Di Thierry Meyssan, voltairenet.org
Le elezioni per il nuovo parlamento europeo si terranno dal 6 al 9 giugno, a seconda dello Stato membro. I parlamentari avranno solo un potere molto limitato: voteranno le leggi elaborate dalla Commissione che, fin dalla sua istituzione, non è stata altro che cinghia di trasmissione della Nato all’interno delle istituzioni europee. La Commissione si appoggia sia sul Consiglio dei capi di Stato e di governo sia sul padronato europeo (BusinessEurope). I parlamentari hanno anche un altro potere: quello di formulare risoluzioni, ossia pareri a maggioranza semplice, che però nessuno legge né tantomeno gli dà seguito. Poiché l’attuale maggioranza è atlantista, tutti questi pareri riprendono la propaganda logorroica della Nato.
Negli Stati membri queste elezioni sono tradizionalmente sfogatoi per gli elettori. I governi quindi le temono e incoraggiano una proliferazione di liste alternative nei territori dei concorrenti. In Francia, dove la legislazione sul finanziamento delle campagne elettorali è molto restrittiva, il denaro che gli Stati Uniti e l’Eliseo iniettano in queste campagne proviene prioritariamente da Stati esteri (generalmente africani) e dalle imprese che stampano il materiale elettorale dei candidati [1]. Questa strategia porta a un’impressionante proliferazione di liste: già 21 in Francia e 35 in Germania!
Sebbene le elezioni avvengano sempre per lista, ogni Stato ha un proprio sistema di voto. Nella maggior parte dei casi si tratta di liste bloccate, come in Germania e in Francia. In altri Stati, come Irlanda e Malta, le liste sono trasferibili: ogni seggio da ricoprire viene votato singolarmente (il che riduce il ruolo dei partiti, pur mantenendo la proporzionalità). In altri casi ancora, come in Svezia e Belgio, gli elettori possono modificare l’ordine della lista da loro scelta. Oppure, come in Lussemburgo, possono votare candidati di liste diverse. Ognuno di questi sistemi di voto presenta vantaggi e svantaggi, ma non misurano tutti la stessa cosa.
I Trattati avevano previsto partiti europei, che però non esistono; segno che non esiste un popolo europeo.
I partiti nazionali sono quindi spinti a coalizzarsi in alleanze per designare il proprio candidato alla presidenza della Commissione europea. Tra questi candidati il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo sceglierà. Questo metodo di elezione indiretta è stato introdotto nel 2014. In pratica, la coalizione più grande viene identificata in anticipo. Jean-Claude Juncker e in seguito Ursula von der Leyen sono stati quindi designati prima che la loro coalizione conquistasse la maggioranza relativa.
Perché Mario Draghi possa imporsi a capo della Commissione, sarà necessario che la coalizione arrivata prima cambi bandiera all’ultimo momento: dopo la presentazione del suo rapporto sulla competitività delle imprese europee, Draghi verrebbe scelto per sostituire la ricandidatura di Ursula von der Leyen. Un maneggio che consentirebbe di cambiare brutalmente i temi in discussione: durante il periodo elettorale si discute dei risultati dell’amministrazione von der Leyen, ma poi, improvvisamente, il tema centrale diventa federare l’Unione europea a scapito degli Stati membri.
È un argomento di cui gli elettori non capiscono nulla. Possono capire che «L’Unione fa la forza», ma non capiscono le conseguenze che si ripercuoterebbero su di loro se gli Stati membri scomparissero. L’Unione europea non è affatto un organismo democratico, ancor meno lo sarebbe lo Stato-Europa.
Anche se Mario Draghi non potesse presentarsi, la domanda centrale, ma occultata, rimarrebbe questa: «Le popolazioni dell’Unione europea devono o no formare uno Stato unico, benché oggi non formino un popolo unico?». In altre parole, accetteranno che le decisioni vengano loro imposte da una maggioranza di “regioni” (non si parlerebbe più di Stati membri) cui non appartengono?
Questa problematica fu esplicitamente posta dal cancelliere tedesco Adolf Hitler nel 1939. Egli voleva creare una Grande Germania, composta da tutti i popoli di lingua tedesca, al centro di una costellazione di piccoli Stati europei, ciascuno fondato su un particolare gruppo etnico. Dopo la caduta del Reich nel 1946, il primo ministro britannico Winston Churchill avrebbe voluto creare gli Stati Uniti d’Europa, cui il suo Paese non avrebbe in alcun modo partecipato [2]. L’idea era che “l’impero su cui non tramonta mai il sole” potesse confrontarsi con un unico interlocutore, comunque non in grado di competergli. Anche questo progetto non fu realizzato: qui la spuntò il «mercato comune». È su questo che torniamo ora.
In ambito economico, l’Unione si sta muovendo verso una specializzazione del lavoro. Per fare esempi, alla Germania andrebbe l’automobile, alla Francia toccherebbero i prodotti di lusso e alla Polonia i prodotti agricoli. Ma come reagiranno gli agricoltori tedeschi e francesi che saranno sacrificati all’interesse di quelli polacchi, o i produttori di auto polacchi, a loro volta sacrificati a beneficio di quelli tedeschi?
In ambito di politica Estera e di Difesa, l’Unione ha sposato la linea atlantista. In altre parole difende le stesse posizioni di Washington e Londra. Ma questa linea potrebbe essere imposta a tutti, anche agli ungheresi, che si rifiutano di diventare antirussi, o agli spagnoli, che si rifiutano di sostenere i genocidari israeliani. Secondo i Trattati, la Difesa dell’Unione è affidata alla Nato. Il presidente statunitense Donald Trump pretendeva che questa difesa non costasse nulla agli Stati Uniti e che gli europei aumentassero le spese militari al 2% del PIL. A oggi solo 8 Stati su 27 lo hanno fatto. Se la Ue diventasse un unico Stato, il desiderio di Washington diventerebbe un obbligo per tutti. Per alcuni Paesi come l’Italia, la Spagna e il Lussemburgo, ciò significherebbe un’improvvisa riduzione dei programmi sociali. È improbabile che le popolazioni lo apprezzerebbero.
Inoltre, c’è il caso particolare della Francia, che è membro permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e possiede la bomba atomica. Dovrebbe mettere queste prerogative al servizio dello Stato unico, con il rischio che la maggioranza del Consiglio europeo le usi contro le opinioni dei francesi. Ma anche in questo caso le popolazioni non lo accetterebbero.
Tra l’altro, lo Stato-Europa (che non ha nulla a che vedere con il continente europeo, molto più esteso) sarebbe quindi un impero, costretto però ad accettare che parte del suo territorio, Cipro Nord, sia occupata dalla Turchia dal 1974.
Nessuno di questi problemi è nuovo: a causa di essi alcuni politici europei, tra cui il generale Charles De Gaulle, acconsentirono al “mercato comune” e rifiutarono “l’Europa federale”.
Oggi sono di nuovo al centro delle preoccupazioni dei leader europei atlantisti, ma non dei loro popoli. Ecco perché faranno di tutto per nasconderli in queste elezioni. È la questione centrale, ma anche quella che inquieta di più.
A questi problemi politici si aggiunge quello organizzativo. L’èra industriale ha lasciato posto a quella dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. Le organizzazioni verticali dell’inizio del XX secolo, in economia e in politica, hanno lasciato posto a organizzazioni orizzontali e in rete. Il modello verticale dello Stato-Europa è quindi superato prima ancora di nascere. Inoltre, chiunque conosca quest’enorme macchina amministrativa, ne ha già visto la futilità: alla fine serve solo a rallentare la crescita che invece sarebbe supposta stimolare. L’Unione è ormai molto indietro rispetto a Cina, Russia e Stati Uniti; il progetto federale non solo le impedirà di riprendersi, ma la farà addirittura retrocedere rispetto alle potenze emergenti.
Si potrebbe pensare che i sostenitori dello Stato-Europa abbiano interesse ad attrarre un’ampia partecipazione per legittimare il loro progetto. Non è così: il progetto federale non viene discusso in questa campagna elettorale, ma se ne discuterà il giorno successivo, con Mario Draghi. Quindi tutti stanno facendo il possibile per sottolineare che l’Unione organizza delle elezioni (fatto ritenuto sufficiente a renderla democratica) ma al tempo stesso si assicurano che il minor numero possibile di persone s’intrometta. La partecipazione, nell’intera Unione, potrebbe non raggiungere la metà degli elettori.
Rachele Marmetti