DI CARLO BERTANI
Gli ultimi atti del governo – il cosiddetto decreto sicurezza in particolare – contengono provvedimenti che sono stati bollati come razzisti dalle principali cancellerie europee: il prelievo delle impronte ai bambini ROM, ad esempio, è qualcosa che evoca pessimi ricordi, soprattutto nell’Europa che non dimentica cosa fu l’Italia.
Il tutto, come chi s’informa sa bene, senza nessuna urgenza per prendere un provvedimento del genere: non esiste, nelle cronache giudiziarie o nelle investigazioni, nessun elemento che porta a concludere che i ROM sequestrino bambini italiani. I quali, talvolta, spariscono (come in altre parti del mondo “civilizzato”): sarebbe meglio, forse, gettare l’occhio su altri traffici, quali le adozioni illegali o, peggio, il traffico clandestino d’organi destinati ai trapianti. I ROM, in questo caso, sono perfetti come capro espiatorio: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. E si “beccano” pure le leggi razziali.
E’ chiaro che, parlando di leggi razziali, la memoria corre subito a quelle emanate dal Fascismo anche se, ad onor del vero, esse non condussero – nella società italiana – a nessuna “caccia all’ebreo”. Negli stessi giorni nei quali Mussolini emanava le famose leggi del ’38, promuoveva al grado di generale un tal ufficiale Levi, segno che le leggi razziali furono più un “pegno” dovuto all’alleato germanico che frutto del regime. Diversa fu la situazione durante la guerra, quando a comandare furono i nazisti.
Nelle analisi che spesso appaiono sul ventennio fascista, l’accento cade sempre sulla guerra (civile, oppure di liberazione, secondo i punti di vista), sull’impreparazione bellica del regime, sul “gossip” dell’epoca, sulla debolezza della monarchia, sulla fine di Mussolini, ecc. Esistono ovviamente testi analitici, dove s’affronta la genesi e l’affermarsi del Fascismo, ma pochi li affrontano: al massimo, si cita la classica suddivisione fra primo e secondo fascismo, ossia la fase movimentista e quella di governo. E morta lì.
E’ interessante, invece, raccogliere testimonianze dirette – i cosiddetti “fatti” che il giornalismo italiano spesso finge di dimenticare – fin quando abbiamo a disposizione testimoni diretti. I quali, ovviamente, non possono avere valore d’universale, ma raccontano cose avvenute: situazioni, persone, luoghi, sui quali è difficile compiere operazioni di disinformazione. Vedremo, in seguito, che il lupo perde il pelo ma non il vizio, poiché le stesse metodologie sono usate ancora oggi, con più discrezione, intorno a noi.
Ho perciò deciso d’intervistare mia madre – classe 1927 – che ben ricorda ciò che avvenne in quegli anni in una delle “frontiere” più calde del regime: l’area del basso Po, a cavallo fra Emilia e Veneto.
I ricordi di mia madre hanno duplice valenza: da un lato ci sono le memorie personali, dall’altra quelle ricevute dai parenti che furono però comprovate – come vedremo in seguito – dall’esperienza personale.
Quando mia madre nacque, la famiglia possedeva casa e terreni nella cosiddetta “bassa”. Inutile citare luoghi: tanto, la “bassa” è sempre “bassa”, ovunque la si osservi. Avevano bestiame, terreni coltivati ad erba medica, grano, granturco, barbabietole da zucchero e vigna: il problema, era che la famiglia era socialista.
Le condizioni economiche della famiglia erano buone, tanto che i “vecchi” si recavano a “passar le acque” a Recoaro Terme, segno che quei campi rendevano abbastanza da consentire anche qualche modesto svago e qualche “investimento” in cultura. La “cultura” della grandi famiglie patriarcali era quasi esclusivamente musicale: ancora impregnati dalla musica di Verdi, dalla grande stagione risorgimentale, non lesinavano qualche lira per affidare i figli ad un maestro di musica.
I primi ricordi di mia madre, però, narrano un’infanzia segnata da ripetuti crolli economici, che coincisero con i suoi primi anni di vita.
La cagione di tutti i guai fu il rifiuto di rimuovere, dall’ingresso della grande casa patriarcale, le fotografie di Felice Cavallotti e di Giacomo Matteotti. Una bestemmia, per il Fascismo in ascesa.
Due parole – sempre tratte dai ricordi di mia madre – per definire chi fossero i fascisti dell’epoca.
Alcuni erano ricchi proprietari terrieri – talvolta aristocratici, di quella aristocrazia che il primo Fascismo intendeva abbattere – ma non rappresentavano la grande proprietà terriera: altri possidenti, non avevo affatto aderito al movimento di Mussolini.
Quelli che invece erano compresi quasi all’unisono nei Fasci Littori, erano una schiera raccogliticcia di reduci che non avevano ricevuto nulla dopo i sacrifici della Grande Guerra, oppure sottoproletari, perdigiorno, abituali frequentatori di bische e taverne. La gran parte della popolazione, che continuava a coltivare la terra od a gestire i commerci di sempre, non era attratta dalle idee “rivoluzionarie” di Mussolini: le interpretavano come un’intemperanza, una “scapigliatura” che non avrebbe avuto seguito. Se, un Re imbelle, non avesse ceduto altrimenti.
Il primo atto che si materializzò, per quella famiglia socialista che non aveva mai torto un capello a nessuno, fu la confisca del bestiame: un colpo gravissimo per l’economia dell’epoca. Difficile trovare paragoni: forse, sarebbe come togliere oggi, all’improvviso, l’intero parco automezzi ad un’azienda di trasporti.
Colpiti senza preavviso, il percorso divenne difficile: per alcuni anni cercarono di vendere la produzione agricola – ma la concomitante crisi economica non li favorì – e, in breve tempo, contrassero dei debiti che li portarono a dover vendere la proprietà.
Un parente, però, s’offrì d’acquistare per loro una modesta casa di otto camere con un po’ di terreno, per salvaguardare almeno la sopravvivenza. La vendetta dei fascisti, però, non si fece attendere.
Appena insediati nella nuova casa, quattro delle otto camere furono requisite per collocarvi la “Casa del Fascio” locale, ed i terreni prospicienti furono anch’essi immediatamente confiscati, per crearvi attività ricreative per la popolazione che accettava d’aderire al Fascismo: giochi da bocce, sale da ricreazione, ecc.
Così, il mio bisnonno – che amava giocare a Ramino – si trovò impossibilitato ad entrare nella struttura “ricreativa” che era stata creata rubandogli la terra, giacché non aderiva al Fascismo.
Quelli che non avevano aderito al Fascismo, decisero allora di ritrovarsi – semplicemente – in una casa privata per non rinunciare al poco divertimento dell’epoca: un mazzo di carte.
Saputa la cosa, i fascisti irruppero nella casa sfondando la porta e distruggendo mobili e suppellettili; il messaggio era: se non aderisci, nemmeno una “mano” di Ramino ti sarà concessa.
Dopo pochi anni trascorsi in quell’inferno, s’aprì quasi necessariamente la via dell’emigrazione: la diaspora fu europea ed americana, dal Sud al Nord, dell’Italia, dell’Europa e delle Americhe.
A fronte di pochi successi, le miserie e le privazioni furono incommensurabili: non racconterò nulla, perché sarebbe un inutile concedersi ai sentimentalismi personali. Quello che mi spaventa, è l’oggi.
Sull’opposto versante – quello delle concessioni – il Fascismo collocava nelle aree bonificate famiglie che, ovviamente, dovevano aderire al regime, pena l’emigrazione o l’emarginazione economica. Anche le avventure coloniali altro non furono che il tentativo di placare la spinta demografica interna: sempre, però, accompagnate dal necessario imprimatur del regime. In altre parole, una regia semplice come lo erano i mezzi di persuasione dell’epoca: aderisci, o perisci. In questo quadro, spesso sono state ricordate le bastonature e l’olio di ricino – pur avvilenti e dolorose – mentre nessuno pone mai all’attenzione del grande pubblico i mezzi che garantirono la sopravvivenza sociale del regime: un’attenta scelta operata per anni, nella quale era premi
ata l’adesione e scacciata l’opposizione.
“Scacciata” è forse il termine più esatto: il regime mostrò anche il viso duro – ricordiamo i fratelli Rosselli – ma si limitò al confino per tanti antifascisti. La necessità primaria del regime era quella di mostrare l’adesione di massa al Fascismo: episodi violenti avrebbero turbato il “sogno” mussoliniano, meglio allora “dimenticare” gli oppositori a Ventotene.
Nei confronti della Chiesa cattolica, poi, ci fu il “grande successo” dei Patti Lateranensi: anche in quel caso, era necessità primaria del regime garantirsi l’appoggio della Chiesa sul fronte sociale. Detto fatto: le concessioni fatte alla Chiesa con quel trattato – che durano tutt’oggi – hanno riconosciuto privilegi impensabili, ad uno Stato estero, sul territorio italiano. La Chiesa ricambiò generosamente, e non solo con la benedizione dei gagliardetti littori – memoria corta, monsignori? – bensì con il finanziamento dell’apparato bellico fascista tramite lo IOR, prontamente “sdoganato” dalle sole opere di carità, da Pio XII.
Altre nobili iniziative del regime furono la creazione dell’Ordine dei Giornalisti – memoria corta, direttori? – per controllare ancor meglio la stampa già controllata e il ferreo appoggio alla classe industriale dell’epoca – memoria corta, imprenditori? – che culminò con l’icona di Benito Mussolini e Giovanni Agnelli che inauguravano la Fiat Mirafiori.
Quel “ferreo appoggio”, però, non generò frutti, al punto che gli aviatori italiani andarono a morire contro gli Spitfire inglesi sui biplani FIAT CR-42[1], mentre i marinai italiani sparavano decine d’inutili salve sulle navi inglesi, poiché la cariche italiane erano così imprecise da non consentire la valutazione del tiro[2], e gli alpini gelavano nella steppa russa con le suole di cartone.
Vuota retorica? No, perché l’appoggio senza condizioni – ossia senza elaborazione politica – sulle “vie” da seguire in campo tecnologico ed industriale, condusse la nazione che aveva inventato la radio a non sapere cosa fossero il radar e l’ASDIC[3]. Fino al 1943, i cacciatorpediniere italiani non ebbero mezzi per individuare un sommergibile immerso!
Riassumendo, il regime mostrò cedimento e connivenza con la classe imprenditoriale e con la Chiesa cattolica, promozione sociale soltanto per chi aderiva senza condizioni e rimozione – perlopiù “morbida” – di qualsiasi opposizione.
E veniamo all’oggi.
Ciò che mi ha suscitato sorpresa – e la necessità di una “immersione” nel passato – è stata la lettura di un articolo del recente Decreto Ministeriale n. 112, appena “partorito” – si dice “in un quarto d’ora” – dal governo Berlusconi. Si tratta dell’art. 72[4]:
1. Per gli anni 2009, 2010 e 2011 il personale in servizio presso le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le Agenzie fiscali, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, gli Enti pubblici non economici, le Università, le Istituzioni ed Enti di ricerca nonché gli enti…può chiedere di essere esonerato dal servizio nel corso del quinquennio antecedente la data di maturazione della anzianità massima contributiva di 40 anni…La disposizione non si applica al personale della Scuola.
Quale magnanimità! Dopo le forche caudine di Maroni/Damiano sulle pensioni, ecco che il generoso Berlusconi concede cinque anni d’anticipo sull’età del collocamento a riposo! E’ per tutti? No, la Scuola non è prevista. Fatto singolare, giacché uno studio della Banca d’Italia indica proprio nell’anzianità dei docenti uno dei principali ostacoli a qualsiasi riforma della scuola italiana. Prontamente, la governante di casa Brunetta – una tal Mariastella Gelmini – s’è affrettata a dichiarare che “non si tratta d’età, bensì di motivazioni”: ci risparmi le riflessioni che compie mentre pulisce l’argenteria di un “professore bravo”, come Brunetta ama autodefinirsi. Curioso anche lo “studio” prontamente pubblicato dalla Banca d’Italia – ossia da Draghi – il quale sosta sulla riva del fiume, nell’attesa che passi il cadavere – politico, ovviamente – di Berlusconi.
Non sono previsti gli Enti Locali ed altre amministrazioni…viene da chiedersi: perché?
Il D.M. 112 è un vero atto di guerra nei confronti dei soli dipendenti pubblici: riduzione del 30% dello stipendio anche per pochi giorni di malattia, reperibilità per le visite fiscali dalle 8 alle 20; in pratica, gli arresti domiciliari – e quando ci si deverecare nelle strutture sanitarie per curarsi e, quindi, cercare di guarire? Mah… – e “risparmi” sulla sola Scuola per quasi 8 miliardi di euro, contro gli improbabili 4 della tanto sbandierata Robin Tax.
Aprendo una parentesi, vogliamo ricordare che la nuova “creaturina” di Tremonti è la riedizione della “tassa sul tubo” del suo precedente governo. Una barzelletta, giacché lo Stato è il principale socio di ENI ed ENEL: si tratta, in definitiva, di una pietosa partita di giro, nella quale i soldi cambiano solo collocazione nel bilancio. Il solito trucco di Trecarte…pardon…Tremonti…
Torniamo al “regalo” pensionistico di Berlusconi. Tutti quei dipendenti potranno fruirne? Sembra di no…
2. E’ data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze funzionali, di accogliere la richiesta dando priorità al personale interessato da processi di riorganizzazione della rete centrale e periferica o di razionalizzazione o appartenente a qualifiche di personale per le quali e’ prevista una riduzione di organico.
Ecco, si fa chiarezza: è “facoltà dell’amministrazione”. Nel senso: tu sì, lui no. Dipende dal processo di “riorganizzazione”.
Già c’insospettisce che siano rimarcati nel decreto i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri: conoscendo Berlusconi, non ci sarebbe da stupirsi se tutto il can can fosse stato creato per sistemare qualche “velina”…no, sarebbe troppo “attempata” per i suoi gusti…forse, allora, qualche dipendente al quale si deve riconoscenza? Approfondiamo la questione.
3. Durante il periodo di esonero dal servizio al dipendente spetta un trattamento temporaneo pari al cinquanta per cento di quello complessivamente goduto…al momento del collocamento nella nuova posizione. Ove durante tale periodo il dipendente svolga in modo continuativo ed esclusivo attività di volontariato, opportunamente documentata e certificata, presso organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni di promozione sociale, organizzazioni non governative che operano nel campo della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, ed altri soggetti da individuare con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanarsi entro novanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, la misura del predetto trattamento economico temporaneo è elevata dal cinquanta al settanta per cento…