GERMANIA INCERTA E EUROPA SENZA IDEE

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DI MAURIZIO BLONDET

BERLINO – I tedeschi non hanno scelto nessuno. Hanno rifiutato a metà il liberismo «anglosassone» promesso dalla Merkel, e rifiutato a metà la
socialdemocrazia «moderata» di Schroeder, le sue mezze misure verso una riduzione dello Stato sociale, che stanno cominciando a funzionare a metà.
Mezzi rifiuti che non sono scelte.
Ma che fare?
L’incertezza non è che il riflesso della mancanza di idee europea sul modello economico da scegliere.
Il modello autoctono dell’Europa è stato non il liberismo assoluto e globale «americano», ma un dirigismo che ha funzionato, proprio in Germania (modello
renano) abbastanza bene.

Poi, ci si è convertiti al liberismo globale e dottrinario, che non nasceva da noi, ma ci è stato dettato dalle università USA.
Non è solo un sistema in cui noi europei non siamo troppo bravi; è che non lo comprendiamo bene.
La prova?
L’Unione Europea ci vuole spingere alla deregulation massima, ma lo fa – assurdamente – aggiungendo regole su regole: ci impone regole sulle toilettes in
fabbrica, sul calibro delle mele che possiamo vendere, sulla curvatura del cetriolo. Regole che sono costi.
In USA, e ancor più in Cina, non esistono regole, ed è per questo che «funzionano» nel liberismo globale.
Non hanno costi sindacali, e in Cina nemmeno costi umani.
Come si fa a competere con produttori cinesi dove la paga media è 70 euro al mese e ci sono 6-7 milioni di detenuti che lavorano senza paga per
l’esportazione?

Bruxelles ci impone, con dogmatismo dottrinario, la riduzione (o smantellamento) dei costi sociali, delle pensioni, dei sussidi di disoccupazione; e nello
stesso tempo ci si consiglia di «consumare di più», per far tirare l’economia.
Ovviamente, le due cose non stanno insieme: la gente consuma meno per compensare i tagli preannunciati dei benefici sociali, lo scadimento del livello di
vita.
Ci si addita l’operaio polacco, che costa ai capitalisti sette volte meno dell’operaio tedesco.
Il consiglio implicito è che i tedeschi scendano, come potere d’acquisto e protezioni sociali, al livello dei polacchi.
Ma è una proposta che un politico può fare apertamente, in regime democratico? Proporre agli elettori cittadini il calo storico dei propri livelli di vita?
Non si può.
Lo si fa dunque surrettiziamente, senza dichiararlo (e con l’incitamento assurdo: «consumate di più»), e con mezze misure, come Schroeder in Germania.

E poi, basterà? Non basterà: l’operaio cinese costa non 7, ma 100 volte meno di quello tedesco. Scendiamo al livello dei cinesi, per tornare «competitivi»?
Il bello è che anche le mezze misure di Schroeder stanno funzionando.
La Germania è tornata ad essere il primo paese esportatore mondiale, più della Cina, per l’eccellenza dei suoi (costosi) prodotti.
Ma le resta uno zoccolo duro, invincibile, di 4,5 milioni di disoccupati.
Sono i lavoratori meno efficienti, di bassa qualità, non impiegabili in regime di alto costo del lavoro.
E questo costo – il costo di un Paese civile e umano – sarà sempre troppo alto per loro; conviene sostituirli con lavoratori cinesi, o immigrati dell’Est.
Al mercato globale la Germania ha dato tutto quel che può, e lo dimostra esportando al massimo.
Ma non basta, non basta mai.

Tutto ciò accade perché in Europa s’è persa la capacità di pensare. Di ripensare radicalmente il pensiero economico.
Si è accettato il liberismo globale a metà dettato dai monetaristi USA, ma a metà, senza avere la volontà di adottarlo fino in fondo. Ma, d’altra parte, senza
volere o potere elaborare un nostro modello.
Bisognerebbe anzitutto rispondere alla domanda: che cosa vogliamo dalla vita?
Con il liberismo globale, gli Stati cessano di essere comunità il cui scopo (la cui economia) è di dare da vivere ai suoi membri, anche i meno efficienti; e
diventano aziende votate all’esportazione.
Vogliamo che le nostre società umane divengano aziende «efficienti», nel senso che licenziano e sbattono fuori, senza pietà, i membri poco utili, anziani,
malati, disoccupati?
Ma costoro, in una società «civile», restano in qualche modo a carico della comunità, il loro costo resta, e allora addio efficienza.

Le società non sono aziende, checché ne dicano i liberisti dottrinari.
E’ possibile un modello europeo, radicalmente diverso?
E’ possibile, purché si cessi di pensare che il liberismo (i cui effetti devastatori si sono rivelati in USA a New Orleans) non è la sola dottrina possibile.
In realtà, nella storia moderna, è stato tutto un oscillare dal modello liberista a quello dirigista: quando l’uno aveva prodotto i suoi guasti, si tornava all’altro.
Fu così dopo la crisi del ’29, fu così nel dopoguerra, quando il mondo occidentale adottò il keynesismo.
Il keynesismo, il dirigismo (attenzione alla domanda interna, politiche statali per l’occupazione, ricerca di un surplus in conto merci) non ha perso la sua
legittimità. Anzi, i disastri della globalizzazione ne accelerano probabilmente il ritorno.

John Maynard Keynes scriveva, già nel ’33: «simpatizzo con quelli che ridurrebbero al minimo, anziché con quelli che massimizzerebbero gli intrecci
economici fra le nazioni».
Insomma, preferiva l’autosufficienza alla preoccupazione dell’interscambio, alla febbre dell’export.
Lo scriveva in un saggio dal titolo significativo: «National self-sufficiency», «Autarchia nazionale».
Oggi l’autarchia non è più possibile sul piano nazionale.
Ma è ancora possibile sul piano europeo?
Perché non esplorare questa possibilità?
Una «fortezza Europa», non un mercato aperto a tutti i venti della competizione (la competizione impossibile col Gulag cinese), ma aperto con giudizio.

Non un’Europa azienda esportatrice, ma un’Europa che si ponga come scopo di far vivere i suoi abitanti, al livello decente storicamente raggiunto.
Che non li voglia svendere al modello cinese.
Che si chiuda ogni volta che ciò sia possibile, e si apra al suo immenso mercato interno, produca per il mercato interno di 480 milioni di consumatori con un
buon potere d’acquisto.
Naturalmente ciò avrà dei costi che bisogna essere disposti a pagare.
Non si tratta solo di pagare qualcosa di più un telefonino made in Europe anzichè in Taiwan, reggiseni e mutande più costose di quelle made in China.
Si tratta di riacquistare quelle competenze tecniche che la svendita delle nostre industrie elettroniche o d’altro tipo ha spostato all’Est.
Una parte rilevante dell’apparato produttivo si è ben adattato alla globalizzazione, e vive di export; bisognerà riorganizzarlo in parte, in parte riorientarlo al
grande mercato interno della «fortezza Europa».
Si tratta d! i svalutare l’euro, come gli USA hanno svalutato il dollaro.
Altri prezzi saranno da pagare: ma il prezzo di ridurci a livelli di vita cinesi, o di povertà americane senza assistenza sanitaria, mi pare più caro, più
impagabile.

Maurizio Blondet
Fonte:www.effedieffe.com
19.09.05

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