Genocidio degli Uiguri, la più grande menzogna del XXI secolo

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di Andrea Turi

Il seguente articolo fa da raccordo con il precedente incentrato sulla lotta al terrorismo nello Xinjiang e comincia a sviluppare la narrazione del “genocidio” che verrà eviscerata soprattutto nell’ultimo articolo, quello dedicato ai media e ONG.

In questo breve saggio si parla delle accuse di genocidio degli uiguri rivolte dalle forze anti-cinesi al Governo di Pechino introducendo il concetto di macrocausa ed analizzando le motivazioni per le quali è stato introdotto il concetto di genocidio, utilizzato come strumento di politica estera e pressione verso la Repubblica Popolare senza che siano fornite prove concrete di tali accuse.

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Shaun Rein, fondatore e amministratore delegato del China Market Research Group, la principale società di intelligence di mercato strategica al mondo focalizzata sulla Cina, ha recentemente contribuito al libro La Via Cinese. Sfida per un futuro condiviso del professor Fabio Massimo Parenti scrivendone il capitolo introduttivo, un piccolo saggio dato alle stampe con l’inequivocabile titolo di Gli stereotipi occidentali sulla Cina[1]. Un elaborato breve, schietto, onesto ed estremamente chiaro: “Vivo in Cina dalla metà degli anni Novanta, da quando, adolescente, mi sono trasferito per la prima volta a Tianjin per studiare all’Università di Nankai. Nei quasi 25 anni in cui sono stato in Cina ho visto la società cinese esperire cambiamenti drastici. Quando sono arrivato per la prima volta, la Cina era così povera e la disperazione così diffusa che è difficile persino da descrivere. […] Venticinque anni dopo, la Cina è pronta a eclissare l’America e a diventare la più grande economia mondiale entro la fine del decennio. A dire il vero, la Cina ha già sostituito l’America diventando il principale partner commerciale di circa 130 Paesi. […] Sfortunatamente, insieme all’ascesa della Cina, le percezioni occidentali di questo Paese sono diventate sempre più antagonistiche, soprattutto durante gli anni dell’amministrazione Trump e in seguito all’avvento del Covid19. Troppi media occidentali, dall’Economist al New York Times passando per il Wall Street Journal, descrivono il Governo e il popolo cinese sotto una luce negativa, parziale e sensazionalistica. Anche i social media come Twitter e Facebook contribuiscono alla diffusione di disinformazione e falsità”. Per quel che riguarda la Cina, “studiosi, Governi ed organi di stampa occidentali – in particolare negli Stati Uniti e nell’anglosfera – interpretano la Cina in modo costantemente errato. Tutto ciò porta a devastanti doppi standard, nonché ad errori che diventano “fatti” in un ciclo di notizie internazionali che prospera sulla disinformazione. […] Dal mio punto di vista, ci sono tre cliché chiave, in merito a dove e come l’Occidente sta sbagliando quando si occupa di Cina”.

Sono quelle che possiamo definire macrocause o ragioni superiori e incontestabili che vengono create laddove è necessario un intervento urgente in aree in cui si manifestano interessi contrapposti – in questo caso – a quelli occidentali; la macrocausa o ragione incontestabile è, quindi, funzionale a valutare in modo interessato un’azione compiuta da chi si vuole svalutare influenzando l’opinione pubblica e orientandone il giudizio verso l’aspetto negativo, tutto ciò è volto a coprire i successi del Paese/Governo/leader/istituzione/partito che si vuole screditare[2]. Il concetto di macrocausa si applica anche alla narrazione elaborata dalle forze anti-cinesi, in prevalenza occidentali, concernente la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang; di fronte a tali ragioni superiori e incontestabili, non ha nessun significato il fatto che il prodotto interno lordo dello Xinjiang sia passato da 791 milioni di yuan del 1952 agli oltre 1.200 miliardi di yuan alla vigilia degli anni ’20 di questo secolo, con un ritmo annuo che si aggira intorno all’8%[3]; nessun significato neppure la nascita e lo sviluppo di una fiorente industria sempre più differenziata e con interessanti modelli di innovazione come quelli della Zona di Sviluppo Economico e Tecnologico di Urumqi, inaugurata a metà degli anni Novanta; nulla conta lo sviluppo di un promettente settore dei servizi e le importanti opere infrastrutturali realizzate nel corso degli ultimi quarant’anni che hanno permesso di collegare tutto il territorio regionale; nulla conta il boom dei flussi turistici verso la regione; tanto meno il fatto che dal 2014 al 2019 il numero totale dei lavoratori nello Xinjiang sia salito dal 11.35 milioni a 13.30 milioni con un incremento del 17.2%[4] e che la qualità del lavoro sia incrementata in modo significativo; niente conta se le retribuzioni dei lavoratori siano cresciute con un tasso di poco inferiore al 9%; nessuna valenza positiva assumono le garanzie sulla libertà di credo religioso dei lavoratori e il diritto di utilizzare la propria lingua parlata e scritta[5]; che lo Xinjiang, poi, attui una politica occupazionale proattiva, protegga i diritti legali del lavoro e gli interessi delle persone di tutti i gruppi etnici e si sforzi di fornire un lavoro dignitoso e una vita migliore per tutti, elementi, questi, che incarnano i valori comuni difesi dalla comunità internazionale e contribuiscono a salvaguardare l’equità e la giustizia sociale e a promuovere lo sviluppo integrale dell’umanità, non interessa; così come il fatto che lo Xinjiang sia così diventato un esempio riuscito di applicazione degli standard internazionali del lavoro e dei diritti umani nelle aree sottosviluppate con grandi popolazioni di minoranze etniche. Nello storytelling occidentale tutti questi successi – ma gli esempi da citare sarebbero molti altri – sono oscurati dalla macrocausa che fa della Repubblica Popolare Cinese una delle più feroci dittature di stampo comunista della Storia, giudizio che inevitabilmente finisce con il condizionare ed orientare un’opinione pubblica incapace di sviluppare un pensiero critico autonomo, visto che ormai è stata disinnescata dalle logiche che dominano il pensiero unico.

Le campagne di discredito verso la Cina spesso non hanno alcun fondamento nella realtà[6]: come, ad esempio, nella trattazione della lotta contro il terrorismo nello Xinjiang – per riprendere l’argomento trattato nel precedente articolo di questo focus e chiudere il cerchio – la macrocausa del genocidio contro il popolo Uiguro nega i successi delle politiche messe in atto dal Governo di Pechino, per il quale “difendersi dal terrorismo significa difendere innanzitutto i propri confini e la propria sicurezza” e si lega al significato del termine changzhi jiu’an, che fin dall’antichità della dinastia Han significa “stabilità permanente, sicurezza a lungo termine”[7].

Al fine di debellare i nefasti portati dei Tre Demoni, estremismo, terrorismo e separatismo, il 28 dicembre 2015, in occasione della 18° sessione del 12° Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo è stata approvata la legge antiterrorismo nella quale si delinea in modo preciso la definizione di terrorismo come “qualsiasi proposito o attività che, attraverso mezzi violenti, sabotaggio o minaccia, generi panico sociale, mini la sicurezza pubblica, violi i diritti personali e di proprietà, e minacci gli organi governativi e le organizzazioni internazionali, allo scopo di portare avanti un certo obiettivo politico e ideologico”. La Cina, quindi, “si oppone a tutte le forme di estremismo che cerchino di istigare all’odio, incitare alla discriminazione e fare appello alla violenza attraverso la distorsione delle dottrine religiose ed altri mezzi[8]”.

Il riferimento è all’Islam. Va tenuto conto del fatto che in Occidente, l’islam è una religione allogena mentre in “Cina – come anche in Russia, in India e nel Sudest asiatico – l’Islam ha una storia molto più antica e complessa, essendo penetrato a quelle latitudini molti secoli fa attraverso gli scambi culturali e commerciali del passato, dunque ponendosi ormai come una tradizione religiosa pienamente autoctona, seppur minoritaria, come dimostra il caso degli Hui, una comunità musulmana perfettamente integrata nella storia e nella cultura cinese. […] questo impone a Pechino di intervenire in modo estremamente accorto per impedire non solo che le distorsioni ideologiche violente e settarie dell’Islam possano diffondersi tra i milioni di musulmani presenti in tutto il Paese, dentro e fuori lo Xinjiang, ma anche che la risposta anti-terroristica non si trasformi in una reazione violenta ed arbitraria nei confronti degli uiguri e delle altre comunità musulmane[9]”.

Per comprenderne il senso pieno e la sua portata si deve far riferimento al concetto di approccio olistico alla sicurezza nazionale elaborato da Xi Jinping nell’aprile del 2014: “internamente e esternamente, i fattori in gioco sono più complessi che mai,[…] pertanto, dobbiamo mantenere una visione olistica della sicurezza nazionale ed assumere la sicurezza della popolazione come nostro obiettivo finale, la sicurezza politica come nostro compito fondamentale e la sicurezza economica come nostro fondamento, con sicurezza militare, culturale e pubblica come garanzia, e promuovere la sicurezza internazionale per stabilire un sistema di sicurezza nazionale con caratteristiche cinesi prestando molta attenzione alle questioni di sicurezza sia tradizionali che non tradizionali e costruire un sistema di sicurezza nazionale che integri elementi come la cultura, la società, l’ambiente, l’energia nucleare, l’informazione e la sicurezza scientifico-tecnologica”[10].

E davanti alla macrocausa che etichetta Xi Jinping alla stregua di un dittatore, non ha alcuna valenza la volontà cinese di agire eticamente e culturalmente sulle società per raggiungere una piena armonia non solo tra i gruppi etnici che abitano lo Xinjiang (attualmente 47, di cui 13 principali, e numerose comunità religiose) ma anche tra le varie fasce sociali e i corpi intermedi, in modo da essere nel 2049, anno in cui la Repubblica Popolare Cinese festeggerà il centenario dalla sua fondazione, “un grande e moderno Paese socialista, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e meraviglioso[11]”.

L’Occidente continua, quindi, a guardare alla Cina con rigurgiti di antichi pregiudizi che palesano le sempre più evidenti paure occidentali di fronte ai successi ottenuti da Pechino in molti campi; una paura che viene da lontano: basti leggere, ad esempio, il breve saggio scritto da John Kuo Wei Tchen e Dylan Yeats dal titolo Pericolo giallo: capro espiatorio del XIX secolo[12], in cui viene affermato che il concetto di “pericolo giallo” è vecchio di secoli, e sebbene oggi riporti alla mente le paure razziste dell’Asia orientale, alcuni dei suoi primi usi si riferiscono all’Asia occidentale e meridionale. Il giallo fa parte di un immaginario visivo che varia in relazione all’estensione della colonizzazione europea in ‘Oriente’. L’oggetto della colpa – l’altro – è sempre in movimento. “Questa esclusione istituzionale di popoli e idee orientali pericolosi e che si mescolano ha fornito un quadro per comprendere le sfide future. Sotto la bandiera dell’anticomunismo, il Governo federale ha intrapreso una guerra contro l’omosessualità, l’organizzazione del lavoro, i diritti civili e gli attivisti contro la guerra. Oggi, i partiti politici statunitensi competono su chi è più duro con il terrorismo e la Cina. Una fitta rete di think tank mobilita gli americani scontenti intorno alla minaccia “pagana” appena fabbricata della legge della Sharia e della “radicalizzazione” musulmana americana. Gli informatori dell’FBI fanno pressione sui giovani arrabbiati ai margini della società per pianificare atti “terroristici” in modo che possano arrestarli. Agenti governativi si infiltrano nelle moschee e nei gruppi contro la guerra per osservare e interrompere le assemblee legali. Anche se alla fine fantasiose, queste tecniche di allarmismo hanno effetti reali. Mettono a tacere l’opposizione delle comunità più vulnerabili e concentrano le ansie di milioni di americani lontano dai problemi che perseguitano il liberalismo e su capri espiatori facili da portare. Il “controllo” arabo dei prezzi del petrolio, la concorrenza “sleale” giapponese e la “manipolazione” cinese della valuta aiutano i politici e gli esperti a proteggere gli americani dalla comprensione dei lampanti fallimenti della politica interna alla base dei loro problemi economici. Questo quadro di scontro di civiltà, costruito su generazioni di disinformazione, giustifica la richiesta per gli americani di rinunciare ancora una volta alla promessa. Non è più il “modo di produzione asiatico” o il comunismo asiatico, ma il capitalismo asiatico che minaccia “lo stile di vita americano”. La spesa in deficit degli Stati Uniti, una volta necessaria per combattere il comunismo, ora mette in pericolo la nazione. L’unica costante in mezzo a queste mutevoli e contraddittorie minacce al sogno americano, è che i nemici orientali, non le azioni del Governo degli Stati Uniti o le pratiche aziendali, sono sempre da biasimare.

Il capro espiatorio giallo oscura l’analisi efficace dei dibattiti politici statunitensi, ma ostracizza, mette a tacere e talvolta sacrifica individui e comunità sull’altare della fantasia americana.
Fa ben notare il professore Fabio Massimo Parenti che “chi si occupa di Cina sa bene che lo sguardo dell’Occidente sulla Repubblica Popolare è stato spesso liquidatorio, superficiale e distorto. Una sorta di sagra di opinioni stereotipate, con giudizi di valore utilizzati costantemente per mettere in risalto quanto noi occidentali saremmo superiori rispetto al “modello cinese”. […] Distorsioni mediatiche e pulsioni strategiche mal indirizzate hanno pertanto ingenerato una percezione pubblica alterata che tende a condannare il sistema cinese come resistente ai migliori valori dell’universalismo liberale. C’è dunque un fattore culturale non trascurabile dietro le relazioni internazionali. Da quando l’universalismo liberale ha preso la forma dell’egemonia occidentale, cioè dalla sua origine, esso si è sempre tradotto nell’imposizione al mondo del particolarismo dell’egemone di turno”. Per questo – riportando ancora le parole di Parenti – i timori delle élite occidentali, negli Usa in particolar modo, sono riconducibili alla paura crescente di perdere l”influenza nella ridefinizione della nuova governance mondiale e quindi di vedere un mondo de-occidentalizzato. Ciò ha spinto vari studiosi e diverse istituzioni a pensare a un nuovo scenario di guerra fredda già 15- 20 anni fa”[13].

Negli ultimi due anni abbiamo assistito ad un sostanziale incremento dell’attenzione rivolta dall’Occidente nei confronti della Repubblica Popolare Cinese relativamente a diverse tematiche – declinate tutte negativamente – che si possono riassumere in poche tipologie: minaccia dittatoriale per il mondo libero + violazione dei diritti umani + minacce per la sicurezza + sfruttamento attraverso la Belt and Road Initiative + aggressioni territoriali /Hong Kong, Xinjiang, Tibet, Taiwan, Mare Cinese del Sud) e lavoro forzato, una lista di ragioni superiori e incontestabili che oscurano nel dibattito pubblico e mediatico i successi ottenuti dalle politiche cinesi, che si tratti dell’elevazione di circa 850 milioni di persone dalla povertà, dello sviluppo socioeconomico tremendamente rapido registrato negli ultimi quarant’anni, dei vantaggi della Belt And Road Initiative (BRI) – il più grande progetto di cooperazione civile dell’umanità che coinvolge, ad oggi, più di 80 paesi[14]. Sì, perché, parlando di Xinjiang, le accuse recitate per mettere pressione a Pechino non coincidono con le ragioni reali ma riguardano, piuttosto, la “volontà di bloccare lo sviluppo della Cina e la sua rinnovata influenza internazionale: è noto, infatti, che ben tre corridoi terrestri della Belt and Road Initiative (BRI) hanno origine in Xinjiang, quello Kashgar – Gwadar (il corridoio economico sino-pakistano) e i due che si separano in Kazakhistan (il corridoio eurasiatico e quello centro-asiatico occidentale. Per chi avesse dei dubbi, suggeriamo di visionare il discorso di Lawrence Wilkerson, capo di Stato maggiore dell’ex Segretario di Stato Colin Powell, tenuto nel 2018 al Ron Paul Institute[15], in cui spiega le ragioni della presenza militare statunitense in Afghanistan, tra cui la destabilizzazione dello Xinjiang, per colpire la BRI[16]”.

Secondo il mainstream occidentale, l’agenda della guerra fredda cinese, in Cina succedono soltanto cose negative e condannabili; è chiaro che Pechino sia diventata la più grande minaccia per il futuro del mondo libero. Durante un discorso tenuto alla Nixon Library, il Segretario di Stato dell’Amministrazione guidata da Donald Trump, Mike Pompeo, ha sostenuto che “il regime del PCC è un regime marxista-leninista. Il segretario generale Xi Jinping è un vero credente in un’ideologia totalitaria in bancarotta. È questa ideologia, è questa ideologia che informa il suo decennale desiderio di egemonia globale del comunismo cinese. […] Sappiamo che anche l’Esercito di Liberazione Popolare non è un esercito normale. Il suo scopo è sostenere il dominio assoluto delle élite del Partito Comunista Cinese ed espandere un impero cinese, non proteggere il popolo cinese. […] Dobbiamo anche coinvolgere e responsabilizzare il popolo cinese, un popolo dinamico e amante della libertà che è completamente distinto dal Partito comunista cinese[17]”.

Niente di più congeniale alla logica e alla retorica della guerra fredda per come l’abbiamo conosciuta: è noi contro loro, nessuna coesistenza è possibile, è una competizione a somma zero, si vince o si perde, nessuna cooperazione è possibile. Nella visione egemonica occidentale a guida statunitense, il mondo intero – o quello che viene “premiato” dall’etichetta libero – deve stare insieme, tutti uniti contro la minaccia cinese e indurre un radicale cambiamento politico a Pechino; sul finire degli anni ’70 del XX secolo, la Cina si è aperta gradualmente al mondo sia sotto l’aspetto diplomatico che economico: la sua adesione al World Trade Organisation (WTO) aveva fatto compiere all’Occidente una fuga in avanti che aveva indotto a pensare ad una parallela riforma politica sulla base dei precetti della democrazia all’occidentale. La Cina, invece, ha continuato a percorrere il proprio cammino di sviluppo “basato sulla realtà della Cina. La Cina è negli ultimi anni riuscita a intraprendere un percorso di sviluppo capace di adattamento, attingendo sia alla saggezza della sua civiltà, sia alle pratiche di altri Paesi in Oriente e in Occidente […]. Nessun Paese dovrebbe vedere il proprio percorso di sviluppo come l’unico praticabile, tanto meno dovrebbe imporre il proprio percorso di sviluppo sugli altri”[18], così come, invece, presuppone l’azione occidentale che si informa sulla sua presunta superiorità civile e morale.

Questo vale anche per lo Xinjiang, regione per la quale l’Occidente continua a divulgare rapporti sui diritti umani, imporre sanzioni ed approvare leggi che puntano a colpire direttamente Pechino: Washington è arrivata a promuovere la democrazia nello stesso modo, tant’è che il cavallo di Troia dei diritti umani è stato utilizzato come veicolo di guerra ideologica contro le culture differenti alimentata da mezzi di comunicazione che contribuiscono a veicolare un’immagine negativa della Cina; una guerra ideologica in cui le menzogne “umanitarie” rappresentano la forma più pericolosa di disinformazione, la più importante e recente delle quali è la favola che un “genocidio” viene commesso contro i musulmani nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang cinese: le guerre mediatiche a sfondo umanitario sono divenute una costante delle relazioni internazionali degli ultimi decenni e sono funzionali all’applicazione estesa della dottrina delle risorse umane occidentali che presuppone il primato dell’individuo (e dei suoi diritti) sulla collettività così come il primato di quello che si vuole essere universale rispetto al particolare; come denuncia il rapporto Dinamiche e dati della popolazione dello Xinjiang, “fingendosi ‘difensori dei diritti umani’, le forze anti-cinesi in alcuni Paesi come gli Stati Uniti ignorano la storia oscura dei propri Paesi, dove è stato commesso un vero genocidio contro le popolazioni indigene come i nativi americani. Insieme a molti altri, chiudono un occhio sulla discriminazione razziale profondamente radicata e su altri problemi sistemici nei loro Paesi oggi, e sulla macchia sui diritti umani diffusa dalle loro incessanti guerre in altri Paesi che mietono milioni di vite civili innocenti. I loro orribili doppi standard, l’ipocrisia e la mentalità egemonica ricordano la famigerata citazione ‘accusa l’altro lato di ciò di cui sei colpevole’[19]; inoltre, l’abuso occidentale dei postulati della dottrina dei diritti umani non può ignorare la soddisfazione di obiettivi geopolitici internazionali come nei casi delle guerre e campagne contro Libia, Siria e adesso la Regione autonoma dello Xinjiang, dove con abili manovre di disinformazione si sta cercando di destabilizzare il Governo di Pechino facendo leva su presunte violazioni dei diritti umani della popolazione uigura per la quale si usa con sempre più insistenza l’accusa di genocidio.

L’articolo II della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del delitto di Genocidio, approvata e proposta per la firma e la ratifica dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale 260 A (III) del 9 dicembre 1948 (entrata in vigore il 12 gennaio 1951),definisce esplicitamente il genocidio nell’ambito del diritto internazionale: “ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: 1- Uccisione di membri del gruppo; 2- Lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; 3- Imposizione di condizioni di vita intese a provocare distruzione fisica, totale o parziale del gruppo; 4- Misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; 5- Trasferimento forzato di minori da un gruppo ad un altro”.

A dicembre del 2020, Mike Pompeo, Segretario di Stato ormai uscente dell’Amministrazione Trump, colui che con il suo ormai famoso we lie, we cheat, we stole (mentiamo, imbrogliamo, abbiamo rubato)non ha nascosto la manipolazione e la disinformazione come strumento della politica estera degli Stati Uniti, aveva ordinato una revisione interna per determinare se il popolo uiguro dello Xinjiang stesse subendo una repressione da parte di Pechino tale da farla equivalere ad un genocidio nella speranza di poter accusare direttamente la Cina di orribili crimini contro l’umanità prima del passaggio di consegne all’Amministrazione Biden. Il 19 gennaio 2021, suo ultimo giorno a capo della diplomazia statunitense, Pompeo si è congedato con il seguente comunicato: “Oggi, quindi, prendo le seguenti determinazioni[20]: dopo un attento esame dei fatti disponibili, ho stabilito che almeno dal marzo 2017, la Repubblica Popolare Cinese (RPC), sotto la direzione e il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC), ha commesso crimini contro l’umanità contro la maggioranza musulmana uigura e altri membri di minoranze etniche e religiose nello Xinjiang. Questi crimini sono in corso e comprendono: l’incarcerazione arbitraria o altre gravi privazioni della libertà fisica di oltre un milione di civili, la sterilizzazione forzata, la tortura di un gran numero di persone detenute arbitrariamente, il lavoro forzato e l’imposizione di restrizioni draconiane alla libertà di religione o credo, libertà di espressione e libertà di movimento. I tribunali di Norimberga alla fine della Seconda guerra mondiale perseguirono i responsabili per crimini contro l’umanità, gli stessi crimini perpetrati nello Xinjiang. Inoltre, dopo un attento esame dei fatti disponibili, ho stabilito che la Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione e il controllo del PCC, ha commesso un genocidio contro gli uiguri prevalentemente musulmani e altre minoranze etniche e religiose nello Xinjiang. Credo che questo genocidio sia in corso e che stiamo assistendo al tentativo sistematico di distruggere gli uiguri da parte del partito-stato cinese. Le autorità di governo del secondo Paese più economicamente, militarmente e politicamente potente della Terra hanno chiarito che sono impegnate nell’assimilazione forzata e nell’eventuale cancellazione di un vulnerabile gruppo di minoranza etnica e religiosa, anche se contemporaneamente affermano il loro Paese come un leader e tentano di rimodellare il sistema internazionale a loro immagine. Gli Stati Uniti chiedono alla RPC di rilasciare immediatamente tutte le persone detenute arbitrariamente e di abolire il suo sistema di internamento, campi di detenzione, arresti domiciliari e lavoro forzato, cessare le misure coercitive di controllo della popolazione, comprese sterilizzazioni forzate, aborto forzato, controllo forzato delle nascite e allontanamento dei bambini dalle loro famiglie; porre fine a tutte le torture e gli abusi nei luoghi di detenzione; porre fine alla persecuzione degli uiguri e di altri membri delle minoranze religiose ed etniche nello Xinjiang e altrove in Cina e concedere agli uiguri e ad altre minoranze perseguitate la libertà di viaggiare ed emigrare.

Chiediamo inoltre a tutti gli organismi giuridici multilaterali e pertinenti competenti di unirsi agli Stati Uniti nel nostro sforzo di promuovere la condanna per i responsabili di queste atrocità. Ho ordinato al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti di continuare a indagare e raccogliere informazioni pertinenti sulle atrocità in corso che si verificano nello Xinjiang e di mettere queste prove a disposizione delle autorità competenti e della comunità internazionale nella misura consentita dalla legge. Gli Stati Uniti, da parte loro, si sono pronunciati e hanno preso provvedimenti, attuando una serie di sanzioni contro i dirigenti senior del PCC e le imprese statali che finanziano l’architettura della repressione in tutto lo Xinjiang.

Gli Stati Uniti hanno lavorato a fondo per portare alla luce ciò che il Partito Comunista e il Segretario Generale Xi Jinping desiderano tenere nascosto attraverso l’offuscamento, la propaganda e la coercizione. Le atrocità di Pechino nello Xinjiang rappresentano un estremo affronto agli uiguri, al popolo cinese e alle persone civili di tutto il mondo. Non rimarremo in silenzio. Se al Partito Comunista Cinese sarà permesso di commettere genocidio e crimini contro l’umanità contro il suo stesso popolo, immagina cosa sarà incoraggiato a fare al mondo libero, in un futuro non così lontano[21]”.

Tale determinazione si basava – si legge sempre nel comunicato stampa diramato dal Dipartimento di Stato USA – su una “esaustiva documentazione delle azioni della Repubblica Popolare Cinese nello Xinjiang che conferma che almeno a partire dal mese di marzo 2017 le autorità locali hanno drammaticamente intensificato la loro decennale campagna di repressione contro i musulmani uiguri e i membri di altre minoranze etniche e religiose, compresi i kazaki e l’etnia kirghisa. Le loro politiche, pratiche e abusi all’ingrosso e moralmente ripugnanti sono progettati sistematicamente per discriminare e sorvegliare gli uiguri etnici come un unico gruppo demografico ed etnico, limitare la loro libertà di viaggiare, emigrare e frequentare le scuole e negare altri diritti umani fondamentali di riunione, discorso e adorazione. Le autorità della RPC hanno condotto sterilizzazioni e aborti forzati sulle donne uigure, le hanno costrette a sposare non uigure e hanno separato i bambini uiguri dalle loro famiglie”. Documentazione talmente esaustiva e solida quella nelle mani del Dipartimento di Stato che, nel febbraio 2021, State Department Lawyers Concluded Insufficient Evidence to Prove Genocide in China (Gli avvocati del Dipartimento di Stato hanno concluso prove insufficienti per dimostrare il genocidio in Cina) così come titolava un articolo apparso sulle pagine online della rivista Foreign Policy[22]: “l’Ufficio del Consulente Legale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha concluso all’inizio di quest’anno che l’incarcerazione di massa e il lavoro forzato in Cina degli uiguri nello Xinjiang costituiscono crimini contro l’umanità, ma non c’erano prove sufficienti per dimostrare il genocidio, mettendo in contrasto i migliori avvocati diplomatici degli Stati Uniti con entrambe le amministrazioni Trump e Biden, secondo tre ex e attuali funzionari statunitensi”. Quindi, l’ufficio di consulenza Legale del Dipartimento di Stato è dell’opinione che non ci siano abbastanza prove e, inoltre, ci sono stati dei vizi procedurali per designare come genocidioquel che si vorrebbe far credere accada nello Xinjiang; ma il Presidente Biden e il Segretario di Stato Blinken – e gli interessi che li sostengono – hanno deciso di cementare ulteriormente e dare forza alla narrazione della precedente Amministrazione Trump tirando dritto verso una sentenza che si vuole ferma, inappellabile e indiscutibile: è un genocidio.

Sulla decisione di Mike Pompeo, assecondata dall’attuale Amministrazione statunitense, riflette Alfred De Zayas, avvocato, scrittore, storico, esperto nel campo dei diritti umani e del diritto internazionale e funzionario delle Nazioni Unite in pensione: “L’accusa di Mike Pompeo secondo cui la Cina stava commettendo un genocidio nello Xinjiang non era supportata nemmeno da un accenno di prove. È stato un esempio particolarmente irresponsabile di atteggiamento ideologico al suo peggio, e inoltre, un abbraccio di geopolitica avventata. Ecco perché è così scioccante per noi che il rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti del 2021 ripeta l’accusa di “genocidio” nel suo riassunto esecutivo, ma non si preoccupi nemmeno di menzionare un’accusa così provocatoria nel corpo del rapporto. Questa è un’accusa irresponsabile, irragionevole, non professionale, controproducente e, soprattutto, pericolosamente incendiaria, che potrebbe facilmente sfuggire al controllo se la Cina dovesse scegliere di rispondere in natura. La Cina sarebbe su un terreno più solido di Pompeo o del Dipartimento di Stato se dovesse accusare gli Stati Uniti di “continuo genocidio” contro le prime nazioni delle Americhe, Cherokee, Sioux, Navajo e molte altre nazioni tribali. Possiamo solo immaginare il contraccolpo rabbioso se fosse stata la Cina a essere la prima a parlare di genocidio; Genocidio che per lo stesso De Zayas “è un termine ben definito nel diritto internazionale – nella Convenzione sul genocidio del 1948 e nell’articolo 6 dello Statuto di Roma. I tribunali internazionali più rispettati hanno concordato separatamente che la prova del crimine di genocidio dipende da una presentazione estremamente convincente di prove fattuali, compresa la documentazione di un intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico nazionale, razziale o religioso […]; l’uso improprio della parola genocidio è sdegnoso nei confronti dei parenti delle vittime dei massacri armeni, dell’Olocausto, del genocidio ruandese – e anche un disservizio alla storia, al diritto e alla condotta prudente delle relazioni internazionali. Sapevamo già di essere alla deriva in un oceano di fake news. È molto più pericoloso scoprire che anche noi rischiamo di essere immersi nelle acque turbolente della “falsa informazione”. Dobbiamo respingere con un senso di urgenza. Un tale sviluppo non è tollerabile. Pensavamo che l’elezione di Biden ci avrebbe risparmiato da minacciose corruzioni del linguaggio come quelle diffuse da Donald Trump, John Bolton e Mike Pompeo. Pensavamo che non saremmo più stati soggetti ad accuse prive di prove, post-verità e ciniche intrugli di fatti. Ora sembra che ci sbagliassimo[23]”.

Il Governo degli Stati Uniti sta intensificando la sua retorica contro la Cina secondo cui è in corso un genocidio contro il popolo uiguro nella Regione dello Xinjiang al fine di alzare la pressione nei confronti di Pechino. Queste accuse sono molto gravi, ma nella logica del campo anti-cinese non devono esserci discussioni, non devono esserci dubbi sul fatto che la Cina si è macchiata – e si sta macchiando – di quello che viene considerato comunemente il crimine supremo. Già nell’ottobre del 2020, il fedelissimo e remissivo Canada, alleato sottomesso alle politiche egemoniche di Washington, aveva effettuato una grande fuga in avanti quando la Sottocommissione per i Diritti Internazionali dell’Uomo aveva audacemente riconosciuto come vero e proprio genocidio quello che sta accadendo agli uiguri: “Il sottocomitato condanna inequivocabilmente la persecuzione degli uiguri e di altri musulmani turchi nello Xinjiang da parte del Governo cinese. Sulla base delle prove presentate durante le audizioni della sottocommissione, sia nel 2018 che nel 2020, la sottocommissione è persuasa che le azioni del Partito comunista cinese costituiscano un genocidio come stabilito nella Convenzione sul genocidio”.

Alle voci d’Oltreoceano si è unita recentemente quella di Londra: la Commissione affari esteri della House of Commons il 29 giugno 2021 ha pubblicato un report dal titolo Never Again. The UK’s Responsibility to Act on Atrocities in Xinjiang and Beyond nella cui introduzione si legge che “i crimini commessi contro gli uiguri e altri gruppi etnici nella regione autonoma uigura dello Xinjiang (XUAR) sono davvero terrificanti. Il Governo cinese è responsabile della detenzione di massa di oltre un milione di uiguri, per averli costretti a programmi di lavoro forzato su scala industriale e per aver tentato di annientare gli uiguri e la cultura islamica nella regione attraverso la sterilizzazione forzata delle donne, la distruzione di siti culturali e la separazione dei bambini dalle famiglie. Il Governo del Regno Unito non è impotente. Il sistema internazionale, disegnato nell’ombra delle peggiori violazioni dei diritti umani immaginabili, ha costruito istituzioni come l’ONU per rispondere a crisi come questa. Attraverso la regolamentazione del settore privato e attuando regole più severe per le imprese che potrebbero altrimenti trarre profitto dal lavoro forzato, possiamo aiutare a prevenire gli abusi. Fornendo un maggiore sostegno e garanzie per gli uiguri e la conservazione della loro cultura, possiamo proteggerli da atti che la Camera dei Comuni ha dichiarato costituiscono crimini contro l’umanità e il genocidio. Affilando i sistemi del Governo per prevedere e prevenire le atrocità di massa, abbiamo opzioni per stare con gli indifesi contro l’indifendibile.

Le atrocità nello Xinjiang sono un appello internazionale all’azione; ancora una volta, mostrano che attori potenti sono in grado di opprimere impunemente le persone all’interno del loro territorio. In questo rapporto, forniamo un modello di responsabilità nei confronti di una grande potenza che sta commettendo atrocità di massa. Ci teniamo a sottolineare che l’efficacia di ogni azione delineata in questo rapporto sarà notevolmente amplificata se adottata di concerto con altri Paesi. Alla base di tutto questo rapporto c’è il punto di vista che il Governo deve cercare di costruire coalizioni d’azione sullo Xinjiang attraverso ogni possibile via […]. Al Sottocomitato è stato ricordato che la protezione può assumere molte forme. Ciò include l’uso di sanzioni[24]”.

Sanzioni che sono arrivate contemporaneamente e da più parti nel marzo del 2021, quando i Paesi membri dell’Unione Europea, Lituania e Repubblica Ceca si sono associati a Stati Uniti, Canada e Regno Unito; quello che conta qui focalizzare, come fa notare la rivista di geopolitica Limes[25], è il fatto che intorno alla decisione di imporre sanzioni, evidentemente coordinate, alla Cina Washington intende coreografare una compattezza occidentale nell’edificazione di blocchi contrapposti nello scontro Usa-Cina, sempre più globale, sempre più ramificato e che sempre più obbliga a prendere una posizione; tendenza emersa nel 2019, nel corso della 41esima sessione ordinaria, la formazione di blocchi contrapposti e scelte di campo nette sembrano, ormai, essersi cristallizzate anche nell’assemblea del Human Rights Council delle Nazioni Unite trasformatasi in un campo di battaglia ideologico tra gli alleati della Repubblica Popolare Cinese e quelli di Washington; tra questi il Canada, che per bocca del proprio rappresentante Leslie E. Norton, in apertura della 47esima sessione ordinaria tenutasi a Ginevra, ha presentato una dichiarazione congiunta firmata da 44 Paesi in cui veniva manifestata una preoccupazione per la situazione dei diritti umani nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang e venivano giudicati credibili i rapporti indicanti che oltre un milione di persone sono state detenute arbitrariamente nello Xinjiang e che esiste una sorveglianza diffusa che prende di mira in modo sproporzionato uiguri e membri di altre minoranze e restrizioni alle libertà fondamentali e alla cultura uigura. Ci sono anche segnalazioni di torture o trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti, sterilizzazione forzata, violenza sessuale e di genere e separazione forzata dei bambini dai genitori da parte delle autorità […]. Esortiamo la Cina a consentire un accesso immediato, significativo e senza restrizioni allo Xinjiang per osservatori indipendenti, compreso l’Alto Commissario, e ad attuare urgentemente le 8 raccomandazioni del Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale relative allo Xinjiang, anche ponendo fine alla detenzione arbitraria di uiguri e membri di altre minoranze musulmane. Infine, continuiamo a essere profondamente preoccupati per il deterioramento delle libertà fondamentali a Hong Kong ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale e per la situazione dei diritti umani in Tibet. Invitiamo le autorità cinesi a rispettare i loro obblighi in materia di diritti umani”. I firmatari della dichiarazione canadese sono prevalentemente le democrazie sviluppate del Nord America, Europa e Asia-Pacifico, Paesi che nella loro azione palesano forti preoccupazioni geopolitiche nei confronti della Cina[26].

Nel corso della medesima sessione, è stata presentata dal rappresentante della Bielorussia un’ulteriore dichiarazione congiunta, firmata da 69 Paesi, in cui si richiedeva un esplicito “rispetto della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale degli Stati e la non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani rappresentano norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali. Le questioni relative a Hong Kong, Xinjiang e Tibet sono affari interni della Cina che non tollerano interferenze da parte di forze esterne. Sosteniamo l’attuazione da parte della Cina di “un Paese, due sistemi” nella Regione amministrativa speciale di Hong Kong. Riteniamo che tutte le parti debbano attenersi agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e ai principi di universalità, imparzialità, obiettività e non selettività, rispettare il diritto delle persone di ogni Stato di scegliere in modo indipendente la via per lo sviluppo dei diritti umani in conformità con le loro condizioni nazionali e trattano tutti i diritti umani con la stessa enfasi. Chiediamo a tutti gli Stati di sostenere il multilateralismo, la solidarietà e la collaborazione e di promuovere e proteggere i diritti umani attraverso il dialogo costruttivo e la cooperazione. Ci opponiamo alla politicizzazione dei diritti umani e ai doppi standard. Ci opponiamo inoltre alle accuse infondate contro la Cina basate su motivazioni politiche, sulla disinformazione e sull’interferenza negli affari interni della Cina con il pretesto dei diritti umani”.

Interessante notare che molti dei Paesi islamici[27] – contrariamente a quanto l’Occidente avrebbe dovuto aspettarsi visto la tematica affrontata – hanno preso una posizione a favore della Cina: il sostegno delle popolazioni musulmane a Pechino e contro le accuse di presunto genocidio contro una popolazione musulmana dello Xinjiang, è stato spiegato in modo sbrigativo come un fenomeno prodotto dal Governo dell’uomo forte con connotazioni autoritarie che caratterizza molte nazioni MENA, OIC e dell’Asia centrale. Invece, un sondaggio ha riscontrato che ci sono valutazioni costantemente positive sulla Cina e sull’operato di Xi Jinping anche quando il sostegno agli Stati Uniti è aumentato tra sette Paesi MENA. Il pubblico arabo vede costantemente gli Stati Uniti come una minaccia economica più grande della Cina. In 13 Paesi arabi, il 58% ha giudicato negativamente la politica degli Stati Uniti nei confronti della regione, mentre la maggioranza ha espresso un’opinione positiva sulla politica estera della Cina. La conclusione a cui si può giungere è che respingere il sostegno del mondo musulmano alla Cina, classificandolo come un prodotto dell’illiberalismo, può convalidare la narrativa cinese secondo cui i diritti umani sono ideali occidentali individualisti utilizzati per infiltrarsi e soggiogare Stati altrimenti sovrani.

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Già nel corso della precedente sessione ordinaria del Human Rights Council (46 esima), Cuba aveva presentato una nota congiunta firmata da 64 Paesi in cui si invitavano alcune forze a smettere di accusare in maniera infondata la Cina per motivazioni politiche, ribadendo che tutte le parti dovrebbero, invece, promuovere e proteggere i diritti umani attraverso un dialogo e una cooperazione costruttivi e opporsi fermamente alla politicizzazione dei diritti umani e ai doppi standard, ed elogiando la filosofia incentrata sulle persone che il Governo cinese persegue e i risultati che la Cina ha realizzato nella sua causa per i diritti umani. La dichiarazione affermava, inoltre, che “lo Xinjiang è una parte inseparabile della Cina. Esortiamo le parti interessate a rispettare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, a smettere di interferire negli affari interni della Cina manipolando questioni relative allo Xinjiang, ad astenersi dal fare accuse infondate contro la Cina per motivazioni politiche e frenare lo sviluppo dei Paesi in via di sviluppo con il pretesto dei diritti umani”.

Il 24 settembre, nel corso della 48esima sessione ordinaria (13 settembre – 8 ottobre 2021), è stato il Pakistan, parlando a nome di 65 Paesi, a prendere le difese dell’operato di Pechino con una dichiarazione congiunta attraverso la quale si è inteso denunciare le continue interferenze negli affari interni della Repubblica Popolare con il pretesto dei diritti umani, sottolineando che il rispetto della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale degli Stati e la non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani rappresentano norme fondamentali che disciplinano le relazioni internazionali. Le questioni relative a Hong Kong, Xinjiang e Tibet sono affari interni della Cina che non tollerano interferenze da parte di forze esterne. La dichiarazione congiunta afferma, inoltre, che “tutte le parti dovrebbero attenersi agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e ai principi di universalità, imparzialità, obiettività e non selettività, rispettare il diritto del popolo di ciascuno Stato di scegliere in modo indipendente il percorso per lo sviluppo dei diritti umani in conformità con le loro condizioni nazionali e trattare tutti i diritti umani con la stessa enfasi”, ed invita tutti gli Stati a sostenere il multilateralismo, la solidarietà e la collaborazione e a promuovere e proteggere i diritti umani attraverso un dialogo e una cooperazione costruttivi. La dichiarazione congiunta sottolinea che i 65 Paesi si oppongono alla politicizzazione dei diritti umani e ai doppi standard e si oppongono anche alle accuse infondate contro la Cina per motivazioni politiche e basate sulla disinformazione e l’interferenza negli affari interni della Cina con il pretesto dei diritti umani[28].

Tali dichiarazioni mettono in evidenza il fatto che dietro alle sempre meno credibili accuse di genocidio perpetrato nei confronti della popolazione uigura dello Xinjiang si celano motivazioni geopolitiche di egemonia imperiale dell’Occidente; il primo caposaldo da tenere sempre fermo in mente quando approcciamo allo Xinjiang è quello che rimanda ad un vecchio adagio cinese: “Se lo Xinjiang è perduto, la Mongolia è indifendibile e Pechino è vulnerabile”. Questoantico precettoriassume perfettamente l’importanza strategica dello Xinjiang la cui straordinaria collocazione geografica – è confinante con Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan e Kashmir indiano – lo rende importante dal punto di vista geopolitico. In ottica occidentale, come ben scrive Andre Vltchek, “il “problema” è che Urumqi, nello Xinjiang, si trova nel ramo principale della BRI (Belt and Road Initiative) – un progetto estremamente ottimista e internazionalista pronto a connettere miliardi di persone in tutti i continenti. Il BRI è un progetto infrastrutturale e culturale, che presto tirerà fuori dalla povertà e dal sottosviluppo centinaia di milioni di persone. Washington è inorridita dal fatto che la Cina stia assumendo un ruolo guida nella costruzione di un futuro molto più luminoso per l’umanità.

È perché, se la Cina avrà successo, potrebbe essere la fine dell’imperialismo occidentale e del neocolonialismo, portando alla vera libertà e indipendenza per dozzine di nazioni finora sofferenti. Pertanto, Washington ha deciso di agire, al fine di preservare lo status quo e il suo dominio sul mondo. Primo passo: inimicarsi, provocare e diffamare la Cina con tutti i mezzi, che si tratti di Hong Kong, Taiwan, del Mar Cinese Meridionale o della suddetta “questione uigura”.

Secondo passo: cercare di trasformare una parte della minoranza nazionale cinese costituzionalmente riconosciuta – gli uiguri – in “ribelli”, o più precisamente, terroristi.

Inutile dire che l’Afghanistan ha un confine breve ma importante con la Cina.

Perché tutta questa complessa operazione? La risposta è semplice: la NATO/Washington/Occidente sperano che i combattenti jihadisti uiguri induriti e ben addestrati alla fine tornino a casa nello Xinjiang. Lì, avrebbero iniziato a combattere per l’”indipendenza” e, nel farlo, avrebbero sabotato la BRI. In questo modo, la Cina verrebbe ferita e il suo progetto globale più potente (BRI) verrebbe interrotto.

Il Governo cinese è, naturalmente, allarmato.

È chiaro che l’Occidente ha preparato una trappola geniale:

1) Se la Cina non fa nulla, dovrà affrontare una minaccia terroristica estremamente pericolosa sul proprio territorio (ricordate che l’Unione Sovietica è stata trascinata in Afghanistan e colpita mortalmente da mujahedeen addestrati, finanziati e sostenuti dall’Occidente, il quale ha una lunga storia nell’usare l’Islam per i suoi machiavellici disegni).

2) Se la Cina fa qualcosa per proteggersi, verrà attaccata dai media e dai politici occidentali. Proprio questo è ciò che sta accadendo ora. Tutto è pronto, preparato […].

Qual è il vero scopo di tali atti? La risposta è facile da definire: è che la decisa riluttanza degli Stati Uniti a condividere l’influenza sul mondo, con altri Paesi molto più umanisti, come la Cina; è la sua riluttanza a competere sulla base di grandi idee e buona volontà. Più la politica estera degli Stati Uniti diventa nichilista, più accusa gli altri di “omicidio”. Il modo in cui funzionano le cose è semplice: Washington crea qualche terribile conflitto, da qualche parte. Quando la vittima-Paese tenta di risolvere il conflitto, e per così dire di “spegnere il fuoco”, viene accusata di “violazione dei diritti” e viene stroncata dalle sanzioni[29]”.

Torniamo, però, sulla decisione del Canada: interessante – perché rivelatrice dei reali motivi che soggiaciono a tale dichiarazione – è la parte finale del comunicato stampa con cui la decisione è stata resa nota; è importante che la risposta segua i dettami della dottrina Responsability 2 Protect e che per il Governo del Canada oltre che condannare le azioni del Governo cinese contro gli uiguri e altri musulmani turchi nello Xinjiang, “fornire sostegno attraverso l’assistenza allo sviluppo internazionale all’estero alle organizzazioni della società civile, specialmente nei Paesi che sono geopoliticamente importanti per la Belt and Road Initiative della Cina […]. Il Canada ha la responsabilità di proteggere gli uiguri e altri musulmani turchi in base alla norma internazionale che ha contribuito a stabilire, la Responsabilità di Proteggere, il cui obiettivo è garantire che la comunità internazionale prevenga atrocità di massa crimini di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità[30]”.

Sanzioni, geopolitica e Responsabily 2 Protect (R2P), principio stabilito nel 2005 nel corso dei lavori del World Summit delle Nazioni Unite; la responsabilità di proteggere si andava ad innestare sui principi base della protezione dei diritti umani che si era cominciato a delineare nel 1948 con la Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio e, nel 1949, con le quattro convenzioni di Ginevra e prevede che si debba intervenire in difesa dei diritti umani fondamentali e per evitare che un qualsiasi Stato possa commettere gravi violazioni contro la popolazione[31]. Gli articoli che stabiliscono i principi della responsability to protect sono stati interpretati talvolta come una giustificazione all’ingerenza esterna negli affari interni di uno Stato sovrano, coprendo con il pretesto della guerra umanitariaun tentativo di “regime-change”.

Nel Millennium Report del 2000 su “il ruolo delle Nazioni Unite nel ventunesimo secolo”, l’allora Segretario Generale Kofi Annan invitava ad affrontare il dilemma dell’intervento: “pochi tra voi non saranno d’accordo sul fatto che tanto la difesa dell’umanità, quanto la difesa della sovranità nazionale rappresentino dei principi che debbono essere difesi. Purtroppo, questa constatazione non ci dice quale principio debba avere la meglio quando essi sono in conflitto. L’intervento umanitario è davvero un tema delicato, che presenta serie difficoltà politiche e che non è suscettibile di ottenere risposte semplici. Ma, di sicuro, nessun principio legale – neanche la sovranità nazionale – potrà mai fungere da scudo per i crimini contro l’umanità. Nel caso in cui vengano compiuti dei crimini di questo genere, e tutti i tentativi pacifici di fermarli siano esauriti, il Consiglio di sicurezza ha il dovere morale di agire in nome della comunità internazionale. Il fatto che noi non siamo in condizione di proteggere le persone ovunque esse si trovino, non costituisce una ragione per non intervenire laddove è possibile. L’intervento armato deve sempre rimanere l’ultima risorsa, ma di fronte agli eccidi di massa è un’opzione cui non possiamo rinunciare a priori”.

Scrive Edward S. Herman, professore emerito di finanza presso la Wharton School, Università della Pennsylvania che “la “responsabilità di proteggere” è una dottrina fasulla progettata per minare le fondamenta stesse del diritto internazionale. È legge riscritta per i potenti “Le strutture e le leggi che sono alla base dell’applicazione di R2P esentano le forze dell’ordine della Grande Potenza dalle leggi e dalle regole che applicano ai poteri minori”. Sia la Responsabilità di Proteggere (R2P) che l’”Intervento Umanitario” (HI) sono venuti all’esistenza sulla scia della caduta dell’Unione Sovietica, che ha posto fine a qualsiasi ostacolo che quella Grande Potenza contestata aveva posto sulla proiezione di potere in corso degli Stati Uniti. Nell’ideologia occidentale, naturalmente, gli Stati Uniti contenevano i sovietici negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ma questa era ideologia. In realtà l’Unione Sovietica è sempre stata molto meno potente degli Stati Uniti, aveva alleati più deboli e meno affidabili, ed è stata essenzialmente sulla difensiva dal 1945 fino alla sua scomparsa nel 1991. Gli Stati Uniti erano aggressivamente in marcia verso l’esterno dal 1945, con la costante diffusione di basi militari in tutto il mondo, numerosi interventi, grandi e piccoli, in tutti i continenti, impegnati nella costruzione del primo impero veramente globale. L’Unione Sovietica era un ostacolo all’espansione degli Stati Uniti, con una potenza militare sufficiente a costituire una modesta forza di contenimento, ma serviva anche alla propaganda statunitense come presunta minaccia espansionistica. Con la morte dell’Unione Sovietica erano necessarie nuove minacce per giustificare la continua e persino accelerata proiezione di potere degli Stati Uniti, ed erano imminenti, dal narco-terrorismo ad Al Qaeda alle armi di distruzione di massa di Saddam alla minaccia terroristica che comprendeva l’intero pianeta terra e il suo spazio esterno. C’era anche una presunta minaccia alla sicurezza globale, basata su lotte etniche interne e violazioni dei diritti umani, che presumibilmente minacciava conflitti più ampi, oltre a presentare alla comunità globale (e al suo poliziotto) un dilemma morale e la richiesta di intervento nell’interesse dell’umanità e della giustizia. Come notato, questa ondata di moralità si è verificata in un momento storico in cui la costrizione sovietica era finita e gli Stati Uniti e i loro stretti alleati stavano celebrando il loro trionfo, quando l’opzione socialista aveva perso vitalità e quando l’Occidente era quindi più libero di intervenire. Ciò richiedeva di superare il principio fondamentale delle relazioni internazionali della Westfalia – che la sovranità nazionale dovrebbe essere rispettata – che se rispettata proteggerebbe i Paesi più piccoli e più deboli dagli attacchi transfrontalieri delle Grandi Potenze. Questa regola è stata incorporata nella Carta delle Nazioni Unite e si potrebbe dire che sia la caratteristica fondamentale di quel documento, descritto dallo studioso di diritto internazionale Michael Mandel come “la costituzione del mondo”. Superare questa regola e la Carta fondamentale spianerebbe il terreno a R2P e HI, ma spianerebbe anche il terreno per un’aggressione classica e diretta nel perseguimento di interessi geopolitici, per i quali R2P e HI potrebbero fornire una copertura utile[32]”.

Il professore Tim Anderson invita a pensare a questa nuova declinazione di intervento umanitario come ad una “invenzione delle grandi potenze che è diventata un tremendo argomento morale per l’intervento – ad esempio – del 2011 in Libia. Quell’intervento, basato su menzogne, è stato un disastro per il popolo libico. Un percorso simile è stato tentato con la Siria, ma non è riuscito. Russia e Cina, in particolare, non erano più disposte a fare il gioco di Washington. Comunque possa sembrare in teoria, in pratica questa R2P è emersa come un nuovo strumento di intervento. Porta grandi pericoli, avendo contribuito a incitare massacri, “false flag” da parte di gruppi armati nella loro ricerca di un maggiore sostegno straniero. Ha anche contribuito a minare il sistema internazionale che, dagli anni Quaranta, è stato fondato su principi di sovranità e non intervento […]. In analisi critica, la prima caratteristica degna di nota della dottrina R2P è che fornisce una nuova logica di intervento per le grandi potenze, comprese le ex potenze coloniali, al fine di “prevenire” i crimini che sono stati tradizionalmente commessi da quelle stesse potenze[33]”.

Non è peregrino, qui, riportare quanto sostiene Marco Pondrelli nel primo capitolo del suo libro Continente Eurasiatico. Tra nuova guerra fredda e prospettive di integrazione: “solo successivamente (al 1989) gli Usa hanno iniziato a ridisegnare il mondo secondo i propri interessi. Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, ancora Iraq, Libia, Siria e Ucraina sono le tappe fondamentali, non uniche di questo percorso. Non accorgersi che dietro questi singoli episodi c’è un disegno complessivo è da ingenui, così come pensare che questi eventi siano figli delle decisioni degli attori locali, i quali non rispettando i diritti umani “costringono” l’Occidente ad intervenire […]. Il disegno strategico degli Usa ha un elemento che i complotti non hanno: è pubblico. Gli obiettivi sono stati dichiarati esplicitamente e pubblicamente, basta aprire gli occhi […]. I nemici di Washington diventano i nemici di tutti da criticare duramente, per cui anche fra chi manifestava contro la guerra in Jugoslavia nel ’99 c’era chi definiva Slobodan Milosevic un dittatore e parlava di genocidio. Questa orrenda mistificazione è stata resa possibile perché si è ignorata la strategia complessiva che teneva assieme i singoli accadimenti[34]”.

Oggi come allora, lo schema di riferimento sembra essere il medesimo anche se sono cambiati gli obiettivi di un disegno complessivo che ha come fine quello di colpire la Cina e anche la Russia cercando di allentare il loro rapporto sempre più stretto. Il crollo dell’Unione Sovietica è stato il momento in cui Washington ha stretto d’assedio l’Eurasia, “la prima vittima è stata – dice Pondrelli – il diritto internazionale. A Washington si decide quali Stati debbano essere attaccati, ovviamente presentando il tutto come una difesa dei diritti umani o esportazione della democrazia[35]”. Scriveva Bull: “portata alla sua estrema logica, la dottrina dei diritti umani e dei doveri in base al diritto internazionale è sovversivo dell’intero principio secondo cui l’umanità dovrebbe essere organizzata come una società di Stati sovrani. Infatti, se i diritti di ogni uomo possono essere fatti valere sulla scena politica mondiale al di sopra e contro le rivendicazioni del suo Stato, e i suoi doveri proclamati indipendentemente dalla sua posizione di servitore o cittadino di quello Stato, allora la posizione dello Stato come un corpo sovrano sui cittadini, e autorizzato a comandare la loro obbedienza, è stato oggetto di sfida e la struttura della società degli Stati sovrani è stata messa a repentaglio. La via è lasciata aperta alla sovversione della società degli Stati sovrani a nome del principio organizzativo alternativo di una comunità cosmopolita[36]”, il cui compito è sempre più demandato a tutta una serie di organizzazioni non governative (ONG) eterodirette ed etero-finanziate. Per quel che riguarda le accuse di genocidio nello Xinjiang, maggior parte delle fonti disponibili sulla persecuzione dei diritti umani nella regione sono collegate al Governo degli Stati Uniti. Scrive Maria Morigi che “quasi tutti i cosiddetti “rapporti credibili[37]” provengono infatti da un gruppo finanziato da Governi occidentali[38]”, soprattutto dalla ormai famigerata National Endowment for Democracy (NED), istituto governativo sostenuto dal Congresso statunitense e creato negli anni Ottanta con lo scopo dichiarato di rendere efficace l’azione delle organizzazioni operanti a favore della democrazia nel mondo con gli obiettivi fissati dalle linee di politica estera di Washington. Non dovrà allora sorprendere se uno di tali rapporti considerati credibili dall’Occidente arrivano alla conclusione che la leadership cinese sia pienamente responsabile di genocidio nei confronti della popolazione uigura e che il suo intento dichiarato sia di distruggere la componente uigura della popolazione dello Xinjiang, in toto o in una parte sostanziale, e che questo intento sia documentato dai fatti e dalle parole dei rappresentanti di alto rango della leadership cinese, primo su tutti Xi Jinping[39].

Così, negli ultimi mesi, le accuse di genocidio non sono altro che il tentativo con cui l’Occidente sta cercando di capitalizzare gli sforzi di una narrazione anti-cinese con un nuova ondata diffamatoria contro Pechino che si arricchisce di vocaboli come “campo di concentramento”, “lavoro forzato”, “sterilizzazione obbligatoria” lasciando aperta la porta al mezzo estremo dell’intervento militare così come vogliono i dettami della R2P. Ma, come ben pone in evidenza Yi Fan dalle pagine online di ChinaDaily, si può facilmente constatare che la narrazione relativa allo Xinjiang si muove su un playbook che appare familiare, anche troppo. “Pensa all’Iraq e alla Siria. Nel 2003, un alto funzionario degli Stati Uniti ha impugnato la famigerata “provetta” con detersivo” come prova di armi di massa distruzione in corso in Iraq. Non ne hanno mai trovati prima o dopo la guerra, ma ha comunque invaso l’Iraq. Avanti veloce al 2018. Le forze governative siriane erano accusate di aver usato armi chimiche contro la propria gente. I successivi attacchi aerei hanno ucciso molte vite innocenti e sfollato centinaia di migliaia di civili. Ma ancora una volta, le prove di “armi chimiche” non si sono rivelate più nulla di un video in scena diretto dai White Helmets, un gruppo finanziato dalle agenzie di intelligence statunitensi e britanniche. Dietro tutto questo c’è una chiara strategia di “diffamare, destabilizzare e distruggere” impiegata per far avanzare gli interessi geopolitici di alcuni Paesi occidentali. Ad esempio, non è un segreto che il Governo degli Stati Uniti abbia a lungo sponsorizzato istituzioni come il National Endowment for Democracy per diffamare qualsiasi Paese o entità percepita come una minaccia e aprire la strada a conseguenti sanzioni e ulteriori azioni, fino al cambio di regime. Anche il loro attacco allo Xinjiang si adatta a questo schema. La Cina è ora la seconda economia più grande del mondo. Sta lavorando con i suoi partner Belt and Road in tutto il mondo per vantaggi condivisi. Aggiungendo il fatto che la Regione autonoma dello Xinjiang è una porta d’accesso alla Belt and Road Initiative, come possono alcuni Paesi occidentali non interessarsi in modo particolare allo Xinjiang? […]. Sullo Xinjiang, chiedi semplicemente questo: quando la popolazione uigura cresce effettivamente più velocemente della popolazione han e quando l’aspettativa di vita media degli uiguri è aumentata da 30 a 72 anni negli ultimi sei decenni, come può qualcuno con la mente giusta chiamarlo genocidio? Lo Xinjiang ha fatto molta strada nel suo sviluppo. Ancora più importante, per una regione che in passato ha visto frequenti attacchi terroristici, non c’è stato un solo attacco negli ultimi quattro anni. Grazie a una serie di programmi a favore del lavoro e di riduzione della povertà, il numero di persone occupate nello Xinjiang è cresciuto di quasi 2 milioni, o del 17,2%, dal 2014 al 2019. Con tutti i restanti 3 milioni di poveri che si sono liberati dalla povertà, lo Xinjiang è pronto ad abbracciare un futuro ancora migliore. Alcune forze in Occidente non smetteranno mai di manipolare la narrativa sullo Xinjiang. Quindi cosa si può fare per contrastare questa falsa narrativa? Esattamente ciò che la Cina sta facendo è: costruire una comunità di futuro condiviso per l’umanità, difendere la pace, lo sviluppo, l’equità, la giustizia, la democrazia e la libertà e promuovere la cooperazione e gli interessi condivisi per tutti. A differenza dei “valori universali” propagandati da alcuni Paesi occidentali, questi sono i valori condivisi da tutta l’umanità e rappresentano gli interessi di tutti i popoli. La narrativa occidentale impallidisce davanti alla realtà e non distrarrà il popolo cinese dall’importante compito dello sviluppo. Stando dalla parte giusta della storia, la Cina può evitare ed eviterà la trappola narrativa’[40]”.

Se è vero che la macrocausa o ragione incontestabile è, quindi, funzionale a valutare in modo interessato un’azione compiuta da chi si vuole svalutare influenzando l’opinione pubblica e orientandone il giudizio verso l’aspetto negativo messo a coprire i successi del Paese/Governo/leader/istituzione/partito che si vuole screditare, da evitare è il fatto che la narrazione del presunto genocidio degli uiguri offuschi quanto di buono le politiche messe in atto da Pechino hanno apportato alle condizioni di vita della popolazione della Regione autonoma della Repubblica Popolare: “lo Xinjiang protegge i diritti umani attraverso lo sviluppo e si sforza di sradicare la povertà attraverso l’istruzione e la formazione, lo sviluppo delle capacità e l’occupazione. Previene e colpisce efficacemente il terrorismo e l’estremismo, e allo stesso tempo mantiene la stabilità sociale e migliora la vita delle persone, con la sua popolazione impoverita e l’incidenza della povertà notevolmente ridotta. Dal 2013 alla fine del 2019, lo Xinjiang ha spazzato via la povertà in 25 contee povere e 3.107 villaggi poveri e l’incidenza della povertà è scesa dal 19,4 per cento all’1,24%. Dal 2014 alla fine del 2019, un totale di 2,92 milioni di persone provenienti da 737.600 famiglie si sono scrollate di dosso la povertà. Entro la fine del 2020, la povertà sarà completamente eliminata nello Xinjiang. Lo Xinjiang ha elaborato un nuovo approccio per affrontare alcune delle sfide globali: proteggere i diritti umani combattendo il terrorismo e l’estremismo e perseguire lo sviluppo sostenibile eliminando la povertà. Per anni, alcune forze internazionali, colpevoli di pregiudizi ideologici e prevenute contro la Cina, hanno applicato due pesi e due misure nello Xinjiang, criticando “violazioni dei diritti umani” ignorando gli enormi sforzi compiuti dallo Xinjiang per proteggere i diritti umani. Hanno inventato fatti per sostenere le loro false affermazioni di “lavoro forzato” nello Xinjiang e hanno diffamato il lavoro del governo locale sull’occupazione e sulla sicurezza del lavoro. I loro atti equivalgono a negare il fatto che la popolazione locale nello Xinjiang goda del diritto al lavoro, aspiri a uscire dalla povertà e dall’arretratezza e stia lavorando per raggiungere tale obiettivo. Tale accusa infondata sarebbe fortemente osteggiata da tutti coloro che apprezzano la giustizia e il progresso. Il rispetto e la tutela dei diritti umani sono principi sanciti dalla Costituzione cinese”.

Possiamo prendere, quindi, a prestito le parole di Chen Xu, rappresentante permanente della Cina presso l’Ufficio di Ginevra delle Nazioni Unite, che ha affermato con fermezza che le accuse di genocidio avanzate contro Pechino sono da considerarsi come la menzogna del secolo. Sì, perché, la Regione autonoma dello Xinjiang si sta aprendo ad un periodo di prosperità senza precedenti che ha già portato a notevoli risultati nello sviluppo economico e sociale e nel miglioramento dei mezzi di sussistenza delle persone. “Tuttavia – ha osservato lo stesso Chen – alcuni Paesi e alcune forze, al sinistro scopo di contenere lo sviluppo della Cina e minare la sicurezza e la stabilità della Cina, continuano a pubblicizzare questioni relative allo Xinjiang, interferendo negli affari interni della Cina e diffondendo false informazioni”. Gli fa eco Zheng Zeguang, ambasciatore nel Regno Unito secondo cui le dicerie non cancelleranno i progressi complessivi dello Xinjiang. I tentativi di distruggere la stabilità e la prosperità dello Xinjiang sono destinati a fallire. Lo Xinjiang continuerà a ottenere un successo ancora maggiore nel suo sviluppo economico e sociale negli anni a venire […]. Il gruppo etnico uiguro è un membro della grande famiglia della nazione cinese. Nessuno si preoccupa più del Governo cinese dello sviluppo nello Xinjiang e del benessere delle persone lì. Come ha affermato il presidente Xi Jinping, tutti i gruppi etnici della Cina sono fratelli e sorelle di un’unica grande famiglia unita; sono strettamente legati come i semi di melograno e si soccorrono l’un l’altro quando serve; nessun gruppo etnico dovrebbe essere lasciato indietro mentre costruiamo un Paese socialista moderno in modo globale. Il Governo cinese rimane fermo nella sua determinazione ad attuare le politiche pertinenti sullo Xinjiang. Continueremo a promuovere lo sviluppo di alta qualità, la solidarietà etnica e il progresso sociale, e a migliorare la vita delle persone nello Xinjiang, in modo che le persone di tutti i gruppi etnici della regione possano godere di una vita felice […] Voglio sottolineare che le cosiddette questioni relative allo Xinjiang non hanno nulla a che fare con i diritti umani, i gruppi etnici o le religioni, ma hanno a che fare con la lotta al terrorismo, al separatismo e all’estremismo. I centri di istruzione e formazione professionale nello Xinjiang non sono assolutamente “campi di concentramento”, ma misure preventive e di deradicalizzazione. In natura, non sono diversi dal Programma di disimpegno (DDP) del Regno Unito o dai centri di deradicalizzazione in Francia.

Il fatto è che nello Xinjiang sono stati raggiunti notevoli risultati nello sviluppo economico e sociale, e quindi le politiche del Governo hanno ottenuto il pieno sostegno delle persone di tutti i gruppi etnici della regione, compresi gli uiguri. Negli ultimi 40 anni e più, il reddito disponibile medio dei residenti dello Xinjiang è cresciuto a un tasso annuo di oltre il 12%. Negli ultimi due anni, il tasso di crescita del PIL dello Xinjiang è stato del 6,5% e nella prima metà di quest’anno il PIL dello Xinjiang ha raggiunto i 732,89 miliardi di yuan (circa 96 miliardi di euro, ndt), con un aumento del 9,9% su base annua.

L’accusa di “genocidio” è ancora più assurda. Negli ultimi 40 anni, la popolazione di uiguri nello Xinjiang è aumentata da 5,55 milioni a 11,6 milioni. L’aspettativa di vita per gli uiguri è aumentata da 30 a 72 anni negli ultimi 60 anni. Cos’altro è più lontano dal “genocidio”? Dire che c’è “genocidio” o “lavoro forzato” nello Xinjiang è totalmente infondato e mal motivato. Usarlo come pretesto per imporre restrizioni o sanzioni alle relazioni commerciali ed economiche con la Cina è assolutamente sbagliato. Tale azione incontrerebbe la nostra ferma opposizione e le nostre contromisure. Quando si tratterà di questioni riguardanti la nostra sovranità, integrità territoriale, sicurezza e benessere del popolo, la Cina sarà molto ferma. E tale restrizione o sanzione tornerebbe inevitabilmente indietro a perseguitare i colpevoli e a ferire il loro stesso interesse[41]”.

Perché, l’Occidente dovrebbe almeno mostrare rispetto per il diritto internazionale smettendo di sminuire il significato della parola “genocidio” e cessando, al contempo, di trattare i diritti umani come strumenti geopolitici di conflitto. Tale comportamento irresponsabile può calmare i nervi e modellare una facciata di unità basata sul dipingere la Cina come il nuovo “impero del male”, ma è uno stratagemma di politica estera che dovrebbe essere respinto in quanto sembra una ricetta per il disastro globale.

NOTE AL TESTO

1 Shaun Rein, Gli Stereotipi occidentali sulla Cina in Fabio Massimo Parenti, La Via Cinese. Sfide per un futuro condiviso, Melteni Editore, Milano, 2021.

2 La macrocausa o ragione superiore e incontestabile serve anche a svalutare le eventuali critiche verso una scelta interessata (es. “Mario Bianchi è politicamente inconsistente ed incapace di governare un Paese, ma è molto attivo nel campo del sociale e del volontariato”).

3 CIIC, SCIO briefing on Xinjang’s development, Pechino, 31/7/2019.

4 The State Council Information Office in the People’s Republic of China, Employment and labour rights in Xinjiang, settembre 2020.

5 Lo Xinjiang applica rigorosamente la Costituzione e le leggi e i regolamenti nazionali pertinenti, tra cui la legge sull’autonomia etnica regionale, la legge sulla lingua cinese parlata e scritta standard e i regolamenti sugli affari religiosi. Il governo locale rispetta e garantisce pienamente il diritto dei lavoratori di tutti i gruppi etnici alla libertà di credo religioso e assicura che nessuna organizzazione o individuo interferisca con tale libertà. Pur promuovendo il cinese parlato e scritto standard in conformità con la legge, lo Xinjiang rispetta e protegge pienamente i diritti dei lavoratori delle minoranze etniche di utilizzare la propria lingua parlata e scritta e garantisce che i lavoratori possano scegliere quali lingue utilizzare per la comunicazione. Le usanze dei lavoratori di tutte le etnie sono pienamente rispettate e garantite e si cerca di creare per loro un buon ambiente di lavoro e di vita.

6 La trattazione di questo argomento sarà riservato l’articolo Xinjiang: alla base delle accuse alla Cina di prossima pubblicazione.

7 Maria Morigi, Xinjiang “Nuova frontiera”. Tra antiche e nuove vie della Seta, Anteo Edizioni, Cavriago, 2019, p. 180.

8 Stralcio del testo della legge riportato in Maria Morigi, op. cit., pp. 180 – 181.

9 AA. VV., Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace, pp. 24 – 25., Rapporto “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace” promosso dal Cesem con EURISPES e Istituto Diplomatico Internazionale – Centro Studi Eurasia e Mediterraneo (cese-m.eu).

10 W. Li, Cina e antiterrorismo. Il metodo cinese nella cooperazione internazionale contro il terrorismo, Anteo Edizioni, Cavriago, 2019, pp. 177 – 178.

11 Xi Jinping, Dottrina del Socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era, 25.10.2017.

12 Yellow Peril: 19th-Century Scapegoating – Workshop degli scrittori asiatici americani, (aaww.org).

13 Fabio Massimo Parenti, La Via Cinese. Sfide per un futuro condiviso, Melteni Editore, Milano, 2021, pp. 17 – 24.

14 The Transnational Foundation for Peace & Future Research, Behind the smokescreen. An analysis of the West’s destructive China Cold War Agenda and why it must stop, p. 7.

15 (67) Listen to the Truth about Xinjiang – YouTube.

16 Fabio Massimo Parenti, op. cit., pp. 112-113.

17 Mike Pompeo – China Policy Address at the Nixon Library (transcript-audio-video) (americanrhetoric.com).

18 Fabio Massimo Parenti, op. cit., pp. 24-25.

19 Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, Dinamiche e dati della popolazione dello Xinjiang, consultabile e scaricabile in lingua italiano al seguente indirizzo Cina: il rapporto demografico sullo Xinjiang smentisce “la menzogna del secolo” – Centro Studi Eurasia e Mediterraneo (cese-m.eu).

20 La decisione di Pompeo di accusare Pechino di genocidio è stata presa di comune accordo con il Segretario di Stato scelto da Biden, Anthony Blinken, che nell’occasione affermò di essere d’accordo con la “designazione di genocidio” alcuni giorni prima di assumere l’incarico. Il 19 gennaio ha poi affermato che l’ex presidente Donald Trump ha fatto bene ad adottare un approccio più duro verso il regime cinese. Quando gli è stato domandato se fosse d’accordo con la valutazione del segretario di Stato uscente Mike Pompeo circa le azioni del PCC, Blinken ha risposto: «Questo sarebbe anche il mio giudizio […] Penso che siamo molto d’accordo. La costrizione di uomini, donne e bambini nei campi di concentramento, il tentativo di rieducarli perché siano seguaci dell’ideologia del Partito Comunista Cinese, tutto questo indica uno sforzo per commettere un genocidio». Cfr. Biden concorda con Trump: il regime cinese ha commesso un genocidio contro gli uiguri, “Epoch Times Italia”.

21 Michael R. Pompeo, Determinazione del Segretario di Stato sulle atrocità nello Xinjiang, http://campconstitution.net/determination-of-the-secretary-of-state-on-atrocities-in-xinjiang/

22 State Department Lawyers Concluded China Committed Crimes Against Humanity in Xinjiang but Not Enough Proof to Prove Genocide in a Court of Law, (foreignpolicy.com).

23 Reflections on Genocide as the Ultimate Crime – CounterPunch.org.

24 Committee News Release – October 21, 2020 – SDIR (43-2) – House of Commons of Canada (ourcommons.ca).

25 Notizie dal mondo oggi 23 marzo: sanzioni alla Cina, Lavrov – Limes (limesonline.com).

26 Bisogna qui rilevare omissioni notevoli. Sia la Turchia che il Kazakistan non hanno firmato nessuna delle due dichiarazioni, nonostante i legami culturali con i gruppi perseguitati in Cina. Molteplici nazioni dell’ASEAN, in particolare quelle a maggioranza musulmana e/o che hanno preoccupazioni per il Mar Cinese Meridionale, non si sono allineate con nessuno dei due blocchi. Anche molte delle più grandi economie del mondo sono state assenti, tra cui India e Brasile. La Corea del Sud, che gode di forti legami economici con entrambi ma è politicamente allineata con gli Stati Uniti, si è astenuta dal firmare, come ha fatto Singapore. Infine, quattro membri dell’UE non hanno firmato nessuna dichiarazione: Cipro, Grecia, Ungheria e Malta.

27 La dichiarazione della Bielorussia è stata firmata da 13 Paesi MENA e dalla maggior parte dei Paesi OIC, solo l’Albania ha firmato quella avanzata dal Canada.

28 65 countries express opposition to interference in China’s internal affairs at UN Human Rights Council , “Global Times”.

29 La natura geopolitica delle decisioni sembra essere confermata da Tom Fowdy che, nel commentare l’iniziativa di una sparuta rappresentanza di parlamentari anti-cinesi che ha fatto approvare dalla Camera dei Comuni una mozione non vincolante con la quale si accusa Pechino di “genocidio” nello Xinjiang: “un voto popolare di politici opportunisti non quantifica la verità o i meriti di un “genocidio” – che è probabilmente uno dei crimini più gravi possibili nel diritto internazionale e ha criteri legali rigorosi con una soglia estremamente alta da dimostrare. Non puoi “votare” per dimostrare un genocidio. Questo non è un concorso di popolarità e non dovrebbe essere un fronte per altre motivazioni geopolitiche”. The UK parliamentary ‘genocide’ vote is a complete farce – CGTN.

30 Committee News Release – October 21, 2020 – SDIR (43-2) – House of Commons of Canada (ourcommons.ca).

31 Al World Summit del 2005 in cui, nella risoluzione adottata alla fine dei lavori dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fu previsto un intero paragrafo relativo a questo principio sotto il nome di “Responsibility to protect populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity”.

32 Responsabilità di proteggere” (R2P): uno strumento di aggressione. Dottrina fasulla progettata per minare le fondamenta del diritto internazionale – Global ResearchGlobal Research – Centre for Research on Globalization.

33 “Humanitarian” Military Interventions: Responsibility to Protect (R2P) and the Double Game – Global Research – Centre for Research on Globalization

34 Marco Pondrelli, Continente Eurasiatico. Tra nuova guerra fredda e prospettive di integrazione, Anteo Edizioni, Cavriago, 2021, pp. 24 – 25.

35 Ibidem, p. 25.

36 Hedley Bull, The anarchical society. A study of order in world politics, Columbia University Press, 1977, pp. 146 – 147.

37 Di tali rapporti credibili ci occuperemo distesamente nel prossimo articolo del Focus Xinjiang.

38 Maria Morigi, op. cit., pp. 200-201.

39 Conclusioni a cui arriva il report del Newslines Institute e Raoul Wallenberg Centre For Human Rights, The Uyghur Genocide: an examination of China’s breaches of the 1948 Genocide Convenction.

40 Narrative on Xinjiang a too-familiar playbook – Opinion – Chinadaily.com.cn.

41L’ambasciatore Zheng Zeguang risponde alla stampa sulla questione degli uiguri dello Xinjiang – “Marx21”.

Fonte: http://www.cese-m.eu/cesem/2021/12/genocidio-degli-uiguri-uno-strategemma-di-politica-estera-dietro-la-piu-grande-menzogna-del-xxi-secolo/#sdfootnote19anc

Pubblicato il 07.12.2021

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