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La Redazione

 

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FINALMENTE PROVATA L’ESISTENZA DEL “PARADOSSO” DELLA SURREALTA’”: SI TROVA NEL CUORE DELL'EUROPA, SULLE RIVE DEL MAR BALTICO

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A cura di Davide
Il 31 Dicembre 2012
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DI SERGIO DI CORI MODIGLIANI
Libero pensiero

Questo è un post geo-politico molto particolare.

Sostiene una idea che, magari chi lo sa, può essere utile per comprendere alcuni misteri della situazione attuale europea. Per alcuni potrebbe trattarsi di un teatro fantascientifico, per altri di una ipotesi priva di valore. Prendetelo per ciò che è: una palestra ipotetica sulla quale riflettere e interrogarsi per cercare di comprendere.

Lo sapevate che Immanuel Kant è russo e non tedesco?

E anche lo scrittore e geniale pittore E.T. Hoffman?

E anche la filosofa e scrittrice Hanna Arendt?

E’ ufficiale.

Se li riesumassimo dalle loro tombe, dovremmo notificargli il fatto che loro sono, a tutti gli effetti, russi e non tedeschi.Una scoperta davvero sensazionale; sono i primi regalucci del post-Maya.

Quanti sono, a saperlo, in Europa?

Prima di dare al pubblico quella che io considero la più “sensazionale notizia” dell’intero 2012, comunicata ufficialmente in data 27 dicembre 2012, senza che nell’intero continente europeo vi sia stata fatta menzione alcuna, è necessario introdurre una premessa.

“Come si fa a sapere in che cosa consiste ciò che non sappiamo?”

Sembra una domanda retorica, e invece è un quesito alla base della nuova realtà post-Maya.

Io, ad esempio, so con certezza di non sapere guidare un aereo, di non saper costruire un ponte, di non saper cucinare i soufflé di verdure di cui sono peraltro ghiotto. Ci sono tante tante altre cose che so di non sapere, come la maggior parte di tutti voi. Ma così come c’è un limite individuale alla conoscenza umana (nessuno –tranne Dio- è in grado di poter sapere tutto) c’è anche un limite alla non conoscenza. Tant’è vero che la maggioranza degli individui neppure sa (né, ahimè, se lo chiede) che cosa non sappia. In verità è molto più grande e vasta la zona di “tutto ciò che non sappiamo senza sapere di non saperlo” paragonata a quella di tutto ciò che non sappiamo sapendo di non saperlo.
Anche senza essere né esperti né curiosi di fatti mafiosi, in quanto italiani, sappiamo che la mafia esiste e quindi –tanto per fare un esempio- sappiamo che di quei fatti, degli appalti, dei rapporti tra politici e mafiosi, dell’attività sul territorio dei poteri criminali, esiste un gigantesco scenario, tetro e sporco, di cui noi tutti siamo consapevoli di non sapere come funziona, chi sono e cosa hanno combinato; perché non abbiamo le informazioni, le prove, i dai certi. Diciamo che sappiamo con certezza di non sapere, e quindi, quando chiacchieriamo con un amico a cena, inevitabilmente diciamo “Mah! Caro mio, chi lo sa che cosa c’è sotto?”.

Ma come è possibile avere accesso a quella zona che rimane invece “inconoscibile”?

E’ la più importante in assoluto, perché lì alligna lo sporco clandestino.

La rivoluzione operata nel campo della comunicazione dalla novità del web consiste nel fatto che (per tantissime persone per la prima volta) c’è stata data la possibilità di toccare con mano –magari per errore o per pura casualità- di andare a sbattere da qualche parte dove abbiamo scoperto che esistono dei teatri di cui noi neppure immaginavamo l’esistenza, quindi non sapevamo di non sapere. Il web, agli inizi, è stata una portentosa e imbattibile rivoluzione proprio per questo motivo. Poi, poco a poco, il sistema oligarchico che gestisce la cupola mediatica ha capito che doveva garantirsi da questo pericolo e così ha costruito –con abilità- dei corridoi, dei binari, delle linee guida preconfezionate sulle quali far scorrere la cosiddetta informazione (comprese notizie “apparentemente” scomode) che garantiscono un flusso costante, continuo, e libero di date, dati, opinioni, flussi di pensiero, a condizione che non si corra il rischio di squarciare il velo su quella “zona nera” della vicenda umana, ovverossia: tutto ciò che noi non sappiamo di non sapere.

Dei cui contorni, poco a poco, e sempre di più, si comincia a delineare la forma.

Facciamo un esempio molto chiaro: tutti noi, sia chi viene da destra e chi viene da sinistra, consideriamo la vita italiana, dal punto di vista socio-politico, come un esercizio democratico che ha garantito il progresso nei decenni cambiando la società italiana, con qualche protesta a destra, qualche protesta a sinistra, ma tutti tronfi nel salvaguardare i principii della democrazia italiana. Ma se noi prendessimo (grazie a un marchingegno di alta bio-tecnologia fantascientifica, inventato questa mattina) le ossa di Michelangelo, Raffaello, Leonardo da Vinci, Lorenzo Bernini, li rimettessimo in vita e dessimo loro l’elenco del telefono, capiremmo che in Italia la democrazia non è mai davvero esistita “ma noi non sapevamo di non saperlo”. Tant’è vero che i nostri gloriosi predecessori (ai loro tempi frequentatori di quelli che allora contavano) si renderebbero conto che le famiglie e le dinastie dominanti del ‘400, ‘500, ‘600, ‘700 sono le stesse identiche di oggi. Le più importanti dieci famiglie di Firenze, Roma, Milano, Palermo, Messina, Napoli e Venezia, oggi, dicembre 2012, sono le stesse degli ultimi 500 anni. Non avrebbero nessun problema a rapportarsi con i discendenti dei loro amici, perché l’Italia è, tra le nazioni d’occidente, quella in cui nei secoli si è verificata la più bassa quantità e qualità di cambiamenti nella vita politico-sociale. Tutti i governi, pur nei loro distinguo, hanno provveduto a rappresentare per delega la conservazione dello status quo. I più abili sono stati coloro che sono riusciti a inventare la migliore finzione possibile. L’Italia, infatti, è l’unico paese in occidente nel quale non si è mai verificata una rivoluzione, una rivolta sociale, e nessun governo è mai stato abbattuto nella Storia dall’opposizione antagonista. Chi cade, in Italia, lo fa perché rimane vittima di un complotto dei propri associati più avveduti, i quali si “trasformano” in opposizione perché si sono già accordati con l’oligarchia al fine di modificare l’assetto, rappresentandola in maniera più efficace ed efficiente. I fascisti hanno abolito il fascismo, i comunisti hanno abbattuto il comunismo, i democristiani hanno spento la democrazia cristiana, e così via dicendo.

Monti, Bersani, Berlusconi, Vendola, e tutti gli altri, sono attori di una piece che è sempre stata la stessa; nessuno ci ha mai informato sulla qualità dei retroscena e sulla vera realtà della situazione, quindi non c’è alcuna possibilità di poter districarsi in un giuoco delle parti di cui noi ignoriamo la tessitura. Gran parte della classe intellettuale italiana ha svolto un ruolo importante nel provvedere a fare in modo che la gente non potesse neppure sospettare “ciò che non sa”.

I media italiani, e anche il nostro web, funziona quindi su questa linea.

Se infatti applichiamo la domanda relativa a “che cos’è che non sappiamo di non sapere” alla realtà dei media e soprattutto al mondo dell’informazione sul web, ci rendiamo conto che “il mito della rete” è, per l’appunto, una mitologia commerciale. La gente crede di trovare tutto, in rete. Chi lo sa, magari è anche vero. Ma se uno non è consapevole di ciò che non sa, non potrà trovarlo mai, perché non sa che cosa andare a cercare.

Negli ultimi eccezionali seminari della sua carriera di filosofo, il prof. Richard Rorty, in California, nei primi anni del nuovo millennio, incitava gli studenti a inerpicarsi nella meravigliosa e spaventevole salita di “tutto ciò che non sappiamo di non sapere” dando inizio a un diverso modo di porre le domande, spostando l’accento e quindi i quesiti, “uscendo dalla Storia intesa come gossip o come palestra investigativa” e cercando di aprire la propria mente nell’immaginare scenari (del passato) –tanto per fare un esempio- inconcepibili, addirittura opposti a quelli offerti dalla documentazione attuale disponibile. Come dire, abituarsi ad un ragionamento basato su paradossi.

E’ una tecnica che oggi, in Italia, in un paese anormale, dove c’è ormai la consapevolezza che viviamo in una Surrealtà del Paradosso, può essere davvero molto fruttuosa. La consiglio a tutti. E’ una delle pratiche della vita post-Maya. Invece di insistere nel chiedersi “ma perché hanno ucciso Aldo Moro?” sapendo di non sapere e quindi essendo consapevoli che si finirà comunque a sbattere contro un muro, optare per una scelta di domande di tipo diverso, magari cominciando a porsi delle domande assurde e all’apparenza prive di Senso, del tipo “ma perché non hanno ucciso Achille Occhetto nel 1993?”. La domanda, presentata qui nella sua forma bruta, appare come razionalmente idiota e anche stupida, del tutto insensata. Ma esiste una possibilità che possa condurre da qualche parte dove, magari, si finirebbe per avere accesso a una impensabile realtà documentata.

Non bisogna dimenticare come le oligarchie che gestiscono il potere planetario, da sempre, in ogni continente, nazione, etnia, gruppo, consorzio umano, non appena iniziano ad esercitare il potere su altri individui, la prima cosa che hanno sempre fatto sia stata quella di evitare l’accesso alla diffusione del sapere, ridurre al minimo possibile l’opportunità di sapere, imbrigliare i codici della realtà e fare in modo che si assottigli sempre di più lo spazio mentale che consente di chiedersi “che cosa c’è che non so?”.

L’istruzione e l’educazione, infatti, per millenni sono sempre state appannaggio degli individui che ruotavano intorno alle specifiche oligarchie, economiche, politiche, religiose. Così sono nate e si sono costituite le “caste”: coloro che sanno. I più abili manipolatori hanno provveduto, nei millenni, ad ammantare di una sacralità magica i depositari del sapere e della conoscenza. In Francia, ad esempio, il re era considerato un sovrano assoluto, illuminato direttamente da Dio Onnipotente, e come tale in grado anche di guarire. L’ultimo mercoledì del mese, il sovrano, a Versailles, riceveva i fortunati che avevano ottenuto l’accesso che avevano guai fisici o psicologici e con le sue mani sante li curava. O meglio, era ciò che loro credevano, oppure, se preferite, era ciò che lui faceva in modo che la gente credesse. Il che è uguale. Lui era il re, lui poteva.

E’ stato grazie alla geniale intuizione di monsieur de Voltaire, 300 anni fa, che si sono poste le basi per una evoluzione collettiva dello spirito umano, perché con la nascita del concetto di sapere enciclopedico, viene alla luce un concetto che si trasforma ben presto prima in metafora e poi in programma sociale riconosciuto. Viene riconosciuto il potere della conoscenza come chiave dell’esistenza ma ciò che più conta, viene riconosciuto il diritto e il dovere di ogni singolo individuo ad avere accesso al sapere, considerato un insostituibile passaporto verso la libertà. Con questo approccio, Voltaire attribuisce alla “libertà” non più soltanto una valenza utopistica o retorica, perché non si ferma soltanto al “diritto come aspirazione” ma la coniuga insieme e parallelamente alla volontà individuale delle persone. Tradotto, vuol dire: “tu, cittadino, sappi che hai il diritto di sapere e devi combattere per l’affermazione di questo diritto, perché la conoscenza deve essere universale, ma sappi anche che tu devi sentire dentro di te la spinta della volontà di sapere; accanto al diritto c’è il dovere”.

Se uno non sa di non sapere, non potrà mai provare dentro di sé la voglia di sapere, quindi il proprio diritto rimarrà sempre monco, una formula vuota e inefficace. Vale soltanto se è accompagnato da una furibonda volontà interiore di aspirazione alla conoscenza. Da cui, il principio basico della cultura illuminista, tale per cui tutti devono aspirare alla libertà e alla conoscenza ma allo stesso tempo tutti devono sentire dentro di sé la voglia di volerlo fare, nel nome di un dovere che non può essere imposto dalla Legge, ma deve essere alimentato da una pulsione interna di carattere etico che trasforma l’essere umano in “cittadino”, ovvero in un soggetto individuale inserito all’interno della collettività. In questa società ideale, compito degli intellettuali consiste nel divulgare il poco o molto che sanno e soprattutto di diffondere il desiderio di sapere, perché essere avari vuol dire automaticamente sottrarre ad altri il loro diritto alla conoscenza.

Non è certo quindi un caso, né tantomeno una bislacca ossessione, il fatto che alla base delle politiche rigoriste dei teorici del liberismo mercatista ci sia sempre –come priorità immediata e assoluta- l’attacco all’istruzione pubblica, il taglio di ogni finanziamento alla cultura e l’affermazione del principio per cui la conoscenza e l’istruzione sono appannaggio di una cerchia sempre più ristretta di individui. Così sarà sempre più facile esercitare il potere sulle masse.

Negli anni’70 ci fu una poderosa quanto clamorosa svolta, in tutto l’occidente, perché la “voglia di sapere” divenne uno status sociale. L’elementare (apparentemente) argomentazione che Dario Fo e Franca Rame cominciarono a diffondere alla fine dei loro spettacoli teatrali, quando spiegavano al pubblico che “il padrone è tale soltanto perché sa mille parole più di voi” divenne un vero e proprio mantra collettivo, che contribuì a diffondere la “voglia di sapere”. Li si lasciava portandosi dietro la voglia di sapere, come pure dopo avere ascoltato Pasolini. Questa la motivazione che fu alla base dell’attribuzione del Nobel per la letteratura a Dario Fo, gli accademici svedesi sottolinearono proprio questo aspetto e fa da pendant al precedente nobel a Luigi Pirandello, il quale fu generosissimo con tutti noi quando ci spiegò che la caratteristica principale dell’essere umano consiste nel “gioco delle parti” nell’indossare maschere utili a confondere, imbrigliando le coscienze.

Penso alla frase pronunciata da Henry Ford, imprenditore e banchiere, nel lontano 1936 e resa allora pubblica, anche se accreditata sotto la definizione “boutade snob di un aristocratico capriccioso”; la frase, riportata dal New York Times, recitava pressappoco così: “se il popolo americano sapesse che cosa noi davvero facciamo con le banche, prima dell’alba in Usa ci sarebbe la rivoluzione e noi tutti finiremmo appesi ai lampioni”.

Fu costretto a una decina di rettifiche balbettanti. Ma la sua frase passò alla Storia.

Da allora, l’intero mondo occidentale è vissuto senza che nessuno sollevasse la questione dei rapporti tra banche e stati. Fino al 2010.

Come mai? Semplice: nel 2010 il sistema si è inceppato. Si è rotto. Nello stesso identico modo in cui nel 1784 la Francia comincia ad andare economicamente a picco e quindi a nessuno importava più del fatto che il re fosse anche un mago guaritore, perché di lì a breve –come si è puntualmente verificato- non ci sarebbero più stati neppure i soldi per fare il pane.

Nel 2010 l’intero meccanismo di produzione e di complessa relazione tra stati, industrie, governi e imprenditori si è bloccato e ha mandato il pianeta in tilt. E’ saltato. Il fatto che non abbiano spiegato, con millimetrica esattezza, che cosa è accaduto non vuol dire che non si sia verificato. Tant’è vero che, da allora, si seguita a pompare denaro all’interno di un mondo finanziario che, essendo già esploso, ingurgita il contante (sia reale che virtuale) cercando di prendere tempo inutilmente. Ciò che conta davvero è che si sappia sempre meno ciò che sta accadendo; che si sappia ancora meno quali medicine e soluzioni estreme intendano trovare ma su un punto sono tutti d’accordo: “è assolutamente necessario fare in modo di diminuire drasticamente la diffusione di notizie, informazioni e cultura a livello di massa“ che tradotto vuol dire “la gente non deve sapere più un bel nulla, altrimenti non riusciamo a farcela”. E così, in ogni nazione, si organizzano e si gestiscono dei teatrini locali, la cui unica funzione consiste nel deviare l’attenzione dalla vera posta in gioco: “controllo dell’energia, controllo delle fonti di energia e rapporti tra i produttori di energia e banche”. Il resto sono quisquilie, è soltanto pappa fritta inventata dalle mummie di un mondo che “di fatto” non esiste più.

E veniamo quindi alla notizia.

Potremmo definirla (a seconda del vostro gusto) geografica, antropologica, storica, burocratica. Come vi pare. L’aspetto interessante della notizia consiste nel fatto che tra i neonati del post-Maya questa notizia ha avuto un effetto bomba, spingendo i più diligenti e accorti a lunghe e complesse ricerche che hanno portato alla luce un teatro davvero inedito. Il sottoscritto, ad esempio, non ne sapeva nulla. Faceva parte, per l’appunto, della serie “eventi che non sapevo di non sapere”. Alcuni osservatori, per lo più ex studenti di Rorty, nel cercare di analizzare la situazione attuale economico-politica, accorgendosi che finivano in trappole inestricabili, hanno optato per una scelta radicale: porsi domande da “mondo parallelo”. La frase base, frutto del delirio di un sociologo molto intelligente, fu la seguente: “Ma se la guerra fredda, alla fine del 1989, noi europei, in realtà, l’avessimo persa?”. Hanno cominciato a ragionare su questa paradossale e folle idea, si sono consultati e confrontati, hanno navigato in rete e il bello è che hanno scoperto dei curiosi teatri reali di cui ignoravano l’esistenza, come ad esempio, un gruppo di combattenti per i diritti civili nella zona tedesca del Mar Baltico che da decenni portava avanti una strana battaglia legale presso l’Onu, che ha trovato la sua definitiva consacrazione l’altro ieri.

Ecco la notizia secca: in data 27 dicembre 2012, il governo russo ha stabilito di abolire il nome della capitale della Prussia Orientale, Kaliningrad, attribuito da decreto legge firmato da Josif Stalin in data 15 settembre 1945, restituendogli il nome storico di Konigsberg”.

Quando hanno saputo che i russi stavano compiendo un atto apparentemente soltanto burocratico, sono nate domande da veri neonati di geo-politica: “Ma la Prussia non appartiene alla Germania essendo una delle sue colonne storico-culturali da sempre?” “Ma che cosa c’entra la Russia con la Prussia?”; e ancora “E perché gli restituiscono il nome?” oppure “Ma che senso ha un nome tedesco per una città che si trova in territorio russo?” e infine “Ma quando è crollato l’impero sovietico, l’Urss non aveva restituito le zone invase dando la libertà e l’indipendenza alle singole nazioni?”.

Voi mi direte: ma che ci importa, oggi?

Lo capirete da voi, dopo aver letto la questione, perché da lì è nato l’euro.

Tutto è iniziato nel lontano 1945, durante la conferenza di Yalta, sul Mar Nero.

I tre statisti che avevano vinto la guerra, Roosevelt, Stalin e Churchill, decisero le modalità con le quali si sarebbero spartiti il mondo. Oggi, ci aggiungeremmo “senza aver chiesto l’opinione a nessuno”. Allora, era diverso. Si dava per scontato che l’opinione pubblica non contasse nulla e l’opinione dei popoli era irrilevante. L’Urss si aggiudicò l’intera Europa Orientale, mantenendo “ufficialmente” gli stati, i quali divennero, in pratica, protettorati colonizzati dell’impero russo. Si raggiunse un accordo per la spartizione in due blocchi contrapposti della Germania e si posero le basi per la nascita della DDR, la Germania dell’est. Pochi mesi dopo, alla fine di agosto, mentre il mondo occidentale era tutto preso, da una parte, dall’allegria per la fine della guerra e dall’altra dall’impressione suscitata dal lancio delle bombe atomiche sul Giappone, Josif Stalin approfittò della situazione e decise di annettersi –con un semplice editto- la Prussia Orientale. Nella sua capitale, la celeberrima Konigsberg, abitavano allora circa 310.000 persone, per lo più di lingua tedesca, con una minoranza di lingua russa e lettone, che erano emigranti in cerca di lavoro. Una volta acquisita la Prussia come dominio sovietico, venne cambiato il nome alla città che diventò Kaliningrad. Stalin fece deportare i 275.700 abitanti tedeschi, riducendo la popolazione a 30 mila abitanti. I deportati svanirono nel nulla. Nessuno ha mai saputo che fine avessero fatto, dove fossero stati portati. Ufficialmente non sono morti, sono “evaporati”. La Germania era allora rasa al suolo e annichilita dalla sua auto-distruzione; non era in grado di poter dire nulla non avendo neppure né un governo né una amministrazione pubblica né a nessuno importava alcunché della sorte di cittadini tedeschi. Ma i teutonici, com’è noto, sono una etnia ossessionata dalla certificazione minuziosa degli eventi. Scrivono sempre tutto, da bravi ragionieri, classificando ogni evento. E così fecero anche allora, nel corso della deportazione che durò ben due anni. Tutta la documentazione è finita nell’archivio storico Immanuel Kant dell’università locale.

Ogni tanto, nei decenni successivi, diversi storici chiesero ragguagli in merito e le risposte ufficiali sono sempre state sempre le stesse: “Sulla base di specifici accordi internazionali intercorsi tra le potenze e riconosciuti negli anni successivi anche dall’Onu è stato stabilito che gli archivi rimarranno segreti fino al 30 giugno 2045”. Quindi non c’è mai stata nessuna possibilità di sapere che fine avessero fatto quei 275.700 abitanti. I restanti 30 mila divennero cittadini russi di lingua russa a tutti gli effetti.

Nel gennaio del 1990, le stesse identiche potenze si incontrarono per stabilire le modalità geografico-politico-economiche nel gestire la riunificazione della Germania, nonché la certificazione dell’acquisita indipendenza degli stati fino a pochi mesi prima membri di quell’Urss che era stata dichiarata “dissolta”. Con una differenza: questa volta partecipavano anche nazioni come l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, l’Olanda, il Belgio, perché la decisione era europea. Va da sé che Usa, Gran Bretagna e Francia facevano la parte dei padroni, ma la situazione era molto ma molto diversa da quella del 1945. L’Italia e la Germania, infatti, nel frattempo erano diventate delle fondamentali potenze economiche, così come era indubbio il contributo dato da entrambe nella vittoriosa lotta contro il comunismo imperialista sovietico, quindi avevano voce in capitolo e questa volta “in teoria” risultavano dalla parte dei vincitori. Ma sorsero immediatamente dei problemi, che ben presto divennero ostacoli giganteschi arrivando al punto di provocare una situazione di stallo molto pericoloso. La Germania, infatti, dava per scontato che le sarebbe stata restituita la Prussia, definita dall’allora rappresentante diplomatico teutonico “il nostro antico cuore pulsante culturale” mentre la Russia (la delegazione era capeggiata dal responsabile centrale del KGB, Vladimir Putin) si rifiutò sostenendo che era ormai territorio russo a tutti gli effetti. La ex Prussia, sostennero i russi, non era “parte dell’Urss, come la Georgia o l’Ucraina o la Moldavia, bensì parte integrante del territorio russo da sempre”. I tedeschi, sgomenti dinanzi a questa alterazione degli eventi storici, si impuntarono, al punto tale da provocare delle laceranti frizioni (di cui a tutt’oggi nessuno ci ha mai raccontato nulla) tra la Germania e la Russia, talmente forti, da far pensare addirittura all’impensabile rischio di una guerra, evitata soltanto per il fatto che la Germania non aveva un esercito, essendo sotto il controllo della Nato. Quattro tra i responsabili della delegazione tedesca (uno dei quali aveva dichiarato “ma noi siamo disposti anche a morire per la Prussia, è la nostra antica terra”) vennero sostituiti con altri quattro, provenienti dalla Germania dell’est. Lo scontro andò avanti per diversi mesi e il più importante tra i rappresentanti italiani, Romano Prodi (la voce ufficiale era Gianni De Michelis) si schierò con la delegazione russa, mentre inglesi e francesi sostenevano i tedeschi, i quali, dal canto loro, fecero tali pressioni sugli americani e sul comando generale della Nato da convincerli alla fine ad appoggiarli. Ma alla fine arrivò il perentorio ricatto dei russi che considerarono la richiesta tedesca un vero e proprio affronto alla loro sovranità: se fossero stati costretti a restituire la Prussia Orientale, allora avrebbero chiuso il rubinetto del gas e del petrolio provocando una devastante crisi finanziario-energetica nel cuore dell’Europa. E così, la Germania fu costretta a cedere. Secondo alcuni storici (chiamiamoli così, tanto per capirci “storici post-maya”) questo evento spinse l’accelerazione e il lancio dell’euro nonché la guerra in Iraq, “inventata” da inglesi e tedeschi insieme. I tedeschi, infatti, nell’aprile del 1990 si resero conto che le cose si stavano mettendo in maniera molto diversa dalle previsioni perché la sconfitta dell’Urss non comportava una vittoria dell’Europa Occidentale, bensì un gigantesco costo economico e una sottomissione agli interessi russi, con un inatteso disinteresse degli Usa che -.nella nuova Russia- trovava un grande alleato con il comune obiettivo di lanciare la globalizzazione delle merci. E così la Germania rinuncia a riavere la Prussia Orientale e poco a poco, all’interno dell’amministrazione tedesca, cominciano a farsi largo funzionari provenienti dalla Germania dell’est. Ma uno sparuto gruppo di tedeschi, eredi sopravissuti nonché residenti nella prestigiosa Konigsberg, iniziano una lotta ventennale per restituire alla città il proprio nome autentico, verosimilmente per ripartire da lì verso una successiva richiesta di autonomia e di secessione dal territorio russo nei prossimi anni. Alla fine, per il momento, ci sono riusciti.

Quantomeno per ciò che riguarda il nome.

Apparentemente sembrano questioni puramente formali, di piccineria nazionalistica.

Si tratta, invece, di una questione ben più complessa, non a caso divenuta il cavallo di battaglia del programma dei verdi tedeschi in funzione anti-Merkel (principale alleato, insieme a tutti i governi italiani dal 1993 a oggi, del mondo voluto da Vladimir Putin).

E così, ci ritroviamo il 30 dicembre del 2012 con una città in Prussia che in realtà è in territorio russo, dentro l’Europa, tra la Lituania e la Polonia, sul Mar Baltico, il cui nome russo viene cancellato per rifondare quello originale tedesco. E così Konigsberg finisce per essere una provincia della Grande Madre Russia e se un tedesco vuole andare a visitarla deve munirsi di passaporto e visto.

E nessuno si è mai interrogato, pubblicamente, sulla annosa vicenda, ancora aperta.

E’ il trionfo ufficiale del Paradosso della Surrealtà che qui trova il suo apogeo.

Mi fermo qui. Per il 2012 credo davvero che basti.

Ho scelto questo esempio illuminante perché ciò che mi premeva era condividere con voi l’introduzione di un nuovo concetto che –se applicato con innocente semplicità- potrebbe tornare utile nel 2013

Vi ringrazio a tutti per l’attenzione e l’interesse manifestato nel 2012

Vi auguro con il cuore di poter brindare con chi davvero vi vuole bene, è l’unica cosa che di sicuro conta. Certificata.

Per tutto il resto, come ci suggerisce la pubblicità, ci sono le banche.

E le liste civiche di chi le odia e di chi le ama.

Tanto vale, almeno a capodanno, riderci sopra un po’.

Ben arrivato 2013.

Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Link: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/12/finalmente-provata-lesistenza-del.html
31.12.2012

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