GAZA E L'ARMA DEL TRAUMA

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DI NICOLA PERUGINI
ilmanifesto.it

Nell’operazione «Pilastro di difesa» per la prima volta su Twitter, Facebook e Youtube, l’esercito israeliano ha inviato un flusso incessante di messaggi – uniti alle azioni militari – per dimostrare che ad essere traumatizzati sono solo gli israeliani dei villaggi alla frontiera con Gaza. Per giustificare così, sotto l’aura della scientificità, gli omicidi «mirati» e a questo punto «terapeutici».

Il primo tweet dell’esercito israeliano recitava: «Missili innoqui? Un numero sbalorditivo di bambini del sud di Israele soffre di PTSD (Stress post-traumatico)». Pochi minuti dopo: «Foto: bambini e genitori israeliani dormono in un rifugio anti-missile ad Ashkelon, ieri». Chiaramente, l’uso dei social media durante le guerre sta diventando sempre più diffuso. Tuttavia potremmo chiederci: che cosa c’è dietro la strategia comunicativa che ha accompagnato l’operazione «Pilastro di difesa»? E quale politica del trauma è stata messa in gioco?Per un verso, Pilastro di difesa è stata una battaglia su quali eventi potessero essere definiti come «fatti». Attraverso l’uso di Twitter, Facebook e Youtube, l’esercito israeliano ha fornito informazioni sugli attacchi alle persone, le case, gli edifici pubblici e le infrastrutture palestinesi. Per dargli un’aurea di «fatti», gli attacchi sono stati accompagnati dati, immagini, video e statistiche. Altri messaggi hanno invece cercato di convincere il pubblico che gli assalti israeliani sono stati condotti nel rispetto del diritto umanitario internazionale: «VIDEO: #L’aviazione israeliana annulla un attacco dopo avere visto dei civili vicino all’obiettivo #Gaza».

Ma al di là della forma comunicativa che essa ha assunto nell’era dei social media, questa campagna ci dice qualcosa su un altro capitolo della rivendicazione della funzione morale della violenza coloniale. Dobbiamo tenere presente che il fine ultimo di questi messaggi era quello di adornare il presunto diritto di uccidere dell’esercito con un’aurea di moralità – cercando allo stesso tempo di «de-moralizzare» la resistenza del colonizzato. Come in questo tweet: «La strategia di Hamas è semplice: usare i civili come scudi umani. Sparare razzi dalle aree residenziali. Accumulare armi nelle moschee. Nascondersi negli ospedali».

L’esercito israeliano rivendica spesso di essere «l’esercito più morale al mondo». Questa falsa premessa è stata abbondantemente criticata e smentita, ma al fine di mantenere vivo questo lavoro di demistificazione occorre continuare a prestare attenzione alle nuove forme che la mistificazione assume. Durante «Pilastro di difesa», questa rivendicazione di moralità si è saldata con il riferimento al trauma e alle malattie post-traumatiche. Ne emerge un nuovo assemblaggio che lega ricerca di legittimità morale e politiche del trauma.

Uno degli elementi che colpiscono maggiormente di «pilastro di difesa» è il frequente e inusuale riferimento da parte del portavoce dell’esercito israeliano ad alcuni dati sul trauma, come in questo tweet: «Il 75% dei bambini di Sderot, città israeliana bombardata dai missili, soffrono di PTSD». Un link apre un video di Youtube realizzato dall’esercito, in cui le immagini di giovani che cercano un riparo mentre suonano delle sirene vengono montate con alcune interviste. La prima a un militare che afferma: «Nessuno stato democratico accetterebbe una situazione in cui i suoi cittadini soffrono in questo modo». La seconda a un rappresentante delle istituzioni governative di Sderot che cita dei dati sul PTSD tra i bambini. Il sud di Israele viene presentato come una zona soggetta a un’ampia traumatizzazione. I tweet continuano a scorrere, mentre nuovi «omicidi chirurgici» vengono annunciati.

Sarebbe un errore considerare questo riferimento allo stress post-traumatico come un elemento completamente nuovo nel dibattito politico. L’esercito israeliano ha da tempo iniziato a rapportarsi con i suoi soldati attraverso le lenti del PTSD. In maniera più generale, la società israeliana ricorre sempre più alla nozione di stress e all’arsenale discorsivo delle politiche del trauma. Una consistente produzione scientifica è emersa negli ultimi decenni e ha messo in correlazione stress, violenza politica e politiche della violenza all’interno del dibattito pubblico israeliano. Il recente attacco contro Gaza ha messo in luce questa saldatura tra sfera scientifica, pubblica e militare. Per esempio, alcuni articoli su quotidiani importanti come Haaretz hanno accompagnato i tweet dell’esercito israeliano, facendo frequente riferimento a questa produzione scientifica sul PTSD nel sud di Israele.

In questo quadro, e all’interno del flusso di messaggi e azioni militari di «Pilastro di difesa», l’arma clinica del PTSD e la sua aura di scientificità diventano strumenti per la moralizzazione degli omicidi. Come se a questi ultimi fosse possibile offrire una giustificazione morale in quanto strumenti di riduzione e prevenzione del PTSD.

La questione centrale non è quella di negare o dimostrare la presenza del trauma tra gli israeliani che vivono nella prossimità della Striscia di Gaza. Piuttosto, è importante capire come il riferimento a una letteratura scientifica che postula l’esistenza di un trauma diffuso sia trasformato in uno strumento per legittimare l’idea che le vite palestinesi possano essere sacrificate. In questa veste, il trauma assume una sorta di macabra funzione terapeutica.

In molti contesti sociali il trauma e il PTSD sono strumenti utilizzati per rivendicare diritti. Ciò che colpisce in questo caso è che il trauma diventi uno strumento discorsivo e pratico per infliggere una punizione collettiva – il diritto a uccidere e «riformattare» la Striscia di Gaza, come hanno affermato alcuni militari. Non possiamo isolare il trauma dal suo contesto di relazionalità coloniale, e dal suo uso come arma contro la popolazione palestinese. In ultima istanza, l’economia morale della violenza – la distruzione e l’uccisione come «prevenzione della sofferenza» e del «trauma» – svela le forme che i discorsi e le pratiche coloniali possono assumere nel presente coloniale israelo-palestinese, e i differenti valori attribuiti alle vite dei cittadini e dei soggetti coloniali: i traumatizzati da proteggere e i soggetti coloniali sacrificabili.

Nicola Perugini (Institute for Advanced Study, School of Social Science, Princeton/Al Quds-Bard Honors College, Gerusalemme)

Fonte: www.ilmanifesto.it
28.11.2012

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