè si ripristina il vero giudizio sul bene e si vede il “costo umano” della scelta fatta. Al contrario, quando si sceglie il possibilismo in termini di universali teorici ignorando il particolare reale, si gioca alla pura elucubrazione teorica e, allora, si verifica ciò che C. Fabro (2) attribuisce all’essenzialismo della cultura “illuminata”: “il pensiero moderno è stato caratterizzato dalla progressiva rimozione del singolare, e quindi della persona umana, a favore dell’universale astratto”. I risultati di ciò “sono le categorie di non-autenticità, del disobbligarsi e dell’irresponsabilità” (ibidem), oggi chiaramente visibili.

Nella realtà delle cose non può accadere in altro modo: poiché l’immanenza filosofica post-cartesiana fa a meno della realtà esistente, sacrificata al “cogito”, al pensiero umano che è quello che dà la realtà formulata in nozioni, in “idee chiare e distinte” (Cartesio) che esprimono l’unica realtà accettabile dalla ragione umana, per forza (la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è quella di avere una nozione così finita che è sufficiente per arrivare a comprenderla e per permettere la deduzione di tutti i predicati del soggetto a cui questa nozione è attribuita)” (3). Questo brutale riduzionismo – eliminazione della realtà esistente da parte della nozione compresa – implica necessariamente che “l’attribuzione dei predicati” dipenda dal punto di vista adottato dalla “mente conoscente” e da quale dei predicati si costituisca come centrale, prevalendo sugli altri possibili. Da questo, a sua volta, dipenderà cosa sia la “verità” – qui sostituita dalla “certezza” secondo l’apprezzamento di Heidegger – e il “bene”, ora ridotto da Stuart Mill a mera “utilità”: è, dunque, l’ingresso nelle ideologie…

 

L’ideologia come metafisica

Berlinger (4) osserva che “se si esaminano in profondità le pretese totalitarie che l’ideologia manifesta nei confronti della filosofia, allora essa può essere caratterizzata solo come una metafisica secolarizzata”. Così nella dialettica ideologica tra l’uno e l’altro “ismo”, una Verità è sostituita da un’opinione multipla: la prima immutabile e non negoziabile, la seconda modificabile in grado o misura, e quindi negoziabile in base a un giudizio “economico” circostanziato su cosa sia, in ciascun caso, e quanto costi in termini di utilità a confronto. È evidente che questo rientra nella logica del “male minore” e del “bene possibile”, con le conseguenze di cui sopra.

Cantero (5) spiega come la mancanza di un principio oggettivo, che parta da una reale “natura umana” e non sia costruito a partire da una base ideologica – a priori, abbia incontrato difficoltà insormontabili nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” promulgata dall’O.N.U., che alla fine è stata strutturata come una reazione consensuale empirica, senza alcun ordine gerarchico tra di essi. Dalle diverse prospettive filosofiche di Cantero, F. Fukuyama (6) si giunge allo stesso ragionamento: “L’incoerenza del nostro attuale discorso sulla natura dei diritti umani nasce da una crisi filosofica più profonda che riguarda la possibilità di comprendere l’essere umano”. In un modo o nell’altro, questo è diventato un tema centrale del discorso attuale, che interessa la filosofia sociale, l’antropologia, la filosofia del diritto e la ricerca e l’interpretazione storica.

Essa riguarda anche altre relazioni: ad esempio, le relazioni della “natura” umana con la natura, cioè l’intera problematica ecologica attuale. Ad esempio, la dialettica, in’ultima analisi esclusiva, tra lo sviluppo economico di alcune aree e la conservazione dell’ambiente: “Qual è il “male minore” in questo caso? Lo stesso vale per la dialettica del discorso “sociale” contro quello “economico”, nel quale, peraltro, c’è una asimmetria costitutiva tra i due termini, perché il “sociale” umano ricade interamente sotto la “legge della libertà” degli individui, il “deve essere” piuttosto che il “può essere” della “legge della necessità” delle “cose” – consumo e produzione – che, per la sua natura limitata, non è pacifica, ma esclusiva: materialmente c’è-o-non c’è.

Nell’interazione economico-ecologica della Natura con la “natura” umana c’è anche, da parte di quest’ultima, necessariamente una dialettica di priorità che alla fine determina quale sia il “bene possibile” o il “male minore”. Infatti, nelle scelte economiche, l’uomo come produttore e consumatore, pur essendo soggetto alla “legge della libertà”, deve tenere conto nelle sue azioni dei fattori condizionanti della capacità di accettare rischi, della propensione al lavoro o al tempo libero, al risparmio o alla spesa, sia negli individui che nelle società: data la “limitazione” – condizione intrinseca dell’economia – le opzioni presentate saranno alternative escludenti – “aut-aut” (-0-0-) – poiché non è possibile in ogni coppia averne di sommative – “et-et” (-y-y-) -.

In ogni caso, il risultato sarà coerente con la decisione presa, sia in termini di risultati che di rinunce. Ed è ovvio che in ogni caso c’è un giudizio che valorizza quello che è il “male minore” o il “bene possibile”, che non cambia i risultati, in modo che gli errori, non cambiando i risultati, saranno prima o poi evidenti.

Come sintesi finale, si può dire che nella dialettica – la scienza del dialogo – sociale ormai costituita come base delle relazioni umane in sostituzione dell’ordine dell’essere, universalmente accettato come riferimento ultimo, ci sarà sempre una scelta esclusiva tra il “mio” bene – maggiore o minore – e la concezione comunitariamente valida, raggiunta per “consenso”: negli eventuali scontri sociali non c’è spazio per la mediazione; se il comune viene “imposto” sarà a costo dell'”alienazione” personale dei dissenzienti; altrimenti, “anomia” sociale. E la presunta soluzione di cercare un “programma minimo” accettato da tutti implica la riduzione, per esclusione, delle questioni conflittuali.

Vale a dire: tralasciando ciò che è veramente importante per l’uomo. E così, “soppesando i valori e i beni che devono essere perseguiti, ci si concentra piuttosto sulla riproposizione riconosciuta tra gli affetti buoni o cattivi, in vista del bene maggiore o del male minore, che sono effettivamente possibili in una data situazione…

Le teorie teleologiche, pur riconoscendo che i valori morali sono stabiliti dalla ragione e dalla rivelazione, non ammettono – ci avverte ora il Papa (Veritatis splendor, 75) – che sia possibile formulare una proibizione assoluta di certi comportamenti che, in qualche circostanza e cultura, possano contrastare con quei valori.

 

Antonio Segura Ferns è stato un chimico, economista e filosofo spagnolo, è stato per due mandati consigliere nazionale della Comunione Tradizionalista. Fondatore e presidente della sezione di Siviglia della Società Internazionale Tommaso d’Aquino (SITA), era diventato docente della Facoltà di Filosofia dell’Università di Siviglia.

 

NOTE:

  1. – F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia
  2. – Fabro, Riflessioni sulla libertà, Maggioli, 1983, pag. 210
  3. – Leibniz, Prima formulazione del sistema, § 8
  4. – R. Berlinger, Le ideologie, simbolo del nostro tempo
  5. – Cantero, La concezione dei diritti umani in Giovanni Paolo II
  6. – Fukuyama, “La fine della Storia e l’ultimo Uomo”
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