DI MICHEL ONFRAY
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Tutto ha inizio in un campo di Normandia, una trentina d’anni fa: giornata d’autunno, sole giallo e ancora caldo, allodole a profusione che salgono in cielo, cantano, gridano a squarciagola e poi ricadono come pietre, un padre e suo figlio che piantano patate. Non ho ancora dieci anni, mio padre è agricoltore. A casa, la povertà fabbrica giorni difficili, le patate assicurano la permanenza di una cucina che mia madre s’ingegna con successo a variare. Nel cielo, quel giorno, passa un aereo, seguito da una scia bianca.
Sogno di un bambino, impossibile e improbabile: domando a mio padre dove andrebbe se gli venisse offerto un viaggio in aereo… Risposta: “Al Polo Nord”. Mio padre lavorava a quel tempo come un forsennato, nel silenzio e nell’abnegazione, accettando il suo destino senza brontolare, subendo la povertà come una fatalità contro cui non ci si ribella. Non ho mai visto uno stoico più convinto in quegli anni taciturni, austeri. Niente vacanze, mai, le ferie gli servivano ad andare a lavorare altrove: le barbabietole, per esempio, che tutta la famiglia raccoglieva accanto ai portoghesi venuti come stagionali; niente passeggiate, niente ristoranti, né cinema, né teatro; niente libri, niente ospiti. La mancanza di denaro condanna alla solitudine, all’isolamento e impedisce di godere del mondo intero.
Che fulmine a ciel sereno, quel desiderio manifestato da mio padre! Non gli ho mai sentito confessarne altri. Ma ne aveva, lui che sembrava aver messo una croce sopra alle sue fantasie, sapendo che è meglio, per non essere infelici, dimenticarle piuttosto che coltivarle? Desiderio di Polo Nord, voglia di neve, di freddo, di gelo, geografia di banchisa, austerità e inospitalità: non capivo la ragione… Mio padre nemmeno, d’altronde, che vedeva nell’eccesso di domande da parte mia uno dei tratti del mio carattere: “stai zitto, parli sempre, lavora, piuttosto”.
Anni dopo, sempre attivo nella congiura contro i silenzi, sempre loquace, ritrovai mio padre all’ospedale: gli avevano appena messo un doppio bypass coronarico. Consumammo in fretta gli argomenti di conversazione: il villaggio che invecchiava, gli anziani che morivano, la chiusura dei negozi, i cambiamenti nei ritmi della vita nell’ultimo mezzo secolo, la guerra, l’occupazione e poi la Liberazione. Poi tornai su quella giornata di allodole, di patate, di aereo che solcava il cielo. Lui non ricordava le circostanze, l’occasione, ma ritrovò senza difficoltà la risposta alla mia domanda. “Al Polo Nord”. Interrogato sulle ragione di quella destinazione, aggiunse: “Beh, non so perché…”.
Vedo mio padre invecchiare da quando sono bambino; temo gli effetti del tempo su di lui; conto gli anni, sbaglio le date e mi rallegro di un lapsus che ogni tanto mi fa invertire il giorno e l’anno della sua nascita – 29 gennaio 1921, trasformato da me in 21 gennaio 1929 – e augurargli buon compleanno alla data sbagliata. Così, quell’inversione fabbricata dal mio inconscio mi permette di regalargli otto anni di ringiovanimento. Per i suoi ottant’anni, mi misi in testa di offrirgli il Polo Nord, il suo Polo Nord.
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