DI ROBERTO SAVIANO
L’Espresso
Gli omicidi ignorati per anni con cinismo. L’ascesa mondiale dei clan. Le minacce contro chi aveva la forza di reagire. Il disastro ambientale di tutto il Sud. Il degrado che ha corroso una città e una regione. Sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno intervenisse. L’urlo di denuncia di uno scrittore che non vuole tacere
Danilo Dolci nel 1956 a Partinico stava ristrutturando una strada dissestata come forma di protesta. Una sorta di sciopero attivo, una rivolta rovesciata. Se a Sud si doveva marcire nella disoccupazione, Dolci proponeva di attivarsi, iniziare a fare, rendere accessibile ciò che non lo era. Iniziare a farlo ristrutturando strade, quelle che avrebbe dovuto mettere a posto il comune. Lo faceva lui assieme ai suoi disoccupati. La polizia arrivò sul luogo e arrestò tutti. Si racconta che un poliziotto gli si avvicinò dicendogli: “Signor Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?”. Come dire, torni alla sua più innocua attività e tutti vivremo più tranquilli. Dopo aver perquisito molti disoccupati-lavoratori, i poliziotti videro che tanti avevano nelle tasche e a casa gli scritti di Dolci. Lo stesso poliziotto, dopo averlo arrestato, lo avvicinò ancora in manette dicendogli: “Signor Dolci le troveremo un lavoro duro, così finalmente smetterà di scrivere questi libri che ci creano solo guai!”. Quel poliziotto aveva in una manciata di ore cambiato idea perché aveva esperito il peso specifico della parola.La cosa che genera scandalo è che uno scrittore, il mestiere considerato più innocuo e incapace di poter avere alcun tipo di forza sulla realtà, possa d’improvviso divenire responsabile di una luce che prima era sbiadita e sbilenca, di uno sguardo infame che spiffera ciò che si vuole celato, che urla quello che è sussurrato, che traduce in sintassi e insuffla vita a quello che prima era disperso in frasi frammentarie di cronaca e sentenze giudiziarie. La vita o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello, eppure ci sono momenti in cui la vita, la si scrive per mutarla. Ciò che mi è capitato in questi giorni ha generato apprensione e scandalo, ma in realtà non per quello che è accaduto – dalle mie parti ciò che mi è accaduto capita a moltissime persone, quotidianamente e per molto meno – ma perché è accaduto a uno scrittore. Per uno scrittore il modo per innestarsi nel reale è raccontarlo. È uno scrittore che può congetturare, immaginare ciò che non vede. La sua immaginazione e la sua congettura però non seguono l’arbitrio della licenza poetica, ma sono strumenti necessari per avvicinarsi ancora più al vero in ciò che osserva: oltre ai nomi, ai documenti, alle sentenze, alle intercettazioni, ai fatti rispettati e ripresi. Quando racconti un processo, quando raccogli la cronaca nera, quando ascolti le intercettazioni comprendi che l’unico modo per capire è raccontare tutto questo come parte di un corpo che nasconde i suoi organi. E d’improvviso quello che nel perimetro di certe zone conoscevano tutti, passandosi le storie di bocca in bocca, impastandole di particolarità soggettive e leggende, quello che finiva negli articoli di cronaca, quello che sembrava essere territorio di addetti ai lavori, operatori sociali invisibili ed esperti sociologi dell’antimafia, diviene il racconto di un intero paese, l’epica fascinosa e terribile di un capitalismo vincente che vede nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nei subappalti, nei rifiuti, nella distribuzione e in quant’altro possa creare respiro al profitto, il proprio sterminato territorio di conquista.
Pierluigi Vigna, quando era procuratore nazionale Antimafia, dichiarò che era di 100 miliardi di euro il profitto annuale dei maggiori gruppi criminali italiani. Una cifra che lo stesso procuratore segnalò essere riscontrata per difetto. Nessuno tremò per questa cifra. Nessuno trema se la Germania segnala che negli ultimi anni 90 milioni di euro sono stati investiti dalla ‘ndrangheta nel settore turistico e immobiliare. Nessuno trema nel pensare che la più grande azienda italiana è formata dalla camorra, dalla ‘ndrangheta, da Cosa Nostra e dalla Sacra Corona Unita. E anche se qualcuno inizia a tremare, sembra che riesca a farlo solo per qualche giorno, per qualche settimana, fino a quando i fatti inanellati in cronaca di emergenza non vengono soppiantati da emergenze nuove. D’improvviso mi sono fermato in questi giorni, fermato da una sorta di ansia, e anche una sorta di svuotamento, quando vedevo un’attenzione a una terra, costante, che desideravo ci fosse stata da sempre, prima che galleggiassero in superficie gli elementi del disastro. E giravo intorno a una domanda rivolta a una potenza impersonale che ha gli occhi dei media, la testa della politica e le sembianze di me stesso: Ma dov’eravate? Dov’eravate quando si ammazzavano due persone al giorno. Dov’eravate quando si concludeva il processo Spartacus presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) – 21 ergastoli e oltre 500 anni di reclusione, più di sette anni di dibattimento passati in silenzio sulla stampa nazionale. Dov’eravate quando i magistrati, come Raffaele Cantone, portavano avanti indagini che dimostravano chiaramente che erano l’Emilia Romagna e Roma i centri degli affari del clan dei Casalesi, dov’eravate quando Tano Grasso attraversava in lungo e in largo la Campania, cercando di raccogliere forze, persone, associazioni in una battaglia alle vecchie e nuove forme di racket e controllo del territorio. Dov’eravate quando giornalisti della mia terra venivano sistematicamente minacciati, come Rosaria Capacchione che entrò nel mirino dei clan a causa dei suoi articoli – secondo il pentito Luigi Diana – venne condannata dal boss Vincenzo De Falco, fratello del mandante dell’omicidio di don Peppino Diana, ma il boss fu eliminato prima di realizzare il suo piano, quando Enzo Palmesano riceveva proiettili nella cassetta della posta per il suo impegno di cronista contro i clan mafiosi presenti nell’Agro-caleno. Dov’eravate quando qui crepavano innocenti, come Attilio Romanò, colpevole di essere dipendente di un negozio che i clan hanno creduto essere ascrivibile a un parente lontano di un camorrista, quando nel 2002 spararono in faccia a un sindacalista, Federico Del Prete, e la notizia neanche giunse sulla stampa nazionale.
Per anni, quando si scriveva di queste cose al di fuori del lecito territorio della cronaca, la voce era la stessa, si veniva presi per matti, malati, figli di un passato lontano. Mi sembrava di sentire le parole dell”Huckleberry Finn’ di Mark Twain, quando d’improvviso, dopo uno scoppio in una stiva, qualcuno chiede: “Che cosa è successo?” e rispondono: “Niente, è morto un negro”. Niente. E l’acido razzismo è simile al niente che veniva battuto come dispaccio dal Sud. Dispacci di guerre senza storia, di vicende di margine, un niente da seppellire sotto le mostre di quadri, i vernissage museali, un niente che è molto simile e non soltanto speculare al ‘succede di tutto’ che viene pronunciato nei giorni d’emergenza. Niente, perché riguarda feccia. Non è successo niente. Ma non è vero.
Penso spesso a come devono essersi sentiti molti magistrati campani quando, chiudendo il più importante processo di mafia degli ultimi anni, il processo Spartacus, superando difficoltà logistiche e cavilli politico-giudiziari, hanno visto la loro sentenza ignorata per larga parte. Penso spesso al giudice Lello Maggi, a quando si è trovato a scrivere la sentenza, e nelle prime pagine fa cenno alla figura di uno scrittore che sarebbe stato in grado di raccontare quel che lui stava per analizzare con gli strumenti e i parametri della disciplina giuridica, raccontare quel potere che non riguardava soltanto gli spazi di un territorio di provincia, e non soltanto il sangue delle centinaia di ammazzati, ma riguardava molto di più. E Raffaele Marino, uno dei magistrati in prima linea nella lotta alla camorra napoletana, quando gli chiesi se lui non ritenesse in fondo innocua una narrazione basata sui fatti che lui stesso contribuiva ad accertare, mi rispose: “La scrittura letteraria non è innocua per niente, ha rotto una delle croste che relegavano questi meccanismi e questi poteri a una mortale dialettica tra magistrato, camorrista, tribunali e cronaca nera. La città, l’intero paese credeva di esserne escluso, credeva che tutto fosse relegato a una trascurabile parte del territorio. Ora ha lasciato quest’esilio e ha coinvolto tutti. Nessuno può più sentirsi escluso”.
In tutti questi anni, mentre persino la guerra di Secondigliano non riusciva ad avere la stessa visibilità dei fatti riportati in questi giorni, a Napoli e intorno a Napoli continuava a formarsi e trasformarsi un modo nuovo per raccontare quel che stava accadendo. Come se fosse divenuto un imperativo necessario iniziare a raccontare quel che stava sotto gli occhi. Così Maurizio Braucci, scrittore in grado di farsi accompagnatore di ragazzi di quartiere, capace di tenerli lontani dal Sistema non strappandoli dalla loro vita, ma dandogli strumenti per scegliere di andare avanti senza la sola certezza di giocarsi la morte come vantaggio sugli altri per fare affari, capace come nessun altro di tradurre in narrazione la conoscenza di una vita spesa nel cuore della città. E poi le foto di Mario Spada, foto senza curiosità esotica che puntano l’obiettivo sulla ferocia, ma senza farne scandalo, quasi con familiarità. E i video di Pietro Marcello che raccontano la silenziosa emigrazione notturna dal Sud verso il Nord dei treni espresso, le nuove rapaci borghesie corrotte raccontate nella deformazione pantagruelica di Giuseppe Montesano, lo sguardo sui ragazzini di Diego De Silva che sembrava annunciare quello che sarebbe di lì a poco diventata una realtà molto più estesa e feroce, le donne di Valeria Parella strappate alla patina d’ogni folklore, le città distratte e soffocanti di Antonio Pascale, i deliri della terra dei terremoti e della Pozzuoli infernale di Davide Morganti, i primi libri che mettevano mani nel fango di Peppe Lanzetta. I gruppi rap, gli A67 e i Co’ Sang’, che nascono non più nei centri sociali, ma nelle periferie di camorra, che danno voce a una rabbia che non è più soltanto contro qualcosa, ma dentro, che parlano per e contro quelli cui vivono accanto, a cui appartengono, che sono come loro. Tutti loro hanno trovato modi nuovi e non concilianti per raccontare il proprio tempo e agire in esso. Sguardi diversi, linguaggi differenti che deformano il reale per scarnificarne le verità e lo inchiodano con freddezza e lo urlano con rabbia, ma tutti nati e vincolati da un territorio che così raccontato non è più soltanto Napoli, ma qualcosa che ha a che fare con le dinamiche di ogni metropoli occidentale dove si vanno foggiando nuove e rapaci piccole borghesie, incoscienti di essere piccole, ma ben coscienti di come si fa ad affermarsi e di quali mezzi usare. Ed è in questa Napoli visibile sempre solo nel singolo libro, disco o film che riesce ad avere successo oltre i confini locali, mai però come movimento esteso e costante, come humus che stava generando una cultura capace di mostrare e anticipare meglio di ogni altra fonte più oggettiva quel che stava e che doveva ancora accadere, che mi sono formato.
Da tutto questo le mie parole scritte sono state create e non vorrei che continuasse a essere ignorato, così come non vorrei che si parlasse oggi di camorra per continuare a ignorare la rete ampissima in cui tutte le organizzazioni criminali avvolgono e coinvolgono tutto il paese e l’Europa intera. Della cultura e dell’immaginario nato nel ultimo decennio a Napoli e dintorni, nato insieme e accanto alla trasformazione turbocapitalista dei clan campani, nei resoconti e commenti dei media nazionali e internazionali delle passate settimane non v’era quasi traccia. È stato strano ascoltare alcune parole che il mio libro aveva contribuito a divulgare – il termine ‘Sistema’ usato dai clan per definire la camorra è l’esempio perfetto – e percepirle come un abito nuovo calato addosso a un corpo vecchio e decrepito. Un immaginario completamente sbagliato. Quel che sta avvenendo a Napoli viene fissato da uno sguardo che non si spinge oltre al cerchio della città, non contempla quasi mai nemmeno i comuni della provincia con i suoi clan potentissimi da decenni, ma cerca di risolvere il tutto allacciando il filo della storia, come se l’oggi fosse l’ultimo frutto impazzito della vittoria del popolo sanfedista sull’aristocrazia giacobina di Eleonora Fonseca Pimentel e Domenico Cirillo. Il trionfo drogato della suburra, un delirio da disperati. Prima che me ne andassi dai Quartieri Spagnoli, vedevo che i clan del centro storico meno potenti si stavano riorganizzando. E il primo passaggio è stato quello di ritornare sul territorio, negozi, magazzini, salumerie, le nuove leve dei clan stanno invece pensando a come tornare ad apparire mediaticamente i più temibili, divenire nuovamente quelli appartenenti al quartiere che più fa paura: “Dobbiamo far vedere a quelli di Scampia che noi siamo i peggio”. Il medesimo stile che sta facendo comprare a moltissimi ragazzi dell’area nord di Napoli lo scooter T-max perché usato dalle paranze di fuoco dei Di Lauro per la parte maggiore degli agguati, una sorta di cavallo meccanico dell’apocalisse. Ma la loro ferocia è la medesima di chiunque possa considerarla uno strumento per crescere economicamente, iniziare un percorso nel mercato. L’ossessione del divenire commercianti e imprenditori, e di considerare lecita ogni forma per raggiungere una meta, l’ossessione che, rendendoli rivali, accomuna non solo i quartieri storici del centro alle periferie e ai paesi del hinterland, ma apparenta Napoli a Mosca o a Rio de Janeiro e mette in relazione le bande che rubano ed estorcono con l’uso di una violenza spropositata, strafatta, adrenalinica con le gang che dilagano per il Centro e Nordamerica, in Africa, in ogni altra parte del mondo.
È questo, qui e altrove, che rende la ferocia un arnese del successo. È questo ciò che viene occultato quando si usano ancora parole come ‘plebe’, ‘lazzari’ o ‘subculture’. Si parla di subculture, ma la musica dei neomelodici viene ascoltata in tutto il Mezzogiorno, anzi in tutta Italia, e alcune delle loro canzoni, tra cui quelle scritte da Lovigino Giuliano, il boss di Forcella, entrano nella hit parade, rimbalzano nei villaggi turistici, finiscono in tv come se fossero esistite da sempre e per tutti. Plebe è parola che tiene a distanza, che esprime il rifiuto di annusare, di fissare da vicino qual è la forza, la logica, ma anche le contraddizioni, le vulnerabilità, le violente trasformazioni che subiscono coloro che si trovano così definiti, parola che la letteratura per istinto vitale rigetta come chi non vuole farsi curare la febbre coi salassi. Plebe perché sembra impossibile che le gang che fanno rapine siano altro che una forza oscura che contamina la città con la paura e la ferocia, perché sembra impossibile che la contaminazione non conosca limiti di classe, perché sembra molto più rassicurante individuare una direzione unica del contagio in corso. Ma quando i boss scrivono libri, discettano di psicoanalisi, investono in opere d’arte, quando fanno crescere nuove leve istruite alle università, quando si dimostrano capaci di gestioni e investimenti sofisticati, di strategie economiche lanciate su scala mondiale, come è possibile non vedere che sono altro di quel che è sempre stato, non accorgersi che la loro vittoria in queste e simili terre ha un peso e una forza d’attrazione quasi irresistibile?
Nulla è statico, delimitato, univoco, nel mondo e nel tempo stravolto in cui si trova Napoli. Nulla comincia dove comincia, nulla finisce dove finisce. I rifiuti, le montagne di rifiuti, la monnezza napoletana divenuta simbolo del disastro, ficcata dentro a colori forti e odori nauseabondi in ogni articolo scritto da Roma a Londra, Parigi e Berlino, l’assurdo dei rifiuti campani spediti d’emergenza al Nord, persino in Germania, mentre le aziende di Veneto, Lombardia e persino Toscana come dimostrano le inchieste della Procura di Santa Maria Capua Vetere, hanno sversato da oltre trent’anni in Campania e più allargatamente nel Mezzogiorno i loro veleni, quando le organizzazioni ambientaliste, le iniziative locali hanno gridato invano che stava avvenendo una contaminazione catastrofica che avrebbe contagiato tutto: terre, coltivazioni, bestie e uomini destinati a crepare di cancro come di una nuova peste moderna. Quando si attraversa la campagna casertana piuttosto che quella calabrese, in molte zone senti gli odori marci, i sapori rancidi o corrosivi. E tutto questo brucia. Ti brucia dentro, rovente. L’immagine dei rifiuti tossici intombati e bruciati nelle campagne campane e calabresi è l’esatto rovescio dell’immagine dei rifiuti ammonticchiati e bruciati nei cassonetti napoletani, l’immagine che dice che il problema della criminalità e del degrado puzza fino al cielo e scava sotto terra ed è di tutti: di tutto il paese, di tutta la politica che lo governa. E ora non possono non far nulla.
Ogni regione che ha ospitato aziende che hanno avvelenato facendo appalti con i clan dovrebbe prendere parte alla bonifica del territorio. E la politica campana dovrebbe confrontarsi con i suoi errori madornali, gli sprechi e gli affari sui rifiuti. Eppure ciò che la camorra dimostra è che il paradigma politico-mafioso è ribaltato. Si credeva che la politica fosse il volano per la crescita dei clan. Ora i clan hanno egemonizzato la possibilità di decidere gli affari e, a partire dagli affari, tutto ciò che ne consegue. Così accade che i clan riescono a tenere la politica in pugno senza, come in passato, legarsi direttamente a un politico o cercare alleanze stabili con una parte politica, e invece scelgano di volta in volta come conviene. E non vale più soltanto il meccanismo politica-appalto-impresa criminale, ma sempre più quello contrario: impresa criminale-appalto-politica. L’impresa criminale è così potente e presente in ogni ambito che vince appalti e condiziona qualità e prezzi e divenendo vincente, determina la politica: usandola e non essendone usata. E sempre più il territorio criminale è un territorio così labile che ha l’immagine dell’intermittenza. Ormai la politica si rapporta sempre meno ai bisogni e ai desideri delle persone. Si passa da una dichiarazione all’altra, da una decisione spettacolare all’altra. I politici spesso non conoscono più il territorio, non ascoltano, non sanno cosa sta accadendo, ma ne danno interpretazione. La politica quando inizia a spartire posti, quando in cambio di favori e lavoro riceve voti, quando appalti e sanità divengono miniere in cui racimolare consenso e ricchezza, già si predispone alle logiche da clan, e in queste logiche, i clan vivono si alimentano e trionfano.
Così può accadere nel Mezzogiorno che le regioni con i gruppi criminali più potenti d’Europa possono senza problema alcuno vedere vincitori l’intera compagine dell’arco parlamentare. Si è creduto per troppo tempo che dopo tangentopoli la stagione dei clan egemoni in ogni parte della vita economica e sociale del paese fosse circoscritta e relegabile ad alcuni territori geografici e politici, ma i clan entrano vincenti nel mercato, entrano nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nelle forniture, mercati, carni, benzina, entrano nella finanza e nell’economia globale, porte a cui nessuna politica si rifiuta di obbedire. Nessuna parte politica può sentirsi al riparo, nessuna parte politica può sentirsi innocente per ciò che accade. Tutto è da rifare. Ad oggi sembra esserci ancora nell’aria il sapore amaro delle parole di Antonino Caponnetto, quelle pronunciate dopo la morte di Paolo Borsellino: “È tutto finito”.
Ma per la scrittura non è mai tutto finito, la scrittura si alimenta della possibilità di equiparare veleno e zucchero, assaggiare come stanno le cose al di là di ogni categoria, al di là del buono e del malamente, con l’unica certezza che la rabbia espressa vale più di qualsiasi cosa e più del silenzio. Si racconta, come una leggenda, ciò che disse don Peppino Diana, il prete ucciso dalla camorra nel 1994, una volta mentre celebrava un funerale e le stesse parole furono poi di don Tonino Bello. Don Peppino era stanco di celebrare funerali in una terra che aveva il primato per morti ammazzati e morti bianche sul lavoro. Iniziò così la sua provocazione: “A me non importa sapere chi è Dio”. Non è difficile immaginare il brusio delle navate di una chiesa di paese che sente pronunciare tali parole roventi: “Mi importa sapere da che parte sta”. Avere una parte, essere in grado di capire ancora che natura ha un paese, in che condizioni si trova, come avvicinarlo con uno sguardo che voglia vedere, vedere per capire, per comprendere e per raccontare. Prima che sia troppo tardi, prima che tutto torni ad essere considerato normale e fisiologico, prima che non ci si accorga più di niente.
Roberto Saviano
Fonte: http://espresso.repubblica.it/
Link: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/E%20voi%20dove%20eravate/1436068//4
16.11.2006