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La Redazione

 

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FASCISMI A VARSAVIA

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A cura di Davide
Il 2 Dicembre 2009
87 Views

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DI MASSIMO FINI
massimofini.it/

In Polonia è stata approvata, pressoché all’unanimità, una legge penale (pena prevista: due anni di carcere) che vieta “la produzione, la distribuzione, la vendita o il solo possesso di oggetti che richiamino al fascismo, al comunismo o ad altri simboli di totalitarismo”.
È una norma perfettamente fascista o, se si preferisce, degna di uno Stato sovietico o comunque totalitario. Che si contraddice in sé perché si mette sullo stesso piano di ciò che pretende di combattere. Mi rendo conto che dopo la feroce spartizione del loro paese fra bolscevichi e nazisti e quasi mezzo secolo di dominazione sovietica, i polacchi abbiano i nervi scoperti su certi argomenti, però mi pare che non abbiano capito – eppure proprio quelle esperienze avrebbero dovuto insegnarglielo – una cosa fondamentale: che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo.


Per la verità non lo hanno capito nemmeno gli italiani. La “legge Mancino” che vieta “gesti, azioni, slogan legati all’ideologia nazifascista”, comminando anch’essa il carcere ai trasgressori, non si differenzia molto dal diktat polacco. Sono, entrambe, leggi liberticide che non hanno nulla a che vedere con quella democrazia che pretendono di tutelare e affermare. Ne rappresentano anzi la negazione. In democrazia tutte le idee, per quanto aberranti possano apparire in un determinato momento storico, hanno diritto di cittadinanza. È il prezzo che la democrazia deve pagare a se stessa e ciò che la distingue dai totalitarismi. L’unico discrimine è che nessuna idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. Punto e fine.

Una democrazia che non accetta opinioni che non siano democratiche non si differenzia da un totalitarismo o da una teocrazia che accetta solo le opinioni che restino all’interno del loro impianto ideologico. Anche la disposizione, contenuta nella legge Mancino, che punisce “l’istigazione… all’odio, per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali” mi pare di dubbia democraticità.
Anzi, in un certo senso, è peggio. L’odio è un sentimento, come l’amore o la gelosia. E ai sentimenti non si possono mettere le manette. E nemmeno alle loro manifestazioni. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di farlo sapere. L’odio non è un reato e quindi nemmeno la sua istigazione può esserlo. Naturalmente è chiaro che se torco anche solo un capello al soggetto del mio odio si aprono le porte della galera.

La libertà di manifestare le proprie idee riguarda anche quel fenomeno, oggi molto demonizzato , che si chiama “revisionismo storico” e, in specie, quel particolare revisionismo che è il “negazionismo” (la negazione dell’Olocausto o il suo ridimensionamento) che, in alcuni paesi democratici, è costato la galera a un paio di studiosi.

Innanzitutto la Storia è per sua natura revisionista. “Ogni storia è storia contemporanea” ha scritto Benedetto Croce, intendendo dire con ciò che la storia consiste essenzialmente nel guardare il passato con gli occhi del presente (B. Croce, “La storia come pensiero e azione”). Ogni generazione ha quindi il diritto di guardare il passato con i propri occhi e non con quelli delle generazioni che l’hanno preceduta. E di darne anche, se è il caso, un’interpretazione diversa. Poi c’è il diritto alla ricerca, al controllo e alla verifica dei fatti (che è anch’esso consustanziale alla modernità e quindi alla democrazia, altrimenti non si capirebbe la difesa di Galileo contro il cardinal Bellarmino). Nessuna verità storica è assodata per sempre. Anche perché, nella vicinanza degli avvenimenti, la storia è sempre quella raccontata dai vincitori. Gli argomenti e i dati, se ci sono, dei revisionisti e anche dei “negazionisti” vanno battuti, e magari ridicolizzati, con altri argomenti e altri dati. Non con gli anatemi “a prescindere”, con la galera, con i roghi. Se non si vuole tornare al medioevo.

Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it/

da “Il Fatto Quotidiano”, 1.12.2009

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