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DI MAURIZIO BLONDET
Dopo l’atroce battaglia di Falluja, l’armata americana vi è entrata con bull-dozer e autobotti. I bull-dozer hanno cominciato a scorticare il terreno tutto attorno ai crateri di esplosione delle loro bombe. Hanno asportato accuratamente 200 metri quadri di terreno attorno ad ogni cratere, caricato la terra su autocarri e l’hanno portata in località sconosciuta (1). La stessa cosa hanno fatto con alcune delle case bombardate. Hanno abbattuto gli edifici e portato via il materiale. Queste operazioni sono state compiute soprattutto nei quartieri di Julan e di Jimouriya, teatro dei più feroci scontri, ma anche a Nazal, Mualmeen, Jubail. Attenzione, solo “alcune” case sono state demolite. Quelle dove erano cadute le “bombe speciali” usate dagli americani. Le stesse che avevano formato i crateri accuratamente ripuliti. Di che bombe si trattava? Tutti gli abitanti di Falluja che erano ancora in città durante i raid le hanno descritte così. “Facevano una colonna di fumo a forma di fungo. Poi, piccoli pezzi cadevano dall’aria, con una coda di fumo dietro ogni pezzetto”. Cadendo, questi “pezzetti” esplodevano con grandi fiammate che “bruciavano la pelle della gente, anche quando vi si gettava sopra dell’acqua. Molti hanno sofferto tanto per questo effetto, combattenti non meno che civili”.
E’ la descrizione esatta degli effetti di bombe al fosforo, molto usate dai liberatori anglo-americani contro Germania e Giappone. Ma vietate dalle convenzioni internazionali, e perciò sostituite dagli Usa con l’invenzione del Napalm, mistura gelatinosa e adesiva di celluloide sciolta in benzina che ha il “vantaggio”, come il fosforo, di appiccicarsi alla pelle mentre brucia, ed è molto più economico (brevetto Dow Chemicals). L’uso del fosforo però è più “efficiente” se lo scopo è di ridurre corpi umani a tizzoni ardenti carbonizzati, con un effetto terroristico aggiuntivo.
L’uso di queste armi è un crimine contro l’umanità. Ecco perché, dietro ai bull-dozer, il Pentagono ha inviato anche grosse autobotti: le quali hanno “lavato” con potenti getti forzati tutti i muri o quel che ne restava in piedi, evidentemente per dilavare il fosforo. E’ il tentativo di coprire il crimine, di farne sparire le tracce.
Ciò potrebbe spiegare anche parte della sciagurata avventura di Luciana Sgrena. Come si ricorderà, la giornalista stava andando a un appuntamento con alcuni profughi di Falluja quando fu, molto opportunamente per i criminali di guerra, “rapita” da “insorti”. Altrimenti avrebbe potuto raccontare di quelle bombe al fosforo, cosa che non hanno mai fatto “i grandi giornali” neocon ed ebraici, come il Corriere della Sera o il New York Times. Lo stesso discorso si può fare per la francese Aubenas di Libèration: sempre giornalisti di piccoli giornali no-global poco controllabili dalla nota lobby.
Naturalmente, la Sgrena non ha saputo nulla: ha recitato la parte che le è stata assegnata, “drammatizzando” in video, e ascoltando i suoi rapitori ripetere che in Irak “non vogliono nessuno”, nemmeno, anzi specialmente, giornalisti simpatizzanti con la guerriglia; frasi che acquistano un senso illuminante, se attribuite a “terroristi” dal Pentagono. La sua tentata uccisione dopo la “liberazione” con riscatto pagato dai contribuenti ai cosiddetti “insorti” (probabilmente la solita banda Al-Mossad, che ci ha fatto anche un guadagno) può essere interpretata forse come “una lezione” da dare agli italiani. E va ascritta anche ad errori da parte italiana. Il primo dei quali è non voler capire chi è, in Irak, il nemico principale.
Maurizio Blondet
Fonte:www.effedieffe.com
7.03.05
*La foto che accompagna l’articolo mostra un gruppo di abitanti di Falluja presso un cratere causato da una bomba sganciata durante un attacco aereo che, secondo quanto riportato dagli americani, mirava a colpire militanti coinvolti in rapimenti e attentati.
Note
1)Dahr Jamail, “Odd happenings in Falluja”, Electronic Iraq, 18 gennaio 2005.