ESISTE ANCORA AL QAEDA?

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DI ALBERTO PIRIS

La domanda che apre questo tema è potenzialmente esplosiva dal momento che, in caso di risposta negativa, verrebbe messa in discussione gran parte della retorica antiterroristica che regge attualmente la politica interna ed estera di alcuni governi. Dunque la questione è da accertarsi, almeno secondo quanto espresso qualche mese fa da Jason Burke sulla rivista statunitense Foreign Policy.
 In essa suggeriva che l’organizzazione messa in piedi da al-Qaeda per anni in Afghanistan si era dissolta nel corso dell’invasione perché Bin Laden ed il suo gruppo di fedelissimi erano morti, erano stati imprigionati o risultavano essere tuttora in fuga e incapaci di coordinare a distanza l’azione dei loro seguaci.
Invece l’ideologia dell’organizzazione si propaga ed i suoi tentacoli sembrano estendersi a dismisura. Jason Burke affermava che “si tratta di un’ ideologia radicale, internazionalista, basata su di una retorica anti-occidentale, antisionista e antisemita (sic)”, che e’ stata adottata da gruppi terroristici di varia estrazione che ben poco hanno a che vedere con Bin Laden e la sua ristretta cerchia di collaboratori.
Esistono diversi gruppi terroristici che operano sulla base dei piani originali di Bin Laden, seguendone gli stessi metodi, che, come afferma Burke “agiscono in stile al-Qaeda”: un nome che tuttavia identifica poco più che una sorta di licenza concessa, tanto più che i servizi segreti israeliani hanno smesso di utilizzarlo e al suo posto alludano alla Jihad internazionale.

La strategia antiterrorismo degli USA, e quella dei paesi che la seguono senza troppo rifletterci sopra, si basa sull’ossessione ad andare a caccia di reti clandestine sparse per il mondo, fino a scovare ed estirpare il suo nucleo centrale, con l’idea che, una volta fuori combattimento, sprofondi di colpo anche tutto il sistema terroristico ad esso appoggiato. (Credevano anche che una volta preso Saddam Hussein, la resistenza irachena sarebbe svanita). La frase alla quale Bush ricorre sistematicamente per giustificare la politica di guerra preventiva é: “Distruggiamoli all’estero, affinché non ci attacchino all’interno”. Per questo invase l’Iraq con i conseguenti errori: il popolo iracheno non accolse gli invasori in modo trionfale, l’inesistente terrorismo iracheno crebbe enormemente, infine gli USA si trovarono impelagati in una dura lotta contro la resistenza alla quale non erano preparati.

Dovendo andare incontro ai turbamenti del suo elettorato, il governo Bush tenta di creare un perfetto scudo antiterrorismo, somigliante a quello antimissili di “guerre stellari”. Si parla già di moderni sistemi di vigilanza e osservazione nelle città statunitensi per controllare le aree sensibili e di sofisticati programmi informatici che potranno individuare automaticamente – dicono alcuni – le attività sospette di certe persone (quelle che vagabondano per strada, quelli che si soffermano con atteggiamenti sospetti davanti ad edifici d’interesse pubblico, quelli muniti di pacchetti o contenitori dall’aspetto insolito, etc. ). Tutto questo servirà a garantire quella sicurezza interna che esigono taluni settori della società. Come commentava il New York Times, con sistemi di controllo simili qualsiasi persona a passeggio per strada può divenire oggetto di vigilanza continua. Una volta garantita – secondo la versione ufficiale – la sicurezza interna degli USA, il suo governo avrà modo di dedicarsi alla lotta senza quartiere ai terroristi, attaccandoli militarmente in quei Paesi dove se ne sospetta la presenza.
 

Tale modo di affrontare il problema parte da un errore iniziale. Senza dubbio le democrazie moderne del mondo sviluppato sono estremamente vulnerabili di fronte al terrorismo. Ma quello che si deve considerare in primo luogo e’ che la stessa democrazia  e’ altrettanto vulnerabile agli attacchi terroristici come possono esserlo le raffinerie, gli aeroporti o le centrali nucleari. Quando un Governo si lascia trascinare dalla tentazione del segreto, quando inizia a considerare i propri cittadini come esseri infantili, indifesi ed impauriti  che hanno bisogno di vederlo come un padre protettore; o quando sospetta già in partenza di tutti loro, sottoponendoli a sistemi di controllo e vigilanza estremi; allora ecco quand’è che la democrazia subisce per davvero gli effetti del terrorismo: si vedono limitate le libertà e compromessi i più elementari diritti dei cittadini. In questo modo, senza neanche subire l’attentato terrorista, la democrazia inizia a patirne i suoi effetti più dannosi.

Il problema che affrontano gli stati democratici non si può risolvere in questo modo. Senza arrendersi mai al terrorismo, ma mantenendo attiva un’efficace e polivalente politica antiterrorista, la società ha esigenza di sviluppare una nuova mentalità adeguata alla realtà odierna.
Bisogna accettare il fatto che le azioni terroriste nel mondo d’oggi andrebbero considerate alla stregua di gravi sconvolgimenti che colpiscono l’attività umana, come le catastrofi aeree, gli incidenti stradali o i disastri  naturali. Il terrorismo, come la delinquenza, non sparirà mai totalmente, sebbene entrambi debbano essere contrastati con intensità e senza tregua. Fino a quando nel mondo sussisteranno le circostanze che fanno nascere e sviluppare i gruppi terroristici, l’azione dei governi dovrà orientarsi in modo tale che la pericolosità del terrorismo non travalichi certi limiti, la cui gestione ricade interamente nelle mani dell’azione politica.

Qualsiasi democrazia può sopravvivere al terrorismo a patto che disponga dei mezzi necessari ad affrontarlo  e sia in grado di prevedere alcune delle sue azioni. Non potrà sopravvivere invece ad un’ epidemia di paura, nella quale dei cittadini sconcertati e sorpresi acconsentono sommessamente a venire privati dei loro stessi elementari diritti democratici.

Alberto Piris
Generale dell’artiglieria alla Riserva Analista del Centro di Ricerca per la Pace (FUHEM)
Fonte:www.rebelion.org
link:http://www.rebelion.org/noticia.php?id=13831
12.04.05

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Emila
 

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