DI MASSIMO FINI
Il gazzettino
Dopo il durissimo intervento di Silvio Berlusconi a Santa Margherita davanti alla platea dei giovani industriali è nata una nuova emergenza: “l’emergenza intercettazioni” (in Italia si vive sempre in clima di “emergenza”, non siamo capaci di affrontare qualsiasi problema con un minimo di serenità e di prospettiva).
Da una parte del centrodestra (Forza Italia) si fa una voluta confusione fra le intercettazioni telefoniche ordinate dall’autorità giudiziaria e la loro diffusione al pubblico attraverso i media. Sono due questioni collegate ma ben distinte. Le intercettazioni riguardano l’interesse della collettività a punire, attraverso la magistratura, gli autori di reati, la loro diffusione incide invece sul contrapposto interesse del singolo cittadino alla tutela della propria privacy e onorabilità. In una società complessa come l’attuale, le intercettazioni sono diventate un indispensabile strumento di indagine. Si illude, o fa finta, chi crede che si possa indagare ancora solo con i metodi del commissario Maigret o della signora Fletcher. Ha detto l’onorevole Di Pietro: «Proibire ai magistrati di usare le intercettazioni sarebbe come proibire ai chirurghi di usare il bisturi».
Come si fa, allora, a conciliare gli interessi contrapposti della giustizia e della privacy? Nonostante il confuso e ignorante canaio di questi giorni, la soluzione è abbastanza lineare: ripristinando, come abbiamo scritto tante volte, il segreto istruttorio previsto dal vecchio codice di Alfredo Rocco. Tutti i documenti istruttori (e non solo le intercettazioni) devono rimanere segreti fino al dibattimento. Perché in istruttoria sì e al dibattimento no?
Perché al dibattimento arrivano solo quegli atti che sono realmente indispensabili allo svolgimento del processo (e quindi l’interesse alla privacy del cittadino deve essere sacrificato a quello superiore della giustizia), mentre in istruttoria si raccolgono, per definizione, un mucchio di elementi una parte dei quali risulterà ininfluente ai fini del processo (e quindi, in questo caso, l’interesse alla privacy verrebbe sacrificato in nome del nulla o, peggio, di una morbosa curiosità). La tutela del segreto istruttorio è resa difficile dal fatto che sono numerosi i soggetti autorizzati ad essere a conoscenza degli atti: oltre, naturalmente, ai Pubblici ministeri, ci sono i cancellieri, gli organi di polizia giudiziaria e gli avvocati (in genere sono proprio questi ultimi a passare i documenti ai giornali). Bisogna quindi colpire con pene severe i succitati che contribuiscono a diffondere i contenuti delle intercettazioni (con aggravanti se si tratti di pubblici ufficiali) e con pene solo un po’ meno severe ma comunque incisive (e quindi non sanzioni pecuniarie, ma la reclusione) i giornalisti, i direttori e gli editori che si prestino a pubblicarle.
Detto questo, mi ha sgradevolmente colpito il tono violento usato da Berlusconi a Santa Margherita («Esclusi i reati di mafia, di criminalità organizzata e di terrorismo», ha detto testualmente, «cinque anni di reclusione per chi ordina le intercettazioni, cinque anni per chi le esegue, cinque anni per chi le propaga») e l’applauso di parte della platea. Entrambi, tono e applausi, hanno un significato preciso. Perché con la proposta di Berlusconi rimarrebbero fuori dalle intercettazioni i reati finanziari, la concussione, la corruzione, quelli contro non i magistrati che ordinano le intercettazioni e i poliziotti che le eseguono, come vorrebbe Berlusconi, ma tutti i soggetti della Pubblica amministrazione (che, non dimentichiamolo, rappresenta gli interessi di tutti i cittadini, i nostri interessi); cioè i reati tipici della collusione criminale fra imprenditori e politici, i reati di “lorsignori”. E che questo sia il vero intendimento lo dimostra il fatto che il premier di fronte alle proteste per la sua proposta ne ha avanzata un’altra che limita le intercettazioni ai reati che prevedono una pena superiore ai dieci anni, ipotesi che lascerebbe fuori, ancora una volta, la concussione e la corruzione.
Risibile è poi l’obiezione avanzata dai giornali berlusconiani (Il Giornale, Libero) che le intercettazioni ci costano 200 milioni di euro l’anno. Che vuol dire? Anche la polizia ci costa, dovremmo, per questo, rinunciare a difenderci? L’economia non è tutto per una società. E se non garantisce giustizia e sicurezza uno Stato non ha nemmeno ragione di esistere.
Massimo Fini
Fonte: www.ilgazzettino.it
13.06.08